Solo un inizio

Il '68 come non lo avete mai letto

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Nanni Balestrini, Potere operaio (1971).

Quello che avete davanti non è un libro di e per reduci, e non è un libro di memorie. Non è un libro nostalgico, che vuole ricordare i bei tempi andati, e non vuole celebrare una presunta migliore gioventù. Tutt’altro. Questo libro è scritto, per la maggior parte, da persone che al ’68 non parteciparono, perché allora non erano, ancora, neppure nate. Filosofi, critici, storici, giornalisti, militanti, artisti e professionisti di professioni innominabili che su quell’evento riflettono per cercare di capirne l’attualità, ovvero la portata rivoluzionaria che temi, gesti e posture di allora hanno avuto nel tempo, possono avere ancora oggi, e potranno avere domani. Non è quindi un libro che guarda al passato, ma è piuttosto rivolto ostinatamente al futuro. Certo molti dei saggi qui contenuti ricostruiscono minuziosamente momenti e passaggi determinanti del Maggio, ma sempre per saggiarne la portata radicale nel tempo che viene. Quali rotture ha determinato il ‘68 e in che misura alcune di queste continuano a risuonare ancora oggi tra le generazioni più giovani? L’uscita dalla fabbrica e il rifiuto del lavoro, la rivoluzione copernicana del conflitto di classe e della vita quotidiana, la trasformazione radicale delle relazioni tra i sessi e le generazioni, la questione del sapere e delle sue istituzioni, il rapporto con l’autorità, la salute mentale, il privato che si fa politico. La creatività come strumento di lotta, l’arte che si fa povera e militante, la bellezza che scende nelle strade e l’avanguardia che sembra finalmente farsi vita chiudono il secolo breve e aprono la strada a quel lavoro culturale diffuso che caratterizza il nostro tempo e la sua economia, le sue nuove subordinazioni e le brecce di sempre rinnovate vie di fuga. Sono queste le domande e i temi affrontanti dagli interventi a più voci di autori di generazioni diverse.

L’occasione per pubblicarli nasce da una serie di quattro tavole rotonde sul ’68 organizzate, su iniziativa di Cristiana Collu, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, in coincidenza con la mostra, a cura di Ester Coen, È solo un inizio. 1968 (dal 3 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018)1. I temi scelti per gli incontri, curati e coordinati da noi, sono stati il rifiuto (con Giuseppe Allegri, Franco Berardi Bifo, Federico Chicchi, Pierre Dardot, Franco Piperno, Vincenzo Ostuni), gli affetti (con Ida Dominijanni, Letizia Paolozzi, Gilda Policastro, Sarantis Thanopulos, Federico Zappino), e la creatività, (con Nanni Balestrini, Ester Coen, Andrea Cortellessa, Paolo Virno); a questi si è aggiunto un finissage che presentava il giornale/catalogo della mostra e rilanciava ulteriormente i temi delle tavole rotonde (con, oltre a noi due, Giovanna Ferrara, Francesco Raparelli, Lidia Riviello)2. Il libro, oltre ad accogliere gli interventi presentati in quella occasione, contiene anche gli interventi di alcuni autori che non sono intervenuti di persona agli incontri, ma avrebbero potuto, per la loro affinità con l’approccio proposto dall’iniziativa (Eric Alliez, Daniel Blanchard, Andrea Colombo, Claire Fontaine, Piero Gilardi, Gabriele Guercio, Maurizio Lazzarato, Cristina Morini, Marco Scotini, Elvira Vannini, Benedetto Vecchi). A mo’ di appendice, chiude il libro la poesia di Nanni Balestrini, Istruzioni preliminari, presentata in anteprima in occasione dell’ultima tavola rotonda alla Galleria Nazionale.

Per sintetizzare quanto già detto qualche riga sopra, e quanto sviluppato in questi saggi, possiamo dire che per noi il ’68 è un gesto. Quello di Tommie Smith e John Carlos che alle Olimpiadi di Città del Messico, occhi rivolti a terra, alzano con braccia diverse il medesimo pugno coperto da uno speculare guanto nero. Ma è anche il gesto di un braccio teso che si fa ciminiera di fabbrica o eterna sospensione della forza di gravità nel lancio di un sampietrino, come nelle serigrafie uscite dall’Atelier Populaire di Gérard Fromanger della scuola di Belle Arti a Parigi. È il dito mancante di Gian Maria Volonté, alias Ludovica Massa, operaio che in fabbrica lascia pezzi del proprio corpo, della propria vita, del proprio tempo, e che all’improvviso rivuole indietro tutto quello che gli è stato rubato, punto e basta. Ed è anche la voce di Demetrio Stratos. È l’urlo dei ragazzi che il 2 ottobre del 1968 muoiono a Piazza Tlatelolco, nel massacro che si consuma a città del Messico in occasione delle manifestazioni studentesche che precedono i giochi olimpici. È la lotta, indefessa, di Carmelo Bene contro la dittatura del testo e contro la rappresentazione.

Ancora, è l’immagine delle camionette della celere a Valle Giulia e degli studenti che non scappano più. È il tempo della prassi che rovescia. È una rivista, «Quindici», 19 numeri tra il giugno del 1967 e l’agosto del 1969, ma anche i «Quaderni Piacentini» di Piergiorgio Bellocchio. Il ’68 è L’Internazionale Situazionista, e un trittico di libri-miccia, Della miseria nell’ambiente studentesco – anonimo ma scritto sostanzialmente da Mustapha Khayati –, Trattato del saper vivere a uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem e La società dello spettacolo di Guy Debord, tutti usciti nel 1967. È un dittico di Tesi, quelle della Sapienza (ovvero dell’Università di Pisa) del 1967, che avanzano la questione degli studenti come forza-lavoro in formazione, e quelle del 1969 di Hans-Jürgen Krahl, che contro l’opaca riforma habermasiana della teoria critica francofortese, da un lato, e l’apocalittica e paralizzante disperazione di Adorno, dall’altra, insiste sul ruolo immediatamente produttivo dell’intelligenza tecnico-scientifica e sulla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

È la fine di un mondo, in effetti, che apriva la possibilità di una trasformazione radicale. E infatti con il ’68 inizia la fine del mondo. Ma poiché, come spiega Ernesto De Martino nella sua opera incompiuta, a finire non è mai il mondo, ma un mondo in particolare, quello che inizia a finire con il ’68 è appunto un mondo, quel mondo nato dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, il mondo borghese. In questo senso il ’68 è una rivolta contro le istituzioni che avevano dato vita a quel mondo, e quindi contro quella università, quella scuola e quel sistema educativo, contro il quale si scagliava, nel 1967, la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana e di Don Lorenzo Milani. Contro la famiglia, il sesso, la morale, la cultura, e contro l’organizzazione economica e istituzionale che quel mondo si era dato, con la forma di un’ortopedia sociale e disciplinare di massa. Il ‘68 è una rivoluzione totale che vuole farla finita una volta per tutte con quel mondo, e ogni sua espressione e manifestazione è solo l’inizio di un rivolgimento molto più complesso e articolato. È dunque una rivoluzione antiautoritaria, perché vuole mettere in discussione i ruoli, e linguistica, perché ogni mondo ha una propria lingua che si può difendere, combattere e/o reinventare.

È una rivoluzione libertaria, senz’altro, perché vuole rovesciare la morale borghese, la famiglia, i rapporti tra i sessi, insieme al modo di vestire, di mangiare, di abitare e di vivere la vita quotidiana. Ma è anche, e decisamente, una rivoluzione anticapitalista, che di quel sistema economico-sociale si vuol disfare per spalancare le porte a rapporti sociali e lavorativi più liberi e giusti. Non c’è ’68 senza ’69, non bisogna dimenticarlo: ovvero non ci sono studenti dentro e contro l’università senza operai in lotta dentro e contro la fabbrica. In questo senso il ’68 fa parte di una lunga lotta che annovera tra le sue date il 1378 del tumulto dei Ciompi, il 1525 della battaglia di Frankenhausen, il 1789 della presa della Bastiglia, il 1793 dei giacobini neri ad Haiti, il 1848 dei moti radicali in Europa e il 1871 della Comune di Parigi. Senza dimenticare il 1905 dei Soviet e il 1917 dell’assalto al Palazzo d’inverno. La presa di parola collettiva segna il declino inevitabile della rappresentanza e della rappresentazione, e anche l’artista e l’opera d’arte iniziano a essere messi radicalmente in discussione: fuori dal quadro, fuori dalle linee, un movimento che dalle fabbriche e dalle gallerie d’arte si riversa giù nelle strade. È dunque, l’abbiamo detto, l’inizio di una fine, ma è anche l’inizio di una transizione, quella da un mondo a un altro. Sì, perché, è sempre De Martino a spiegarlo, con la fine di un mondo, ne inizia uno nuovo. Con il 1968 allora, e lo si vede bene nel lungo ’68 italiano che dura fino al 1978, inizia la transizione dall’immagine borghese all’immagine moltitudinaria del mondo.

Il ’68 è, in questo senso, l’ultima delle rivoluzioni moderne, come il ’77 sarà la prima delle insurrezioni postmoderne (e la differenza tra rivoluzione e insurrezione non è una questione puramente linguistica, essendo il concetto di rivoluzione, scientificamente e politicamente, tutto dentro l’immagine borghese del mondo). È la fine del tempo, o meglio di una certa idea del tempo che scorrerebbe inesorabilmente verso il meglio, incarnata dall’idea di progresso e di modernità, e l’inizio di un altro tempo, o meglio di molti tempi differenti che si muovono contemporaneamente in molte direzioni. Il ’68 allora ce n’est qu’un début, come recita uno degli slogan più famosi del maggio parigino, perché non è che l’inizio di un mondo nuovo, il nostro mondo, quello nel quale ci troviamo oggi. E questo inizio non finisce mai di ricominciare sempre daccapo, ogni giorno. Il ’68, infine, è quella solenne incazzatura raccontata da Luciano Bianciardi e che, covata in solitudine negli anni del boom economico, qualche anno dopo si sarebbe incarnata nel corpo collettivo di una generazione che, da una parte all’altra dell’Oceano, imparava a cospirare, ovvero a respirare insieme.

Il bilancio di quell’esperienza è questione che una precisazione di Gilles Deleuze nel proprio film abecedario ci aiuta a collocare. «Lo abbiamo sempre saputo che sarebbe andata a finire male»3 afferma il filosofo, alludendo con ciò non di certo al rimpianto che dal malore del presente torna a colonizzare il passato e l’opportunità delle sue scelte di rottura, del suo desiderio di discontinuità, delle sue capacità di sbalzare per un qualche tempo l’umanità tutta radicalmente da un’altra parte: in un mondo possibile che è stato tale solo perché capace di desiderare all’altezza della propria potenza. È l’abitudine al tempo verbale del condizionale passato cui siamo stati addestrati da un neoliberismo cominciato con i pentimenti teorici dei nouveaux philosophes, con i revisionismi delle vicende dell’insubordinazione da tornare a sconfiggere sempre e di nuovo, con i detournamenti delle intenzioni da rovesciare in colpe e responsabilità proiettate sul tempo attuale. E di un’epoca tutto sommato breve nella storia umana della quale ancora ci arriva l’eco dell’umana capacità di «fare mondo» non resterebbero oggi che i suoi paradossi trasformati in macerie: il desiderio tradotto in merci e illimitato consumismo, la fuga dalle istituzioni ribaltato nel loro collasso, la lotta allo sfruttamento diventata una fabbrica diffusa di rapporti servili. Tra queste storie «finite male» ci aggiriamo oggi alle prese con i loro resti. Fossero anche ridotti a un niente, riprenderli in mano serve a ricordarci non tanto che un mondo può finire, ma che non è mai persa la facoltà di farne un altro.

Introduzione a È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68 (ombre corte, 2018), a cura di Ilaria Bussoni e Nicolas Martino. Il volume si può ordinare in libreria o direttamente presso l’editore con lo sconto del 15%.

Note

Note
1Si veda anche il giornale/catalogo È solo un inizio. 1968, a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino, Electa, 2017.
2Le tavole rotonde si sono tenute il 19 novembre, il 19 novembre e il 17 dicembre 2017, e il 14 gennaio 2018. Tra gli interventi non vengono qui riproposti, per motivi diversi, quelli di Andrea Cortellessa, Ester Coen e Vincenzo Ostuni.
3Gilles Deleuze, Abecedario, a cura di Claire Parnet, regia di Pierre-André Boutang, DeriveApprodi, 2005.

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