Note per una giustizia sentimentale
Intervento per Assemblea 1968
Pubblichiamo l’intervento letto da Federico Zappino ad Assemblea 1968 (La Galleria Nazionale, 17 dicembre 2017), per la tavola rotonda su La rivoluzione della vita. Oggi, in occasione del finissage della mostra sul ’68 si conclude il ciclo di incontri con 2 tavole rotonde, la prima sulla creatività (con Ester Coen, Achille Bonito Oliva, Andrea Cortellessa, Paolo Virno, Nanni Balestrini), la seconda prevede invece la presentazione del giornale catalogo della mostra (con Lidia Riviello, Giovanna Ferrara, Francesco Raparelli, Ilaria Bussoni, Nicolas Martino. L’appuntamento è per le 17.00 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (Viale delle Belle Arti, 131).
C’è un brano molto famoso, performato per la prima volta da un’androgina Laurie Anderson al Moma di New York, nel 1982, che le persone che come me sono nate negli anni Ottanta credo conoscano molto bene perché accompagnava la campagna di comunicazione sociale del governo italiano sull’Aids. Si tratta del brano O Superman, generalmente annoverato tra le canzoni contro la guerra. Verso la fine del brano, Laurie Anderson pronuncia questi versi:
Cause when love is gone
There’s always justice
And when justice is gone
There’s always force
And when force is gone
There’s always Mum1.
È interessante, e inquietante, che la mamma (Mum) di cui parla Laurie Anderson sia la nazione, la madrepatria in cui cerca forse riparo un soldato che torna dilaniato dal fronte, e implora
Hold me, Mum
In your long arms
Your petrochemical arms
Your military arms
Your automatic arms
In your electronic arms2.
La nazione di cui parla Laurie Anderson sono gli Stati Uniti, ed è dunque probabile che O Superman debba essere annoverata più specificamente tra le canzoni contro la politica di guerra degli Stati Uniti. Ma, più in generale, è una canzone contro i confini, contro ciò la cui stessa idea o presenza, come già osservava Hannah Arendt, rende possibile la risoluzione di ogni conflitto solo con la forza. È una canzone contro la sovranità. E in questo paradigma sovrano, cui Anderson allude, la giustizia sembra essere tutto ciò di cui dobbiamo accontentarci nel momento in cui non è, o non è più, l’amore a permeare i legami tra le persone. Sembra che Laurie Anderson pensi l’amore come un soggetto che ha perso, in un tempo forse remoto o indefinito, nella lotta contro la sovranità. E la giustizia, i cui criteri possono essere perfettamente compatibili con un regime sovrano, non è che l’anticamera di meri rapporti di forza. Dunque, in un certo senso, la giustizia non è che sublimazione dei rapporti di forza. È forse l’amore ciò che avrebbe potuto salvare la giustizia da questo destino, qualora avesse avuto la meglio sulla sovranità?
Un certo grado di astrazione idealistica è spesso ciò che connota il genere della poesia, come quello della canzone – e non è un caso, in effetti, che la maggior parte delle poesie o delle canzoni parlino d’amore. Ma anche al netto di questa astrazione vorrei tuttavia provare a prendere per buona l’impostazione generale offerta da Anderson, ma con una correzione. Non è solo la giustizia a sublimare i rapporti di forza. Se vi sono ottimi motivi di ritenere che l’amore sia antitetico a un paradigma sovrano, ce ne sono altrettanti per pensare che, nel paradigma sovrano, l’amore non è annullato, quanto piuttosto reso compatibile con esso, attraverso la sua proprietarizzazione. D’altronde, è in nome di questo amore che gli uomini scrivono sui muri «Tu sei mia», o «Tu la chiami persecuzione, io lo chiamo amore», come mi è capitato di leggere qualche giorno fa verso la periferia della città qualunque in cui vivo. Sono molto dubbioso a proposito del fatto che l’amore costituisca una «tregua miracolosa» degli asimmetrici rapporti di forza tra i due generi eteronormativi, come invece sosteneva Pierre Bourdieu… E divergo da quanti di solito sostengono, di fronte all’ennesimo caso in cui una ragazza venga uccisa dal fidanzato che quello non sia «vero amore». Non lo so se sia «ontologicamente» vero, quest’amore, ma è senz’altro «materialmente» vero: questo, infatti, è uno degli esiti di quel «sogno d’amore» – per usare l’espressione di Lea Melandri – strutturato da differenziali di potere eteronormativi, fondati sulla mutua esclusione ontologica tra i generi e finalizzata alla loro complementarietà sociale. Il «sogno d’amore» è a tutti gli effetti un dispositivo in funzione del quale si istituiscono e riproducono i generi conformi a questa mutua esclusione, a questa complementarietà, e a questo dominio. La prospettiva di Laurie Anderson mi trova dunque d’accordo a patto di sottolineare che anche l’amore, come lo conosciamo, non è che sublimazione dei rapporti di forza esistenti, proprio come la giustizia. E, di conseguenza, a patto di sottolineare che ogni qual volta ci interroghiamo a proposito dell’amore ci troviamo pienamente immersi nel politico. Non sono solo i criteri della giustizia a essere politici: lo sono anche quelli dell’amore. È proprio questo, d’altronde, a costituire il prerequisito di una più ampia conciliazione tra la giustizia e l’amore che miri a ostacolare le forme di amore dominanti, e di dominio, e che, al contempo, renda pensabili e possibili quelle forme minoritarie, invisibili, o da immaginare.
Quando qualche anno fa ho iniziato a interrogarmi sulla giustizia sentimentale – un progetto tutt’oggi incompiuto –, partivo dalla ferma convinzione che la deprivazione amorosa costituisse una forma molto subdola di ingiustizia. A tale convinzione se ne sommava un’altra, relativa al fatto che la maggior parte delle malattie mentali si debba proprio a questa forma di deprivazione. Forse ricorderete che in quella brutta poesia che è la La verità, vi prego, sull’amore, W.H. Auden ne sente parlare «nelle cronache dei suicidi». E ricorderete anche, forse, che pochi giorni prima di buttarsi dalla finestra, ossessionato dalla convinzione di percepire attorno a sé i gesti e gli sguardi di Guattari, ormai defunto, Deleuze parlerà di quel lutto nei termini di una menomazione fisica: «è come se mi avessero tagliato un braccio»3. Più nello specifico, era per provare a interrogarmi sulla «distribuzione differenziale» di questa deprivazione che volevo farlo nei termini politici dell’ingiustizia, e non in quelli genericamente esistenziali della fatalità: per politicizzare la solitudine, l’ansia, l’angoscia, la percezione del fallimento, quel reiterato interrogarsi circa la propria presenza, in assenza di qualcuno che la testimoni. È pur vero che nessuno può avere la certezza, né tantomeno il diritto, che le proprie infatuazioni possano incontrare sempre le volontà altrui… Ritenere che la volontà altrui ci spetti di diritto, a dire il vero, è parte proprio di quel sogno d’amore fondato sulla fantasia di una coercitiva complementarietà che rende l’amore stesso una sublimazione dei rapporti di forza, innanzitutto di genere. Ma esiste, io penso, una differenza tra il senso di impunità che deriva dalla legittimazione a scrivere su un muro «Tu sei mia», o a rivendicare il diritto alla persecuzione altrui chiamandola «amore» e, invece, la totale assenza di coincidenza tra le proprie interpellazioni e le risposte da parte degli altri. Questa totale assenza di coincidenza ha di solito a che fare con differenziali corporei, di genere, razziali, di abilità psicofisica, di classe. Si tratta di differenziali che strutturano gerarchicamente i corpi, la sessualizzazione di questi corpi, le possibilità di relazione di questi corpi tra loro. E dunque anche l’impossibilità di relazione di questi corpi tra loro. Ecco perché volevo provare a pensare questa deprivazione nei termini politici dell’ingiustizia. D’altronde, quando i medici esortano David Reimer alla normalizzazione genitale, lo fanno proprio adducendo l’ipotesi che al di fuori di quella normalizzazione non vi sarebbe stata alcuna possibilità d’amore4. E anche se David Reimer si rifiuta di pensare che l’amore coincida con la descrizione offerta dai medici, anche se David Reimer trova assurdo che le persone possano amarsi solo sulla base dei genitali che hanno tra le gambe, e anche se David Reimer invoca per sé la convinzione di poter essere amato per qualche altra ragione, che i medici non possono comprendere – quella descrizione offerta dai medici non è che quanto di più fedele all’esecuzione delle sentenze che il sistema ha già emesso attraverso la gerarchizzazione dei corpi e delle loro possibilità, o impossibilità, relazionali.
Tutto ciò può forse guadagnare in concretezza se rendo esplicito il movente biografico di questo interrogarmi sull’amore: mi ero innamorato ancora una volta di un uomo eterosessuale. Potrei dire che tutti i miei più grandi amori siano stati, e forse lo siano ancora, uomini eterosessuali. E credo che la loro posizione di genere renda questa politicizzazione tanto più significativa se è vero, come sostiene Porpora Marcasciano, che «gli uomini, tranne rarissimi casi, non sono stati minimamente sfiorati dall’idea di rivedere la propria posizione identitaria e mettersi in discussione» e che «la loro crisi, se di questo si può parlare, è stata un riflesso del femminismo, dei cambiamenti che le donne, i gay, le lesbiche, le persone trans hanno messo in moto»5. Dalla mia più modesta prospettiva posso aggiungere che, in questi casi, la pervasività delle norme di genere esibisce tutto il suo peso specifico. Ai decenni di proclami a proposito della fluidità del desiderio, qualunque cosa voglia dire, può essere importante ribattere che quando le norme di genere si insediano, strutturando e animando il desiderio, non sempre si riescono a disfare individualmente – e in ogni caso non è sull’azione individuale che può gravare l’onere della trasformazione sociale delle possibilità del desiderio. Ecco perché l’obiettivo queer di «disfare il genere» non può limitarsi a un gesto individuale, ma deve sottendere un’azione collettiva che miri a sovvertire gli schemi di intelligibilità dominanti da cui le norme di genere dipendono – guadagna forse in concretezza anche ciò che altrove ho definito «sovversione dell’eterosessualità». Se l’eterosessualità circoscrive preventivamente la possibilità e la forma delle relazioni nelle quali potrò trovarmi coinvolto, a partire innanzitutto dal genere delle persone con le quali condurrò queste relazioni, a che cosa ci riferiamo, esattamente, quando parliamo di gusti o scelte «individuali»?
Questo tratto biografico ci sottopone chiaramente un dilemma teorico: sto forse alludendo al fatto che l’amore, in ogni caso, trascenda le sue forme sociali consolidate e normali, e che questa sua trascendenza dovrebbe automaticamente imporci nuovi modi di pensarlo? È forse l’amore un frammento magico che eccede le condizioni della sua materializzazione, per materializzarsi in qualcos’altro, che prevede un investimento fisico, emotivo, intellettuale, erotico per certi versi simile? D’altronde, con alcuni di quegli uomini eterosessuali abbiamo sublimato l’impossibilità di amarci tatuandocelo a vicenda sul corpo; con altri, scrivendo un libro; con altri dormendo insieme, progettando di vivere insieme, condividendo tutto, o tutto ciò che di altro è concesso, per sempre. E con altri ancora non siamo riusciti tuttora a sublimare in qualcos’altro questa impossibilità, se non in un conflitto latente, sempre suscettibile di sfociare in distanza, in silenzio, o in aperta rabbia. Se lo rendo esplicito, è perché penso che le domande che ho posto potrebbero forse cedere il passo alla certezza del fatto che tutto ciò che dovremmo attenderci dall’amore non possa essere limitato ai modi in cui esso, materialmente, si dà. Se pensassimo questo, infatti, non solo adotteremmo una particolare, gerarchica ed escludente concezione dei criteri di «scelta» e di «gusto» da cui dipendono le sorti delle nostre infatuazioni, ma la ratificheremmo, ostacolando dunque ogni proposito trasformativo dell’amore stesso. Quando iniziai a interrogarmi sulla giustizia sentimentale non cercavo di trovare una risposta alla domanda «Come posso evitare di innamorarmi ancora una volta in modo sbagliato?» – magari con l’aiuto di qualche psicoanalista, o con la repentina creazione di un profilo su qualche chat per non sbagliarmi di nuovo, per capire finalmente che tutto ciò che avrei dovuto desiderare lo avrei potuto trovare solo entro i confini di uno studio privato o di un dominio digitale. Ciò che cercavo, piuttosto, era una risposta a queste domande: come dovrebbe essere riorganizzato il mondo affinché queste storie, o storie come queste, possano essere vissute pienamente, fuori dalla minaccia dell’irrealtà, fuori dalla necessità della sublimazione, fuori dalla sentenza di impossibilità che ne permea la stessa pensabilità? È possibile che l’amore possa far parte di un progetto di trasformazione del mondo? Com’è possibile trasformare i confini di questo mondo in adiacenze, in possibilità di movimento, e di attraversamento?
Anche queste domande sottendono chiaramente un rischio. Si tratta del rischio di veicolare l’idea che le forme di sublimazione non siano esse stesse manifestazioni dell’amore, o che lo siano in maniera dimidiata per il fatto di costituire il surrogato di una relazione amorosa socialmente riconoscibile come tale – il rischio consiste dunque nel ritenere che l’amore sia tale solo se organizzato socialmente e sessualmente in ossequio al «sogno d’amore», la cui sovversione costituisce invece un progetto indubbiamente trasformativo. Tuttavia, è importante anche ricordare che proprio perché questa «idea» continua invece a costituire la norma, è da questa norma che dipende la valutazione pubblica della realtà o dell’irrealtà, dell’importanza o della risibilità degli amori. È da questo che dipende quali amori contino, quali siano degni di supporto, riconoscimento, e quali possano essere pianti e condivisi pubblicamente, nel momento in cui finiscono, o nel momento in cui qualcuno muore. E da questa norma dipende anche la nostra percezione di esistenza, di possibilità, come di giustizia. Non può certo gravare sul singolo che esperisce l’ingiustizia la «colpa» per il proprio assoggettamento alla norma – specialmente quando l’accusa di colpevolezza è sentenziata da chi, a quella norma, vi si conforma tutto sommato perfettamente, derivando da essa privilegio e possibilità. Quell’ingiustizia esperita individualmente, fosse anche da uno solo, dovrebbe costituire la leva da cui far dipendere la sovversione collettiva di queste inaccettabili differenze nella sua esposizione. Non si tratta, infatti, di un’ingiustizia emendabile dialetticamente, quanto piuttosto di un’ingiustizia che impone la sovversione radicale dei presupposti sociali che la strutturano.
Questo è ciò che le politiche identitarie, a oggi, non hanno compiuto, e forse impediscono addirittura di compiere. Abbiamo forse bisogno di rimetterci sui passi del proposito sovversivo che animava lo spirito di quei corpi trans* e non bianchi che, nel 1969, a Stonewall, ritenevano che la dialettica costituisse un momento necessario di ogni politica minoritaria, ma non il momento finale. Costruire, e affermare, un’identità significa infatti contrastare un paradigma sovrano e proprietario maggioritario con un altro, minoritario. Significa introdurre una differenziazione, ma pur sempre immanente a una dialettica: al riparo, nel chiuso di un locale, o di una chat, sarò più sicuro che in mezzo alla strada, nel mondo. Sarò al riparo dalla derisione, dall’offesa, dalla violenza, o dall’impossibilità. Eppure, la strada o il mondo continueranno a essermi preclusi. Le politiche identitarie si pongono infatti l’obiettivo di rendere più vivibile la vita di quanti versano nell’invivibilità; ma non sovvertono i presupposti che espongono differenzialmente a quella stessa invivibilità. Ciò mi sembra esemplificato, ad esempio, dalla loro compatibilità con la razionalità neoliberista, che accoglie la differenziazione identitaria proprio come «strategia di contenimento», come la definisce Sara Ahmed – contenimento sia del conflitto, sia della trasformazione. Come il reduce dal fronte del brano di Laurie Anderson cerca riparo nella madrepatria, così le politiche omonormative e omonazionaliste contemporanee, dopo gli anni della devastazione dell’Aids, costruiscono oggi il riconoscimento da parte della nazione, oltre che del mercato, come l’unico porto sicuro per le minoranze di genere e sessuali: You can come as you are / But pay as you go6. Ma che le politiche identitarie non sovvertano i presupposti dell’invivibilità mi sembra esemplificato soprattutto dal fatto che le infrastrutture create al fine di organizzare le possibilità di relazione, proprio in quanto identitarie, non solo non hanno consentito di rendere le relazioni le leve per l’attraversamento, e per l’abbattimento, dei confini, ma costituiscono oggi i luoghi di nuove segregazioni, e di nuove gerarchie dei corpi. L’identità minoritaria omonormativa deriva da quella maggioritaria eteronormativa tutta la sua coscienza sovrana e proprietaria: proprio in quanto dialetticamente opposta ad essa, è ad essa anche complementare, e necessaria.
Che la dialettica costituisca un momento necessario ma non finale di una politica minoritaria mi sembra esemplificato nella forma più compiuta, e promettente, dalle esperienze dei collettivi artistici delle persone queer disabili7. Parlo di disabilità in modo apparentemente generico, pur sapendo bene che le forme della disabilità sono tante, e diverse, di conseguenza, sono le forme sociali in cui si materializza la percezione dell’ingiustizia. Eppure, le performances di questi collettivi artistici non rivendicano giustizia attraverso una differenziazione identitaria. Al contrario, scelgono la strategia del «contagio» nei riguardi delle persone «abili»8, performando la sovversione dell’«infrastruttura emozionale dell’abilismo», mettendo in crisi la distinzione tra soggetto e oggetto9. Le loro performances interrogano non solo radicalmente i limiti entro i quali l’esperienza della disabilità è costretta: interrogano anche e soprattutto i limiti entro i quali a essere costretti sono l’amore, la corporeità, la relazione tra corpi. Si tratta di una posizione che assurge a paradigma controegemonico per la comprensione, e per la contestazione, dei modi in cui gli schemi di intelligibilità e di possibilità delle forme dominante dell’amore stabiliscono chi è degno, o meno, di essere amato, e da chi. In questo senso, le prospettive del «contagio» costituiscono una risorsa irrinunciabile per la comprensione e la sovversione del nostro paradigma relazionale: ciò che rispetto a esso è impossibile, impensabile, irreale è proprio ciò che ne indica i punti di instabilità, ciò che esso esclude, o forclude, per potersi affermare come il paradigma necessario e possibile.
Un altro paradigma, forse, prende corpo quando soggetti impossibili allestiscono le scene di interpellazioni rimaste fino a quel momento impensate. Si tratta della sfida di coloro che non occupano il posto del soggetto pienamente legittimato ad amare e a essere amato, sostenuto dalle norme che stabiliscono come si deve essere e cosa si deve fare per vivere un amore degno di essere e vissuto – ossia di quel soggetto che ha già avuto accesso all’ordine della possibilità, che si sente talmente immune dall’impoverimento che potrebbe derivare da una vita senza amore, da concedersi il privilegio di declassare a zuccherosa faccenda, o di relegare all’ambito del sentimentale, dell’irrilevante, o del patologico l’intera questione dell’amare e dell’essere amati, oltre che della sua connessione con la più ampia questione di una vita da vivere insieme agli altri, qui, in questo mondo, ostacolandone di fatto la trasformazione. Questi soggetti impossibili, mi sembra, articolano parole o pensieri, non necessariamente diadici, e atti corporei minimali e performativi, che a volte, e non in modo indolore, smarginano i paradigmi relazionali in funzione di una loro imprevista apertura. Ciò che della critica crip e queer mi sembra esemplare, d’altronde, è che nell’attuale dibattito sulla questione dell’assistenza sessuale per le persone disabili, molte di loro espressamente rifiutano l’ipotesi di risolvere il problema così facilmente nella mercificazione della relazione, o nella relazione di cura, o caritatevole. Al diritto all’assistenza sessuale garantito per legge accostano infatti il diritto di innamorarsi, di essere amate, e di fare l’amore con qualcuno, come misura di giustizia. Avrebbero forse ragione di esistere, rivendicazioni del genere, se le possibilità di amare, di essere amati, di fare l’amore con qualcuno, apparissero egualmente accessibili a chiunque? Da cosa dipende questa inaccessibilità? E come si abbattono queste barriere? Non si tratta di un diritto naturale, né di un diritto riconoscibile per legge, quello che rivendicano. E ciò che tali rivendicazioni sottendono, mi sembra, non è che l’amore, genericamente inteso, non possa essere suscettibile di mercificazione, o sublimato nella cura, nella carità, o in qualunque altra relazione. Può ben esserlo, infatti. Ciò che vediamo all’opera in tali rivendicazioni, piuttosto, è che «amare il prossimo» preserva inalterata tutta la coscienza di quell’«utopia profonda e sovrana»10, che «fare l’amore» dovrebbe invece, inderogabilmente, disabilitare. Questo ci consente forse di rileggere sotto una nuova luce quelle parole secondo le quali, fare l’amore
è sentire il proprio corpo rinchiudersi su di sé, esistere finalmente fuori di ogni utopia, con tutta la propria densità, tra le mani dell’altro. Sotto le dita dell’altro che vi percorrono, tutte le parti invisibili del vostro corpo si mettono a esistere, contro le labbra dell’altro le vostre diventano sensibili, davanti ai suoi occhi semichiusi il vostro volto acquista una certezza: c’è finalmente uno sguardo per vedere le vostre palpebre chiuse. Anche l’amore, come lo specchio e come la morte, placa l’utopia del vostro corpo, la fa tacere, la calma, la ripone come in una scatola, la chiude e la sigilla. È per questo che l’amore è così vicino all’illusione dello specchio e alla minaccia della morte. E se, nonostante sia circondato da queste due figure pericolose, ci piace tanto fare l’amore, è perché nell’amore il corpo è qui11.
Note
↩1 | Perché quando l’amore svanisce / Fa la sua comparsa la giustizia / E quando la giustizia svanisce / Ecco apparire la forza / E quando la forza finisce / C’è sempre la mamma; trad. mia. |
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↩2 | Tienimi, mamma / Tra le tue lunghe braccia / Le tue braccia petrolchimiche / Le tue braccia militari / Le tue braccia automatiche / Tra le tue braccia elettroniche; trad. mia. |
↩3 | Pur senza un riferimento che sia uno alla relazione sentimentale tra Deleuze e Guattari, sembra tuttavia alludervi, non so se consciamente, Marco Dotti in Deleuze/Guattari: una vita in due?, «Tysm. Philosophy and Social Criticism», 12 febbraio 2016. |
↩4 | Cfr. The Boy Who Was Turned Into a Girl, BBC, 2000. Per un’analisi del caso di David Reimer, cfr. Judith Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis, 2014. |
↩5 | Porpora Marcasciano, Antologaia, Alegre 2015. E prosegue: «Ho avuto tantissimi rapporti sessuali con uomini eterosessuali, molti con i cosiddetti compagni, alternativi o rivoluzionari, ma non ho mai sentito uno di loro che ne parlasse tranquillamente o che lo rivendicasse non solo come relazione personale ma come atto politico rivoluzionario. E questa non è una mia frustrazione, ma un loro fallimento». |
↩6 | Non è importante come sei / L’importante è che paghi quando esci; trad. mia. |
↩7 | Cfr. tra gli altri, Sins Invalid, Yes, We Fuck!, Back to Back Theatre, Graeae. |
↩8 | Petra Kuppers, Disability and Contemporary Performance: Bodies on the Edge, Routledge 2013. |
↩9 | Per tali riflessioni sono debitore del saggio di Brunella Casalini, Governo neoliberale dei corpi disabili e immaginari di resistenza, in Federico Zappino (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, ombre corte 2016, pp. 86 ss. |
↩10 | Michel Foucault, Il corpo, luogo di utopia, trad. it. di Gloria Origgi, nottetempo 2008. |
↩11 | Ibid. |
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