L’urbanizzazione capitalistica del mondo
Capitalismo, arte, rivoluzione
Leonardo Lippolis è uno di quegli studiosi, per la verità non molti , che concepisce la sua formazione storico-artistica non come uno specialismo atto ad indagare in termini micro-formalistici fatti senza una visione d’insieme; egli è piuttosto consapevole sia della necessità dell’indagine specificamente artistico-visiva di confrontarsi con gli altri linguaggi artistici – compresi quelli più recenti come il cinema, e con le altre discipline in generale – sociologia, storia, filosofia ‒, sia di quella di essere politici nella propria ricerca, il che non significa tanto curvarla rispetto agli obiettivi di un proprio orizzonte militante, bensì inquadrare i fatti entro una narrazione generale che, pur non rigida ed impenetrabile – anzi tutt’altro – sia il portato di un pensiero forte. Ciò è tanto urgente quanto non così frequente in un panorama della ricerca storico-artistica – e non solo – che, per tutta una serie di cause oggettive e soggettive che in questo luogo mi è impossibile analizzare, tende invece ad inquadrarsi in una supposta, parcellare neutralità, che non è altro che la cornice data dai valori dominanti.
Tale attitudine in Lippolis non è certo casuale, ma va ricondotta alla sua peculiare formazione e ai suoi esordi nella ricerca, tornando indietro di un quarto di secolo circa. La prima è innanzi tutto sì storico-artistica, ma con un particolare interesse fin dal principio non solo per le arti visive, ma anche per l’architettura e l’urbanistica, dunque per la progettazione dello spazio in cui si vive, che è questione squisitamente politica, al di là di come la si declini. Lo sanno bene i membri dell’Internazionale Situazionista, alla quale – in particolare proprio al loro discorso sulla critica dell’urbanistica e dell’architettura verso una riqualificazione radicale della vita quotidiana che proceda proprio da esse – sono dedicate le sue due prime monografie Urbanismo Unitario (2002) e La Nuova Babilonia (2007). E l’immersione precoce nella teoria e nella prassi situazioniste è da identificarsi quale ancor più pregante motivazione del suo approccio. Col successivo Viaggio al termine della città (2009) il bagaglio critico ormai consolidato di Lippolis va ad aggredire il binomio metropoli e arti nel primo trentennio della fine dell’utopia moderna: egli sceglie come evento inaugurale di tale tempo del dopo la demolizione del complesso residenziale lecorbusiano di Prutt-Igoe a Saint Louis nel Missouri (1972), progettato dall’architetto nippo-americano Minoru Yamasaki, al quale si devono anche le Torri Gemelle, parimenti , come è noto, non più esistenti, la cui rovinosa scomparsa (2001) assurge invece ad altro limite cronologico, oltre il quale c’è un’epoca ancora nuova in cui però – almeno al tempo dell’uscita del libro – si è ancora troppo invischiati per affrontarla con la necessaria lucidità. Due mesi prima degli attentati dell’11 settembre, peraltro, si colloca un altro evento che segna l’immaginario collettivo, il G8 di Genova con tutto il contorno che resta hegelianamente più noto che conosciuto, e Lippolis, genovese, non manca di dedicare ad esso alcune pagine della monografia del 2009, fornendo così indirettamente ulteriori indizi sugli input che hanno costruito il suo profilo di studioso.
Ad oltre dieci anni di distanza da tale indagine, la metropoli tra dispositivo di razionalizzazione della società e luogo di eccedenza dai sicuri binari in cui invece i padroni del vapore vorrebbero costringere le facoltà umane, con l’urbanistica, l’architettura e le arti che giocano ruoli complessi e sottili in tale appassionante e intricata conflittualità, è ancora al centro degli interessi di Lippolis, ma questa volta più che esplorare il passato prossimo si tratta di risalire più indietro, sulla falsariga dell’arco temporale del celebre discorso di Karl Polanyi sulla grande trasformazione. Nasce così Il mondo come metropoli. Capitalismo, arte, rivoluzione nell’epoca della grande trasformazione urbana, 1853-1933 (Ombre Corte, 2021), un saggio che si pone l’obiettivo di ricostruire con ampio respiro alcune delle più pregnanti letture e critiche degli snodi cruciali dell’ urbanizzazione capitalista del mondo e dei suoi nefasti risvolti, senza però distogliere mai gli occhi dal gauginiano «dove andiamo?», giacché se Walter Benjamin – uno dei pilastri delle tematiche di Lippolis – corregge Marx affermando che forse le rivoluzioni più che «la locomotiva della storia universale […] sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno» ‒ citazione che l’autore sceglie di porre in epigrafe all’introduzione ‒, la risposta al terzo quesito del parigino innamorato dei popoli primitivi «potrebbe ancora non essere quell’abisso della catastrofe che non appare più una semplice profezia di sventura».
Due sono in verità le città sulle quali si focalizza Lippolis per raccontare la grande trasformazione urbana e i suoi critici, scegliendo così di fatto, per quanto non lo dichiari esplicitamente, di rivolgere il cuore dell’indagine ‒ almeno per ora – all’Europa occidentale: Berlino e Parigi , benché non manchi un ampio parallelismo con Mosca e con l’area russa e poi sovietica più in generale. Tra le ragioni di tale opzione considererei non secondaria la possibilità di mettere a paragone due differenti processi di urbanizzazione, dal momento che lo sviluppo della capitale tedesca «trae vantaggio dal non avere pressoché alcun vincolo storico da rispettare» e dalla possibilità dunque di espandersi «a macchia di leopardo, attraverso un assorbimento disomogeneo di borghi e villaggi», dal non essere mai stata, a differenza della capitale francese , ma anche di Vienna, «una città aristocratica e di corte», rappresentando piuttosto «una figlia diretta dell’industrializzazione, una tabula rasa su cui il capitalismo può disegnare un prototipo esemplare dell’organizzazione urbana delle proprie necessità». Vi è poi da tener conto che il saggio «si propone di analizzare non solo la genesi della metropoli ma anche di ripercorrere alcuni dei sentieri che tentarono di aprire una via alternativa ad essa» (Comune parigina del 1871, insurrezione spartachista berlinese del 1919).
Berlino è innanzi tutto al centro di riflessioni di uno dei fondatori della sociologia come Georg Simmel, attraverso le quali, per quanto chiarisca che non intenda «giudicare ma solo comprendere», pure – Lippolis ne è convinto ‒ «getta le basi della critica radicale della metropoli capitalista». Sulla scia da lui tracciata si muove il filosofo, con una formazione da architetto, Siegfried Kracauer, per quanto convinto che il discorso debba compiere un salto di qualità, visto e considerato che Simmel non indica «alcun sentiero in cui dovrebbe scorrere la vita», mentre il suo progetto è invece quello di «lavorare per la trasformazione dell’ordine sociale dominante». Persuaso dell’efficacia del cinema come strumento d’indagine della metropoli – esso è «la nuova arte che viene più condizionata dal fascino della nuova città – non teme di andare contro vento rispetto ai giudizi dominanti. Metropolis (1927) di Fritz Lang «neutralizza concettualmente la possibilità» di una ribellione ed è lo stesso regista a ricordare che Goebbels gli disse «che molti anni prima lui e il Führer avevano visto il mio film Metropolis in una cittadina di provincia e Hitler aveva detto allora di volermi affidare i film nazisti». Il contemporaneo Berlino. Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann, lungi dall’emulare il sovietico Kinoglaz di Dziga Vertov, «figlio di una rivoluzione vittoriosa» ‒ cui pure esplicitamente si ispira –, «mette a fuoco una società che è riuscita a scansare la rivoluzione e ora, sotto la Repubblica, non è che un fittizio conglomerato di partiti e di ideali». Ad essi contrappone l’antieroico La strada (1923) di Karl Grune, ove si narra del «goffo e patetico tentativo di un piccolo borghese berlinese di sfuggire alla noia della propria vita privata facendosi sedurre dal caos notturno della metropoli». Se per Lippolis «Kracauer anticipa di quarant’anni l’analisi situazionista della società dello spettacolo», per Walter Benjamin egli è felicemente «un guastafeste, l’uomo che non sta al gioco, il cui metodo possiede quel carattere distruttivo con cui lo stesso Benjamin […] vuole distruggere la falsa coscienza del sistema sociale dominante». Quest’ultimo, a differenza di Kracauer, non scrive molto sulla Berlino contemporanea, ma è di grande interesse rilevare come quel poco scaturisca in contrasto non solo con la Berlino della sua infanzia, ma anche con due città apparentemente lontanissime, come Mosca e Napoli, eppure accomunate dalla loro capacità di conservare modi di vita ancora prossimi all’Erfahrung, ovvero «l’esperienza accumulata e tramandabile condivisa dalle società precapitaliste» che si contrappone all’Erlebnis, «l’esperienza vissuta individuale e frammentaria tipica della modernità» che trionferebbe nella capitale tedesca.
L’urbanizzazione capitalista di Parigi appare, come accennato, relativamente più difficile, data la presenza di ben altre persistenze storiche, benché cronologicamente sia Berlino a seguire in tale processo Parigi e non viceversa. La spinta decisiva avviene sotto Napoleone III per mezzo del suo urbanista-generale Georges Eugène Haussmann, spietato sventratore dei quartieri medioevali con la loro socialità poco funzionale alla valorizzazione capitalista. La scomparsa di quel mondo è il presupposto dello spleen baudleriano, come della flâneurie, che, resa celebre dal poeta francese e da lui intesa come pratica di resistenza alla razionalizzazione urbana capitalista, passerà poi ai surrealisti, ai situazionisti e oltre. Eppure tale trasformazione, per quanto enorme, non solo non argina lo sviluppo di una coscienza di classe da parte degli esclusi, ma probabilmente la incoraggia perfino; onde far sì che a tale coscienza subentri piuttosto «il legame di solidarietà di un pubblico massificato», osserva Alberto Abruzzese, è necessario lanciare quelle vere e proprie feste popolari del capitalismo – come le chiama Benjamin – che sono le esposizioni universali – interessante notare del resto che «il periodo compreso tra le due grandi esposizioni parigine del 1855 e del 1867 coincide proprio con l’arco temporale in cui Hausmann ricostruisce Parigi e in cui si diffondono i grandi magazzini».
Non di meno né le esposizioni universali né la nuova Parigi haussmanniana con i suoi boulevard – una pia illusione si rivela infine il loro essere a prova di barricate – scongiurano, benché con la complicità della guerra franco-prussiana, la effimera ma intensa esperienza della Comune di Parigi, risposta alla segregazione di un popolo perpetuata dalla repressione bonapartista, momento in cui «Le classi lavoratrici e pericolose irrompono nella sfera pubblica come movimento rivoluzionario», ma anche grande occasione di protagonismo per gli artisti: se il personaggio simbolo tra essi della Comune è indiscutibilmente Gustave Courbet, quasi ripercorrendo le orme di Jacques-Louis David ai tempi della Rivoluzione di ottant’anni prima, il ruolo politico collettivo svolto dagli artisti – malgrado non poche esitazioni e defezioni – resta notevole. È vero: «La Comune è durata troppo poco per i tempi di produzione delle belle arti» e ciò induce qualche critico a parlare di una rivoluzione senza immagini, tuttavia, considerando che «gli atti più radicali della Comune vanno ricercati nelle questioni riguardanti la riorganizzazione della vita quotidiana e dello spazio-tempo sociale», il suo contributo nel campo delle arti va innanzi tutto identificato nei tentativi di «rifondarne lo statuto e la funzione sociale» più che nel «produrre opere di propaganda».
L’eredità degli artisti della Comune viene raccolta nell’immediato da William Morris, il cui proposito di riqualificare gli oggetti comuni attraverso la bellezza dell’arte, e quindi la vita stessa, andrebbe considerato una filiazione del progetto estetico-politico comunardo più di quanto comunemente si pensi. Erede novecentesco indiscusso di Haussmann è invece Le Corbusier: soluzioni urbanistiche per il centro di Parigi come il Plan Voisin (1922-1925) o documenti come la Carta di Atene (1933) solo lì a dimostrarlo, mentre il romanzo Parigi nel XX secolo di Julius Verne – scritto nel 1863, ovvero negli anni dell’haussmannizzazione della capitale francese ‒, rappresenta il sinistro presagio di ciò che verrà; l’essere stato pubblicato solo nel 1994, perché «L’editore Hetzel giudicò le visioni di Verne troppo pessimistiche per una società che stava entrando nella seconda rivoluzione industriale», nulla toglie alle sue intuizioni.
Malgrado Le Corbusier, con il nuovo secolo appare comunque Berlino «il luogo dove si manifesta nel modo più radicale la nuova vita urbana», e ciò anche in virtù della sua già ricordata giovinezza rispetto ad altre capitali d’Europa. Se l’espressionismo è in vari centri tedeschi – non solo e inizialmente non tanto a Berlino – la temperie linguistico-culturale che accomuna diversi soggetti, collettivi e riviste, per i pittori della Brücke, allorché abbandonano il vitalismo nietzschiano del primo periodo di Dresda, passano alcune delle più graffianti critiche della società berlinese, trovando una sorta di emblema nelle celebri cocotte di Ernst Ludwig Kirchner. Altri pittori, come George Grosz, si incaricano di focalizzare il carattere oppressivo del versante più propriamente urbanistico della città, le sue periferie…, ma non per questo egli dimentica «banditi, assassini, sicari, uomini condannati, medici, ubriaconi e sifilici» che le popolano di notte, stando all’icastico elenco di Beth Irwin Lewis.
Anche Berlino, inoltre, come quasi mezzo secolo prima Parigi, conosce la sua insurrezione anticapitalista, con la proclamazione da parte di Karl Liebknecht, affiancato da Rosa Luxemburg, della Libera Repubblica Socialista il 9 novembre 1918. Benché l’esperienza duri ancora meno della Comune parigina, con quest’ultima vi sono evidenti analogie: dallo scoppiare in conseguenza di una guerra persa dal paese teatro dell’insurrezione – ora la Grande Guerra, da cui la Germania esce sconfitta – alla partecipazione degli artisti, che, per lo più provenienti dall’esperienza del dada, intendono, stando alla testimonianza del regista Erwin Piscator, trasformare l’arte in «un’un arma per la lotta di classe». Ma nel solco del rapporto arte-rivoluzione della Germania a cavallo tra anni Dieci e Venti vanno considerati anche i casi dell’Arbeitsrat für Kunst di Bruno Taut ‒ che riprende il programma del morrisiano socialismo della bellezza e quindi degli artisti della Comune ‒ e del Bauhaus di Walter Gropius, che nel manifesto del 1919, inneggia alla fantasia da portare nelle case delle persone comuni, benché di lì a non molto si muoverà in altre direzioni.
Lippolis sente a questo punto l’esigenza di aprire un’ampia parentesi sul mondo russo e sovietico nella consapevolezza che in esso si manifestino circostanze assolutamente anomale: come a Parigi e a Berlino anche a Mosca ed in altri centri dell’ancora impero zarista gli artisti conducono sperimentazioni che già aprono a un orizzonte rivoluzionario e, come in Franca e in Germania, anche in Russia l’occasione per una sovversione del potere costituito è data dal malcontento per una guerra rovinosamente persa, tuttavia questa volta la rivoluzione va a buon fine, o almeno così pare, fermo restando che in altro luogo Lippolis non manca di ricordare le lucidissime critiche della Luxemburg al leninismo, che con la sua concezione autoritaria del socialismo non starebbe costruendo altro che un capitalismo rovesciato. La storia immediatamente successiva si incarica purtroppo di darle ragione, dal momento che Lenin oppone decisamente all’immaginismo pre-rivoluzionario il produttivismo. I retrivi letterati della pittura come Kandinsky, Chagall, Malevič sono messi all’angolo, mentre i nomi che vanno per la maggiore sono Rodčenko, Tarabukin. Quest’ultimo ammira esplicitamente Taylor e Ford – come del resto lo stesso Lenin –, nonché, coerentemente, Le Corbusier. Nota Lippolis: «Il problema – che Tarabukin non sottolinea ma che a Lenin e ai bolscevichi è ben chiaro – è che quel consenso che il capitalismo occidentale ottiene tra le masse attraverso la fantasmagoria delle merci e il consumismo, nel socialismo sovietico deve essere garantito attraverso l’autorità e il controllo». Inutile dire che lo stalinismo non farà che radicalizzare ulteriormente tale processo, e anzi neanche il produttivismo, come si sa, coinciderà con le specifiche funzioni che l’apparato burocratico statale assegna alla produzione artistica.
Molto simile appare del resto, al netto del contesto differente, ciò che accade nella Germania di Weimar, diretta conseguenza del fallimento della rivoluzione spartachista. Il Bauhaus e lo stesso Gropius vengono convertiti al funzionalismo, mentre a pittori già lambiti dall’espressionismo e dal dada non resta che prendere atto attraverso le loro opere della miseria in cui versano i quartieri proletari sotto l’egemonia borghese che non è stata scalfita (Otto Dix), o prendere sempre più coscienza dell’asservimento dell’uomo alla tecnica, che si avviva a diventare universale e comprende in pieno anche la formalmente non capitalista Unione Sovietica (George Grosz). Sono gli anni di pellicole come le già citate Metropolis e Berlino. Sinfonia di una grande città, ma anche di progetti come La rivolta delle macchine o il pensiero scatenato del pittore belga Frans Masereel e dello scrittore francese Romain Rolland, «rovesciamento integrale della visione dei vari Le Corbusier, Tarabukin, Gastev e degli altri ideologi del taylorismo produttivo e sociale», il quale non può però che risultare indigesto al «positivismo tecnocratico dei primi anni venti» e pertanto come film non sarà mai prodotto.
La tecnolatria montante conosce quindi una sorta di acme nel nazifascismo e nei suoi lager, ma non certo nel senso che con la sua sconfitta il mondo abbia voltato pagina. Lippolis è troppo acuto per cedere alla retorica del nazismo come male assoluto avulso dai processi storici, ché questa è la falsariga sulla quale la cultura ufficiale odierna celebra se stessa. Il nazifascismo, in altre parole, non è che parte – benché forse la parte più nefasta – del trionfo della tecnica sull’uomo, fenomeno tanto ad esso contemporaneo quanto destinato a sopravvivergli, dal momento che anche le democrazie liberali e il bolscevismo partecipano della stessa logica. E ciò è testimoniato tanto dall’esempio negativo di Le Corbusier, la cui concezione architettonica si sposa perfettamente con l’ideologia nazifascista – se questi diviene sempre più organico al fascismo francese fin dalla metà degli anni Trenta, tanto da non esitare a collaborare col regime di Vichy, ancora nel 1940 scrive che «Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificazione dell’Europa» – e non solo – visto che la Carta di Atene troverà la sua «consacrazione nella ricostruzione dell’urbanistica della ricostruzione postbellica» ‒, tanto da quello positivo di Ernst Jünger, che già all’indomani della prima guerra mondiale comprende come essa «abbia modificato per sempre la società occidentale nel senso del dominio della tecnica, del lavoro e della massificazione» e non esiste di fronte a questo più alcun discrimine tra destra e sinistra, autoritarismo e democrazia…
Curioso notare infine come Lippolis operi una sorta di inversione tra buono e cattivo rispetto a quello che è il suo campo culturale di riferimento in senso lato. Da una parte l’immagine progressista che ancora domina la figura di Le Corbusier viene profondamente scossa. Dall’altra il profilo di Jünger, oggi come ieri sovente guardato con sospetto dalla cultura di sinistra per il suo conservatorismo ed antimodernismo, appare profondamente riqualificato, anche in relazione alle sue simpatie politico-partitiche: «Una interpretazione distorta di Jünger ne ha fatto in quegli anni un punto di riferimento ideologico del nazismo, sebbene lui ne abbia subito prese le distanze rifiutando il seggio parlamentare che esso gli offrì appena conquistato il potere». In un tempo ‒ come quello in cui è uscito il libro di Lippolis ‒ di pandemia globale affrontata con linguaggi, oltre che non di rado con metodi, para-militari, e in un tempo – come quello in cui scrivo – dove non si parla che di guerra per motivi fin troppo noti, il discorso di Jünger riportato da Lippolis sul nesso tra «guerra e lavoro, il quale una volta terminate le ostilità, è stato fatto confluire in un nuovo ordine sociale basato sul lavoro stesso inteso come totalità dell’esistenza» assume una nuova, benché amarissima, attualità.
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