Per una politica dello sciame

Contro l'ossessione identitaria e sovranista

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Nicole Gravier, Lettera/coca-cola, Mythes et Clichés. Fotoromanzi, serie Attesa, 1976-80, collage su fotografia, cm 30x40

Se il meccanismo della politica fosse quello fisiologico della rappresentanza, «sono qui perché mi votano», allora i due no suonerebbero la campana funeraria per le politiche ordoliberiste, spezzerebbero al mercato la mano che invisibile non lo è mai stata, costringerebbero le cancellerie a un cambio di passo, imporrebbero ai governi di riprendere dall’ultimo cassetto il faldone impolverato dove hanno rinchiuso i termini di un’Europa solidale 

London calling, cantavano i Clash nel 1979, preconizzando l’arrivo di un’era glaciale nella quale precipitava il sole. Londra annegava, diceva il punk mentre tutto di quegli anni ci sembra ora splendente. In tanti si sono ricordati di questa canzone dopo il referendum di inizio estate, con il quale la Gran Bretagna ha spinto l’Europa ai confini della penisola, facendone un soggetto estraneo, ridisegnando la geografia dell’intero continente che sembra ormai fatto delle macerie di un sogno. A distanza di un anno dall’Oxi greco un altro paese si rifiuta di aderire al progetto franco-tedesco. Lontani dal voler cogliere le similitudini tra gli eventi, ci interessa invece smascherarne le differenze: se ad Atene si diceva no alla «sudalterna» sottomissione, a Londra si è detto no allo smantellamento dei privilegi ai quali si è sempre arroccata la partecipazione della Gran Bretagna al progetto comunitario.

Differenze di posizioni, di intenti, di vedute. Differenze di situazioni, di redditi, di ambizioni. Eppure lo stesso scrutinio: no. Se i due estremi immaginari di un continente pronunciano lo stesso rifiuto viene naturale far scivolare il pensiero verso ipotesi che suonano più o meno così: in nessun paese di questa Europa probabilmente riuscirebbe a uscire dalle urne referendarie una adesione, né tanto meno una adesione entusiasta al sogno europeo, che si è trasformato nell’incubo dell’austerity con le banche che ti scippano i porti, e le pensioni, e la sanità e la scuola e il presente (di avvenire non si parli, è un argomento troppo tetro). Se il meccanismo della politica fosse quello fisiologico della rappresentanza, «sono qui perché mi votano», allora i due no suonerebbero la campana funeraria per le politiche ordoliberiste, spezzerebbero al mercato la mano che invisibile non lo è mai stata, costringerebbero le cancellerie a un cambio di passo, imporrebbero ai governi di riprendere dall’ultimo cassetto il faldone impolverato dove hanno rinchiuso i termini di un’Europa solidale, aperta, meticcia, gioiosa, così come la tracciava Spinelli sugli appunti presi nel confino di Santo Stefano.

Una storia immaginata mentre si era richiusi in un Panopticon carcerario non può assomigliare a questo stato di cose in cui la torre fisica del controllo è sostituita dalla paura diffusa. Ma le cose non stanno cosi. I presidenti non rispondono agli elettorati, la democrazia è in crisi, a governarci è la finanza, le malefiche oscillazioni dei mercati che servono solo a dettare un nuovo ordine: chi ha di più deve avere di più. Che muoiano tutti gli altri, nei mari mentre cercano di sbarcare o sotto i ponti mentre cercano di dormire, o semplicemente nelle vite di miseria individuale, nell’invidia sociale che nessuna insorgenza produce.

Ed è proprio questo clima di paura diffusa a costituire terreno fertile per la crescita e la diffusione di un particolare tipo di populismo postmoderno, che fa leva sull’identità e la comunità, e su una specifica ossessione immunitaria legata a una promessa: Io, dice questo populismo a gran voce, ti proteggerò dal «grande freddo» del proceduralismo delle istituzioni liberaldemocratiche, dallo sradicamento globale che vuole toglierti tutto, il benessere e l’identità. 

Ed è proprio questo clima di paura diffusa a costituire terreno fertile per la crescita e la diffusione di un particolare tipo di populismo postmoderno, altrimenti declinato in altre forme anche molto diverse. Una forma di populismo che fa leva sull’identità e quindi sulla comunità, e su una specifica ossessione immunitaria legata a una promessa: Io, dice questo populismo a gran voce, ti proteggerò dal «grande freddo» del proceduralismo delle istituzioni liberaldemocratiche, dallo sradicamento globale che vuole toglierti tutto, il benessere e l’identità. Ma a ben vedere, quella che si diffonde non è affatto una alternativa e una cura ai mali del neoliberismo globale, ma al contrario una reazione specifica della stessa patologia che prolifera a partire dal «cuore di tenebra» della cultura occidentale, ovvero l’ideologia identitaria. Se infatti, sul piano politico-economico, questo populismo postmoderno fa suo, completamente, il modello neoliberista, sul piano politico-culturale non fa che riproporre, in sedicesimo, quella stessa logica identitaria che ha informato di sé il liberalismo moderno e le sue istituzioni politiche costruite intorno all’«in-dividuo», ovvero a un soggetto indiviso, un soggetto-sostanza piantato sull’identità del principio di non contraddizione.

Ciò che accade allora è che così come nella modernità la «differenza» veniva sempre ridotta all’uno, si pensi in questo senso a quella immagine straordinaria della copertina del Leviatano di Hobbes dove una moltitudine «differente» si fa «popolo» indifferenziato dentro il corpo unico del sovrano, così il populismo postmoderno fa appello al popolo, alla comunità, alla nazione, che promettono di proteggere e conservare identità, territori, tradizioni, lingue. Conservare e proteggere dall’invasione straniera, dove la «differenza» straniera è senz’altro il «barbaro» che arriva dall’est e dal sud del mondo, ma anche i rappresentanti delle istituzioni europee neoliberiste, se queste impediscono spazi di manovra vantaggiosi a un neoliberismo meglio acclimatato dentro i confini comunitari e nazionali. La differenza viene espulsa, la capacità che ogni singolarità ha di esprimere conflitto viene neutralizzata in nome di una identità comunitaria che protegge.

Alla domanda «Come ti chiami?» il demone rispondeva «Il mio nome è Legione perché siamo molti». Ognuno di noi è un sé in costruzione, mai dato una volta per tutte, ognuno di noi è molti e quindi è una Legione che qualcuno vorrebbe esorcizzare.  

Pensiamo appunto al sovranismo ritornante, alle patrie grandi o piccole, alle culture, alle tradizioni e alle lingue che si vogliono recuperare e tutelare nella loro presunta «purezza», alle comunità sovrane che nella loro omogeneità finiscono sempre per neutralizzare il «pericolo» della differenza, che sia interna o esterna. Pericolo sì, perché la differenza non è sovrana, non ha nulla da conservare e tutelare se non la sua diversità, non ha tradizioni e padri nobili, è figlia di nessuno e proprio per questo è tutta proiettata in avanti nella costruzione di ciò che viene. La differenza pensa il soggetto non come soggetto-sostanza identico a sé stesso, ma come singolarità differente in sé: ognuno di noi è molti, come hanno sempre saputo i poeti e i pensatori più accorti. E come da sempre sa quel pensiero teologico-politico che condanna come demoniaca la differenza moltitudinaria. Basti ricordare, in questo senso la narrazione dei Vangeli canonici a proposito di un esorcismo praticato da Gesù a Gerasa. Alla domanda «Come ti chiami?» il demone rispondeva «Il mio nome è Legione perché siamo molti». Ognuno di noi è un sé in costruzione, mai dato una volta per tutte, nessuno rimane identico a se stesso, ognuno di noi è molti e quindi è una Legione che qualcuno vorrebbe esorcizzare. Ma allora come lasciarsi alle spalle quella logica identitaria che il populismo postmoderno eredita dal liberalismo moderno? Come spezzare questo «doppio legame» costituito dal liberismo globale e dal populismo liberal-sovranista? Come e dove la differenza può esprimere la sua potenza costruttiva senza essere neutralizzata e riportata a un principio unitario?

Qual è, insomma, la «forma» politica specifica della differenza, dopo il tramonto delle forme politiche moderne? Caute avanziamo una proposta, quella dello «sciame». Farsi sciame, perché nello sciame, per rendersi conto di come funziona basta osservare gli uccelli in volo, ogni singolarità rimane tale e partecipa nella sua differenza alla costruzione del volo comune. Lo sciame in cielo disegna figure contingenti e precarie che variano in continuazione, nessuna delle singolarità differenti che partecipa al volo ne rimane catturata per sempre.

Ecco allora che quello che ci serve, oggi più che mai, è uno sciame della differenza che non ha nulla da difendere e rivendicare, nessuna tradizione e nessuna sovranità. Pensiamo in questo senso alle straordinarie suggestioni di Gilles Deleuze quando a proposito della lingua e delle sue politiche insiste su quelle strategie che lavorano dall’interno una «lingua maggiore» innescando in essa una linea di variazione che la trasformerà in una lingua «straniera» e farà di ognuno di noi uno straniero nella propria lingua, trasformando la lingua maggiore, sovrana, in una lingua minore e moltitudinaria. Cosa hanno fatto Franz Kafka con il tedesco o i grandi scrittori americani con l’inglese? Che cosa hanno fatto Emilio Villa e Carmelo Bene con l’italiano? Che cosa hanno fatto i grandi artisti se non imprimere una variazione minore a una tradizione linguistica maggiore? Se non praticare un uso minore, perché è nell’uso che si fa la differenza, di una lingua maggiore inventando un cromatismo più ampio?

Ecco dunque che se dalla lingua, questione politica par excellence, passiamo alla politica tout court, è ancora più chiaro come non ci siano sovranità e comunità, grandi o piccole, che tengano: la via di fuga, affermativa e produttiva, dal doppio legame del neoliberismo globale e del populismo sovranista sta in una politica della differenza, nell’organizzazione di uno sciame che costruisca un mondo sempre nuovo, dove il principale compito politico sarà quello di iniziare a inventare, da subito, una lingua del «comune», la lingua del popolo a venire, di un popolo che manca.

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