Opera d’arte collettiva
Che cos'è un'OperaViva?
Il soggetto è oggetto del godimento dell’Altro. Non c’è soggetto senza essere oggetto. Ecco perché il concetto stesso di soggetto, intriso di dialettica e modernità fino al midollo, non è forse più sufficiente a interpretare il progetto rivoluzionario. Il processo di soggettivazione deve dunque fare una deviazione e passare per il reale, perché lì la distinzione tra soggetto e oggetto salta per aria.
Soggetto in sorvolo assoluto (Lacan): il soggetto che incontra il reale del suo essere, che deve passare per il reale e poi tornare ad essere corpo, corpo che parla, esperienza con l’altro e di altro. Questa è per me l’opera viva. L’opera viva è il tornare a farsi corpo del soggetto dopo essersi immersi nell’abisso del reale, dopo aver fatto esperienza dell’immanenza assoluta. L’opera viva è il singolare dell’intensità reale.
Il galleggiante, il filo da seguire, per non sprofondare nell’abisso senza nome, è ancora una volta un oggetto, ma un oggetto che non è un oggetto, che viene dal reale e non dal simbolico (seppur quest’ultimo serva per in-tagliarlo). È questo cambio di segno dell’oggetto che scrive la possibilità dell’opera viva. «Non sono del tutto sicuro che il concetto d’oggetto a in Lacan sia qualcosa di diverso da un punto di fuga, da un sottrarsi proprio al carattere dispotico delle catene significanti» (Guattari).
Il campo in cui il lavoro vivo si può liberare dallo sfruttamento e diventare opera è quello artistico (amore creativo per dirla alla Giordano Bruno). Pensiamo all’oggetto dell’arte: «niente di ciò che ci attornia è per noi oggetto, tutto è soggetto» diceva Breton. Al contempo l’atto artistico non è mai solo individuale, ma sempre collettivo e individuale al contempo: «Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora» (Deleuze).
L’atto di creazione è organizzazione attorno alla deviazione del significante dal buonsenso, finalmente scardinato dal registro dell’utile. L’arte affonda dunque un piede nel reale, opera degli effetti materiali, agisce cioè contemporaneamente sul piano delle forze e su quello delle forme. Noi oggi sappiamo tuttavia, come nel discorso del capitalista, ogni frattura, ogni sovversione di un ordine dato venga riscritta e ricodificata, messa in produzione. Rimessa in circolo.
La linea dell’arte è comunque sempre arte del divenire (popolo). E questo non è poco. Allora occorre lavorare attorno alla possibilità di tracciare delle linee di fuga dagli assiomi che fissano le ampiezze del processo di singolarizzazione. Potremmo dire che è una questione di orizzonte, cioè di imparare ad usare una coincidenza, in altre parole usare un limite per aprire un varco. Di saper congiungere e disgiungere allo stesso tempo. Ecco un altro modo per chiamare un’opera viva.
L’unica linea di fuga che sia possibile tracciare non può che essere consustanziale al desiderio, non può che iscriversi nella forza produttiva del desiderio e dei suoi concatenamenti. La linea di fuga è una relazione che si stabilisce per congiungere i flussi desideranti che si sottraggano all’oppressione, ma d’altra parte niente può garantire che la linea di fuga non si pieghi su se stessa abolendo e mortificando la vita. Tracciare linee di fuga significa allora aprirsi al rischio tradendo i segmenti che ci individuano e bloccano la possibilità del divenire altro. Tracciare linee di fuga significa allora anche accettare di perdere il volto ed essere finalmente sconosciuto. Bisogna essere dei capolavori diceva Carmelo Bene.
D’altra parte, l’uscita dal capitalismo che uccide l’amore, difficilmente può essere tracciata secondo una logica dell’accelerazione o ancor peggio secondo la sua logica contraria e perversa, quella dell’origine incontaminata cui tornare. Quindi né ritorno al mito del valore d’uso, né proseguimento della logica dell’astrazione reale ma costituzione di un essere in comune, antagonistico rispetto a quello privato e deprivato del capitale.
Un essere in comune, capace di disincantare e smontare le scenografie fantomatiche della merce e in grado di accettare il compito della costituzione di una nuova dis-misura del mondo. In fondo non si tratta che di costruire una nave con una carena capace di solcare le acque, creare un’opera d’arte collettiva, accettare che sia un progetto senza fine. Salirci sopra e salpare, tracciare una rotta. Un’opera viva che sappia estrarre, ancora e ancora e ancora (perché è sempre la prima volta) dalla paralisi dei significanti il ritmo della bellezza. Ed è così, danzando, che può venir fuori una vita inedita.
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