Lo sguardo neutrale non esiste
Antispecismo e intersezionalità. Verso una politica delle alleanze
Pubblichiamo di seguito un’anticipazione da Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale, a cura di Niccolò Bertuzzi e Marco Reggio (Mimesis, 2019). Un testo volutamente situato e partigiano, ma attento a cogliere non solo il carattere specista delle società moderne (e dell’Italia contemporanea, in modo particolare) ma anche le criticità dello stesso movimento e delle sue numerose anime interne. L’approccio intersezionale che attraversa la raccolta di scritti si avvale delle esperienze di ricerca e attivismo che hanno saputo mettere in connessione, fra gli altri, Animal Studies, transfemminismo queer, istanze antirazziste e anticapitaliste, resistenza animale e sociologia dei movimenti per articolare un discorso antispecista schierato contro il qualunquismo di un certo animalismo di destra o comunque spoliticizzato.
Opprimo, ergo sum
La nostra posizione sull’asse del privilegio è quanto mai ambigua. Le nostre «identità», quand’anche non evidenti ai nostri stessi occhi, sono ben intelligibili da chi, intorno a noi, si trovi a occupare una differente posizione, in particolare di oppressione: la bianchezza, la classe, il genere, l’orientamento sessuale, la normoabilità fisica e psichica e così via, ci posizionano lungo linee fortemente divergenti, sia nell’ambito della società in generale sia nell’ambito delle lotte sociali. In quanto femminista posso citare, ad esempio, il diverso peso e la maggiore frequenza della presa di parola maschile in ambiti che non siano femministi (sia nel campo delle lotte umane che antispeciste), o un determinato approccio alla lotta nel quale difficilmente mi riconosco (eroico, basato sulla fisicità dello scontro e su di un immaginario guerresco tipico della società maschilista e patriarcale in genere).
La mancanza di consapevolezza di questi meccanismi ha probabilmente influenzato la modalità nella quale il primo animalismo si è manifestato, ovvero una critica basata su concetti morali più che politici, su di un’idea che demandava all’iniziativa del singolo la rinuncia o meno all’oppressione sull’animale. Una simile prospettiva non era in grado di vedere o di dare il giusto peso all’origine sistemica e strutturale dell’oppressione e del dominio operato sui non umani (e sugli umani svantaggiati), e dunque riconoscere la necessità di un approccio politico alla questione. Una prospettiva che per di più non teneva conto dei diversi posizionamenti sugli assi del privilegio e dell’oppressione, arrivando a riconoscere in qualsiasi umano il medesimo ruolo di oppressore, ignorando la differenza di peso e responsabilità esistente tra un bambino che muore di fame in un paese povero e l’A.D. di una multinazionale. Probabilmente questo frame ha anche avuto l’effetto di allontanare da subito, ancor di più, le istanze animaliste dalle lotte sociali, poiché la disparità di classe ha sicuramente alimentato il disprezzo di chi lottava per sopravvivere e finiva dunque per mettere tra sé e gli altri animali una distanza ancora maggiore. Questo tipo di reazione veniva (e viene) adottato un po’ per non vedersi riportato all’interno della categoria sacrificabile dell’animale, ma anche per distanziarsi dalle classi che erano all’origine dell’oppressione che vivevano sulla propria pelle. Il discorso è invece completamente diverso per coloro che, per prerogativa di nascita, non rischiano l’animalizzazione e possono permettersi di non percepire come pericolosa per la propria esistenza una simile impostazione animalista e il possibile stigma animalizzante che ne consegue.
Storicamente, i gruppi e le associazioni che si spendevano per cercare di convincere il maggior numero di persone possibili a smettere di sfruttare e opprimere gli animali non umani – le associazioni di vegetariani, così come i gruppi protezionisti e zoofili – utilizzavano argomenti di tipo morale e anche strumentale, come se lo sfruttamento animale dipendesse dalla cattiveria delle persone. Questa visione, che è stata «ratificata» poi dalle teorie di Singer e Regan, secondo cui lo «specismo» è un pregiudizio morale, ha consolidato la convinzione della necessità di combattere a livello individuale contro un pregiudizio morale, piuttosto che contro un fenomeno complesso e sistemico sorto in relazione a cause eterogenee. L’antispecismo politico, pur sorto all’interno di questo contesto, porta invece l’attenzione proprio sull’aspetto sistemico ignorato dalla questione morale, e invece che focalizzarsi sul comportamento individuale delle persone, riconosce le cause strutturali legate all’economia e al profitto e alla necessità di reificare l’esistente (sia esso umano o animale) per aumentare il profitto legato allo sfruttamento delle merci.
Il primo pensatore che ha proposto un’analisi sociale del fenomeno dello specismo è stato Ted Benton in una serie di articoli pubblicati alla fine degli anni ’80 e in un volume intitolato Natural Relations: Ecology, Animal Rights and Social Justice1. Un’altra autrice, tanto importante quanto poco considerata, rappresentante del cosidetto ecofemminismo, è Barbara Noske, con il suo Humans and Other Animals. Beyond the Boundaries of Anthropology2. Qualche anno più tardi, il sociologo David Nibert definisce lo specismo come «un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali»3, spostando la responsabilità dell’oppressione animale dal singolo individuo alle condizioni sociali, che a loro volta influenzano il singolo individuo. Secondo tale definizione, lo specismo non si limita a un semplice pregiudizio individuale, ma è un sistema di credenze socialmente condivise che permettono di sfruttare gli esseri senzienti appartenenti a specie diverse da quella umana.
Pertanto, al posto di moralizzare il singolo individuo verso pratiche di ortodossia vegan, l’antispecismo sottolinea la centralità della lotta anticapitalista che diventa dunque anche il punto di incontro e il collante con altre lotte sociali «umane» (si veda, a proposito di ciò, anche il capitolo di Francesca Gelli). Lo specismo si mostra nel suo funzionamento a partire dalla norma sacrificale che lo sottende, funzionale al massimo sfruttamento del vivente da parte di pochi privilegiati, così come altre norme (per esempio quella eterosessuale) disciplinano sessualità e capacità riproduttiva con lo stesso fine. Se si guarda la questione da questa prospettiva, è facile intuire come lo smantellamento di un sistema così pervasivo e potente non possa dipendere esclusivamente dalle pratiche del singolo, comunque importanti in termini di etica personale e di testimonianza. Solo tramite la solidarietà e l’impegno condiviso sarà possibile, in un tempo ancora indefinito, sperare di contrastare quel potere e trasformare il mondo in cui viviamo. Di fronte a questa enorme sfida, qual è il ruolo della dieta cosiddetta vegan? Può considerarsi una questione di pratica individuale o ha una qualche valenza politica? Nelle prossime righe proporremo una parziale risposta all’argomento e alcune osservazioni critiche4.
Sarat Colling propone di inserire la dieta vegan in un contesto più ampio, ovvero all’interno del concetto di dieta decoloniale5. Sfidare il sistema capitalista e la norma sociale dello specismo rifiutandosi di mangiare altre specie animali è parte di una prospettiva rivoluzionaria. Alla domanda su cosa pensasse dell’inclusione degli animali non umani nei movimenti di giustizia sociale – riferendosi in particolare ai polli – la studiosa, attivista e rivoluzionaria Angela Davis ha risposto che esiste un importante collegamento nel modo in cui gli esseri umani e gli altri animali sono oppressi:
Il cibo che mangiamo nasconde tanta crudeltà. Il fatto che siamo in grado di sederci e mangiare un pezzo di pollo, senza pensare alle condizioni orrende in cui i polli sono allevati industrialmente in questo paese, è un indicatore dei pericoli del capitalismo, di come il capitalismo ha colonizzato le nostre menti6.
Secondo Colling, «entrambi, i polli e gli esseri umani, sono oppressi dal sistema capitalistico in cui le merci sono la prima forma di comprensione del mondo. Non andiamo oltre l’oggetto che abbiamo di fronte per considerare i mezzi di produzione, perché le nostre menti e i nostri corpi sono stati «colonizzati» – cosa che non riusciamo a riconoscere»7.
Forse l’unica speranza che abbiamo risiede nell’incontro e nel riconoscimento reciproco. Un incontro disponibile a rimettere in discussione i propri privilegi e il fascismo interiorizzato: non solo quello evidente e macroscopico, ma anche quello invisibile, figlio del dualismo cartesiano, dello sfruttamento del più forte sul più debole, del privilegio interiorizzato e naturalizzato, e perciò occulto. Siamo umani, ma siamo anche animali. E forse siamo anche, ormai sempre più nella nostra epoca, cyborg: le macchine sono diventate le nostre appendici, mezzi privilegiati di mediazione tra l’umano e il mondo. Allora, invece di tremare al pensiero di perdere quell’illusione di identità a cui ci aggrappiamo con tutte le forze, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci per quegli esseri indistinti che da sempre siamo. Come ci esorta il Manifesto Xenofemminista, «La costruzione della libertà implica non meno, ma più alienazione; l’alienazione è il lavoro di costruzione della libertà. Nulla dovrebbe essere accettato come fisso, permanente o dato’ – né le condizioni materiali né le forme sociali»8.
Message in a bottle
Non so prevedere le evoluzioni politiche future, e non so se quello che auspichiamo – e per cui lottiamo – diventerà mai realtà. Di una cosa sono certa: la nostra lotta ha radici nell’amore, non nell’odio. Adorno, in Minima Moralia, afferma che «L’amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile»9. Sono convinta che per portare avanti le lotte che ci stanno a cuore, questo non basti. Lo sforzo che ci esorto a compiere prende le mosse da questo anelito, eppure si spinge oltre: il dissimile presuppone sempre una distinzione, un’identificazione. Forse è giunto il tempo di guardarsi allo specchio, e smettere di riconoscersi.
Note
↩1 | Cfr. T. Benton, Natural Relations: Ecology, Animal Rights and Social Justice, Verso, 1993. |
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↩2 | Cfr. B. Noske, Humans and Other Animals. Beyond the Boundaries of Anthropology, Pluto Press, 1989. |
↩3 | D. Nibert, Animal Rights/Human Rights: Entanglements of Oppression and Liberation, Rowman & Littlefield, 2002, p. 243. |
↩4 | Per un approfondimento della questione si rimanda al saggio di Nicola Righetti in questo volume. Si veda inoltre: N. Bertuzzi, I movimenti animalisti in Italia. Strategie, politiche e pratiche di attivismo, Meltemi, 2018. |
↩5 | Cfr. S. Colling, op. cit., pp. 147-148. |
↩6 | B. Harper, Angela Davis on Eating Chickens, Occupy, and Including Animals in Social Justice Initiative of the 99%, «The Sistah Vegan Project», 23/2/2012, http://sistahvegan.com/2012/02/23/angela-davis-on-eatingchickensoccupy-and-including-animals-in-social-justice-initiative-of-the-99/. |
↩7 | S. Colling, op. cit., p. 147. |
↩8 | Laboria cuboniks, Manifesto Xenofemminista, http://www.laboriacuboniks.net/it/index.html. |
↩9 | T. W. Adorno, Minima Moralia, cit., p. 228. |
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