L’immagine-scatola

Arte e scienza dei fantasmi

Donald Daedalus&Fiamma Montezemolo, Mi-lieus, 2009
Donald Daedalus&Fiamma Montezemolo, Mi-lieus, 2009.

La serie di interviste su arte ed estetica – pubblicate in occasione delle lectio magistralis organizzate al Macro Asilo in collaborazione con Orthotes Editrice – prosegue con l’intervento di Federico Leoni.

MP Immagine. Parola che si considera chiave nella nostra società, non a caso a volte definita anche come società dell’immagine. A margine del tuo intervento al Macro, mi viene in mente che tu sembri mettere questa parola tra parentesi o in scatola, facendo riferimento alle opere che ci hai mostrato. Nel senso che mi sembra che tu voglia dimostrare che non ci sia un’immagine pura, né tanto meno l’immagine di un’immagine, ma piuttosto un oggetto che emerge da un fondo o contestualizzato in una cornice. Ci puoi spiegare questa dinamica?

FL Sì, la nostra è una società dell’immagine, o lo è stata per lungo tempo e per tanti versi continua a esserlo, insieme a tante altre cose che ha iniziato a essere in seguito, dopo quella diagnosi ormai lontana dei situazionisti. Ma l’immagine che quel tipo di società frequenta o frequentava è un’immagine molto particolare, un’immagine ridotta ai minimi termini. Anche la denuncia dell’immagine, dell’immaginario, che spesso si accompagna a quella diagnosi, è una denuncia ridotta ai minimi termini. Non fa davvero i conti con la questione dell’immagine. Liquida il registro dell’immagine e dell’immaginario in base a una specie di moralismo che suppone che ci sia qualcosa d’altro e di ben più importante. Per esempio, il linguaggio o il simbolico starebbero più in alto dell’immagine e dell’immaginario. Oppure, l’essenza o la cosa stessa starebbero più in alto dell’immagine e cioè dell’apparenza. Dietro questo moralismo sta una sorta di platonismo. La nostra condanna delle immagini e della società dell’immagine sono spesso ispirate a questo platonismo, sia quando lo sanno, sia quando non lo sanno. È in Platone che si mette in movimento tutta la questione delle immagini, che per tanti versi è la questione stessa della filosofia e dell’Occidente figlio della filosofia.

MP Ci puoi spiegare meglio il tuo assunto platonico?

FL Uno dei grandi dialoghi di Platone si intitola Il sofista. Non è che un tentativo di classificare le immagini. Ci sono quelle buone, veritiere, e via via, scendendo di livello, arriviamo a quelle meno affidabili, a quelle più ingannevoli. Si tratta dei simulacri. Ecco, con questo testo, a quell’altezza, si prendono alcune grandi decisioni. Le immagini vengono di fatto squalificate. Ma al fondo di questa squalifica, al fondo di questa strategia complessiva, la questione dell’immagine continua a restare attiva, continua a produrre effetti, continua a travagliare questo edificio così apparentemente compiuto. Si tratta però di tutt’altra immagine, quando parliamo di quest’immagine che lavora segretamente. Perché un conto è chiedersi, come fa Platone, se l’immagine corrisponda alla cosa, se sia più o meno affidabile, se sia più o meno fedele, e costruire una classificazione delle immagini in base alla loro somiglianza alla cosa. Un conto è vedere quel punto vertiginoso che si spalanca nel momento in cui ti accorgi che non c’è cosa senza immagine della cosa, e che non hai mai in una mano la cosa, e nell’altra mano l’immagine della cosa. Non puoi fare questo confronto. La cosa che hai in mano è già inscritta in un’immagine, è già in blocco con un’immagine. Un’immagine non è immagine di una cosa senza essere anche e prima di tutto immagine che fa sorgere quella cosa, immagine a immagine della quale la cosa sta sorgendo. Quella che chiamo, per esempio nel mio ultimo libro, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, immagine-scatola, è l’immagine dentro cui sta la cosa, l’immagine grazie a cui la cosa è la cosa, l’immagine che è tutt’uno con la cosa perché la cosa sia la cosa. La psicoanalisi chiama questo tipo di immagine «fantasma». La filosofia contemporanea, da Bergson in avanti, la chiama «immagine pura», «immagine in sé». È il fondo dell’immagine, che opera in ogni immagine immaginata, in ogni immagine immaginaria, in ogni immagine che è immagine di qualcosa per qualcuno, in ogni immagine di cui vive la cosiddetta società delle immagini. L’immagine-scatola è un’immagine invisibile, un’immagine che vive nel buio, che non è fatta per farsi vedere ma per far vedere.

MP Sviluppando ulteriormente questo discorso, potremmo dire che l’opera d’arte è sempre localizzata, nel senso che appare inseparabilmente da un fondo e fa apparire al contempo quel fondo (o lo nasconde). Come inserire questa dimensione sorgiva dell’opera d’arte con ciò che nell’arte moderna viene considerato un discrimine e cioè l’objet trouvé di Duchamp, che invece sembra operare di più attraverso la dislocazione o la rilocalizzazione e dunque attraverso la separazione dal luogo sorgivo?

FL Quando parlo dell’immagine-scatola penso spesso a un grande artista americano, Joseph Cornell, un artista straordinariamente potente, commovente, divertente. Raccattava cose abbandonate, oggetti trovati in negozi di seconda meno, vecchi libri. Poi li inseriva dentro a delle cornici, delle scatole, delle specie di bacheche. Le componeva in una specie di scena, di scenario. Uno psicoanalista come Jacques Lacan avrebbe buon gioco a dire che quelle scatole sono fantasmi, nel senso tecnico che questa parola ha in psicoanalisi. Ogni soggetto ha conficcato in sé un punto fantasmatico, uno scenario fantasmatico, ed è come sospinto e orientato da quello scenario. Incontra il mondo e se stesso, impara a desiderare e godere delle cose e degli altri secondo certe linee, certe modalità, certe tonalità che sono dettate da quell’immagine fantasmatica. Se lo è ritrovato tra le mani, senza saperne nulla, sulla base di certi incontri che si sono come scritti, depositati in una specie di scatola, di cornice complessiva. Ma più esattamente, sono quelle cose incontrate, quegli oggetti raccattati qua e là, un pezzetto di frase, un certo affetto, una prospettiva della stanza o della città, a disegnare la cornice dentro cui si svolgerà una vita. Sono quelle cose che si sono agglomerate in una specie di cluster, di eterogeneità trascendentale, a costruire l’immagine-scatola, l’immagine a immagine della quale si formerà ogni immagine, ogni cosa, ogni esperienza, ogni oggetto. E tra quegli oggetti ci sarà anche il soggetto, quello che chiamiamo superficialmente soggetto. Anche il soggetto è una delle cose incollate nella cornice o nella scatola. Proprio come il pappagallino verde di una delle opere di Cornell. O come la civetta di cui un’altra celebre scatola ci proporrebbe, secondo il titolo, l’habitat, che con sublime sberleffo è la scatola stessa, con qualche pezzo di corteccia, un lembo di cielo notturno, e così via. Questo strappare un oggetto banale, isolarlo attraverso la forza di un incontro, ritrovarselo elevato a una potenza propriamente paradigmatica, a una potenza che è la potenza di mettere nella propria immagine ogni altra cosa, una potenza che i tedeschi chiamano appunto letteralmente Einbildungskraft, non è appunto questa l’operazione di Duchamp?

MP La sorgività e l’inseparabilità dal fondo dell’opera concernono prevalentemente il suo farsi o la sua ricezione? In altre parole l’atto artistico riguarda maggiormente chi lo compie o chi lo recepisce?

FL Credo che siamo spesso viziati da un’estetica della ricezione, da un’estetica che suppone che ci sia un oggetto già fatto, che l’arte abbia a che fare anzitutto con opere, con oggetti che si tratta di contemplare o di cui dovremmo fruire, come spesso si dice. Questa visione delle cose retro-agisce persino sull’artista, che è pensato come qualcuno che anzitutto ha un compito, quello di produrre un oggetto in vista del fatto che qualcuno lo contemplerà. Di qui la domanda: l’atto artistico ha a che fare con chi produce l’oggetto o con cui fruisce dell’oggetto? In entrambi i casi la questione dell’oggetto, la convinzione che al centro ci sia l’oggetto, domina la scena e accomuna le opzioni. Ma se guardiamo abbastanza lontano, sia indietro sia in avanti, vediamo tutt’altra cosa. Vediamo dei riti, delle produzioni collettive, degli eventi molto pratici, di cui l’opera è il residuo, il resto. Conservare il resto serve a riattivare il rito, e il rito, quando è tale, attraversa ogni soggetto che vi si trova convocato, travolgendo in gran parte la distinzione tra l’autore e lo spettatore. Chi ascolta della musica, risuona di quella musica e letteralmente risuona quella musica, la risuona in sé, la ripete in sé e insieme agli altri. Certo, abbiamo delegato l’arte a pochi specialisti, e ci ritroviamo ad ascoltare musica che non sapremmo mai suonare, o molto maldestramente. E così per tutte le altre arti. Ma questo è semplicemente un errore, o almeno un accidente, un effetto di certe congiunture di cui si potrebbe tratteggiare abbastanza facilmente una genealogia, e dunque di cui si potrebbe altrettanto facilmente immaginare una qualche reversibilità. L’arte è un insieme di pratiche, un insieme di operazioni di cui dovremmo finalmente riappropriarci. Dovremmo riappropriarcene sia che siamo fruitori, espropriati del saper fare che è riservato ai cosiddetti artisti, sia che siamo artisti, espropriati della centralità del nostro fare in nome della centralità cosiddetta opera. L’opera è la pausa di un’operazione, il rallentamento di un’operazione, a volte l’interruzione di un’operazione, e invece diventa il centro di tutto, di una logica espositiva, di una gigantesca economia, di una pedagogia completamente passiva e paternalistica, e così via.

MP Esiste secondo te una leggibilità temporale appropriata per un’opera d’arte? In altre parole, l’opera d’arte viene all’atto in un tempo specifico restando in altri tempi non leggibile, non pienamente in atto?

FL Sì, Walter Benjamin pensa in questo modo, pensa per appuntamenti, per momenti in cui una certa congiuntura rende leggibile qualcosa che altrimenti resta oscuro o solo marginalmente rilevante per altre epoche o altre congiunture. Aggiungerei che questi appuntamenti ci sono, ma sono presi in un continuo spostamento, le opere entrano ed escono attraverso questo gioco di piccoli appuntamenti, di piccoli slittamenti di leggibilità. Vengono meglio illuminate per un lato, poi per un altro lato, ma al prezzo di perdere il precedente, e così via. E forse aggiungerei anche un’altra cosa. Oltre alla leggibilità, ancor più della leggibilità, è una certa usabilità dell’opera, una certa concatenabilità dell’opera, che mi sembra in gioco in questi avvicendamenti. In quegli appuntamenti, in quelle occasioni, una stessa opera può entrare in nuovi concatenamenti, può fare da supporto e da innesco di alleanze inedite, può favorire l’intreccio di ambienti, forme di vita e pratiche prima slegate. Ecco, quello è un momento in cui cresce non solo la possibilità di leggere ma la possibilità di usare l’opera, di rimetterla dentro un insieme di riti, di operazioni, di eventi. Quello è il momento in cui l’opera tornare a essere operazione, evento. E noi con lei.

MP Come caleresti la tua idea di arte su opere il cui «atto» rimane soltanto nel «fatto» della documentazione? Ad esempio, una performance teatrale rispetto alla sua documentazione audiovisiva?

FL Direi qualcosa di simile a quanto provavo a suggerire poco fa. Il documento audiovisivo è l’opera in cui si è sedimentata l’operazione, la performance. Da un lato non c’è operazione che non si sedimenti in opere, in tracce, in documenti. Il documento audiovisivo è una delle tante tracce in cui un’operazione artistica si sedimenta, insieme alla memoria di chi vi ha preso parte, alle trasformazioni che ne sono derivate nella vita di quelle persone. Ogni opera è in effetti un’operazione che innesca e che porta con sé un archivio mobile e dai confini sfumati, un’operazione che continua a viaggiare sotto le spoglie di quell’archivio che è meno un deposito che un insieme di effetti in cammino e di operazioni ulteriori. Dall’altro lato non c’è operazione che non si serva di opere, di sedimenti pregressi, di tracce già disponibili, già sedimentate, già frequentate. Non potrebbe essere altrimenti. Nessuna operazione si innesca se non riattivando un’operazione pregressa, e solo apparentemente spenta, consegnata all’inerzia delle sue tracce. Certo, quanto più miriamo all’opera, quanto più valorizziamo il documento, tanto più mortifichiamo l’operazione, e insieme mortifichiamo l’artista che è tutt’uno con l’operazione, e insieme mortifichiamo il fruitore che potrebbe a sua volta e del tutto legittimamente far parte nel cerchio magico dell’operazione, come un collaboratore o un cooperatore più che uno spettatore o un destinatario. La documentazione di una performance, quando va bene, è una traccia che attende di essere catturata in una nuova scrittura, è un’opera che attende che una nuova operazione la rimetta in movimento, possibilmente stravolgendola, reinventandola.

MP Fra le opere letterarie con le quali ti sei maggiormente cimentato ci sono la Bovary di Flaubert e la Recherche di Proust. In questi casi più che la localizzazione, mi sembra maggiormente in gioco il tempo – quella che potremmo più precisamente definire come la temporalità dell’evento dell’opera d’arte. È così?

FL Di Proust mi attrae qualcosa che trovo condensato in un episodio. Tutta la Recherche è una specie di esperimento di linguaggio, un esperimento che in quell’episodio ha il suo banco di prova e forse il suo magnifico fallimento. L’episodio è quello del ballo dei Guermantes. Il narratore ormai anziano torna a casa dei suoi amici di un tempo. Si era tenuto lontano dalla vita mondana per molto tempo. Ora invece va a questo ballo, e naturalmente ritrova tutti i suoi amici invecchiati, così invecchiati che sono quasi irriconoscibili. Sembravano maschere, scrive Proust. Maschere di quello che erano stati. Ma per un istante il narratore riesce a fare un’esperienza singolarissima. Non vede quei vecchi soltanto come la copia decaduta di ciò che erano stati. Vede anche ciò che erano stati come una copia di ciò sono adesso. E più profondamente vedere tutti i momenti intermedi, tutti i volti in tutti i momenti intermedi, in gioventù, nella maturità, nella vecchiaia, come volti contemporanei, come volti ugualmente perfetti, come volti ugualmente paradigmatici. Nessuno ha un privilegio, nessuno segna una vetta di cui gli altri sarebbero la variazione, la decadenza, la perdita. Mi colpisce l’esperimento vertiginoso di scrivere, raccontare, far passare questa esperienza di simultaneità di tutti i tempi, questa assenza di privilegio. Nessun tempo è la verità degli altri tempi, ogni tempo equivale a ogni altro tempo, ogni tempo è un tempo qualsiasi tra altri tempi qualsiasi. Ma è una visione che dura poco. Proust alla fine è convinto di quello che scrive altrove, cede a qualcosa che per lui e forse per tutti noi finisce per prevalere. «I veri biancospini sono i biancospini del passato». Il passato è il tempo chiave. Gli altri tempi sono la decadenza del passato, la corruzione di un’essenza che resta alle nostre spalle. Solo la fisica contemporanea, mi viene da dire, solo certe espressioni della filosofia contemporanea o della matematica contemporanee, arrivano a toccare con mano, arrivano a scrivere questa perfetta contemporaneità di tutti i tempi. Proust porta all’estremo questo esperimento che ha forse il suo limite nel fatto che è un esperimento condotto con un linguaggio, una sintassi, una grammatica che non consente di andare fino in fondo. La matematica o la fisica hanno altri simboli e possono spingersi più in là. Difficile dire della filosofia, che usa la stessa sintassi, lo stesso linguaggio della letteratura, ma in altri modi, a volte ancora più vincolanti, a volte in un certo senso più liberi.

MP E Flaubert?

FL Di Flaubert amo il senso del comico, lo sguardo buffo e crudele, la grande meditazione sull’idiozia. Amo la vicinanza assoluta che la strepitosa intelligenza flaubertiana nutre per la stupidità dei suoi personaggi, e soprattutto amo il modo in cui Flaubert suggerisce sempre la santità di quell’idiozia, l’aura di perfezione che aleggia sul capo chino dell’idiota. Non è il solo a fare questo, naturalmente. C’è una linea che arriva da lontano, che parte forse da Socrate, senz’altro da Diogene il Cinico, che passa per il francescanesimo- pensiamo al Francesco «giullare di Dio», quello messo in scena da Rossellini, basato sui Fioretti, sulla centralità della figura di Frate Ginepro. E poi quella linea arriva appunto a Flaubert, a Dostoevskij, Nietzsche, Sacher-Masoch. In Italia ricorderei un grandissimo come Gianni Celati. L’idiota è quel soggetto che non è più tale, perché per lui tutti i tempi sono contemporanei, tutte le maschere sono vere, perché in lui lo sguardo umano è quasi cancellato in uno sguardo cosmologico, in un sentimento finalmente, interamente copernicano.

MP Un’ultima questione sull’evento, la cui crucialità nel tuo percorso non riguarda soltanto l’arte. Mi sembra che tu collochi di preferenza l’evento nel simultaneo, nel con-temporaneo, in ciò che sta accadendo e continua ad accadere. Potremmo dire che qui l’evento fa spazio all’altra cruciale questione che è quella della «durata»?

FL Un mio libretto recente, che si intitola L’automa, cerca di fare i conti con tutto questo che tu dici. Cerca di mettere insieme Leibniz e Bergson come pensatori, appunto, dell’evento, del modo in cui ogni evento, qualsiasi evento, cattura ogni altro evento nel proprio campo, essendone anche catturato, essendone a sua volta trascinato, piegato in una direzione ulteriore, introdotto in una nuova durata e in una nuova processualità, che è il montaggio di quelle due e più o meno direttamente di tutte le altre che sono in gioco in quel campo. Quello che chiamiamo spazio, quello che chiamiamo tempo, non sono altro che la regola di inflessione o la forza di gravitazione che questo concatenamento imprime a ogni altro concatenamento. E poi certo, sì, ogni evento ovviamente dura, ogni evento è una durata. Conserva e impone per un po’ di tempo e per una certa ampiezza di spazio la sua impronta, il suo stile, il suo ritmo, prima che altri ritmi come sempre accade intervengano e spostino gli equilibri. Ma vede, già dire «per un po’ di tempo», «per una certa ampiezza di spazio», come ho appena fatto, è del tutto inadeguato. Non è che il tempo o lo spazio siano i contenitori in cui tutto questo accade. Sono appunto il campo che viene innescato da quell’accadere, e quell’accadere ha una durata tutta intrinseca all’accadere stesso. Dire che dura di più o di meno significa semplicemente prendere un altro evento, un’altra durata, e farne un punto di vista esterno su di essa. E significa illudersi che si tratti di un punto di vista, mentre è semplicemente un altro evento, un’altra durata che interviene, che concorre a piegare le altre nel proprio senso, e a farsene piegare. Direi più esattamente che ogni evento ha una durata, o è una durata, ma che quella durata dura in effetti sempre il medesimo, è sempre e soltanto un’unità di durata, è sempre e soltanto un uno. Ogni durata è un ritmo, un ritmo incommensurabile.

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