Perché il sogno non è meno vero dell’incubo

Sulla caduta del governo degli orrori

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Paolo Buggiani, Scultura di fuoco (2014) - MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove.

Capitolo I: È il popolo che va rifatto, non il governo
Il discorso di Conte è il discorso di un vigliacco. Dare addosso ad uno che nel governo da lui presieduto non faceva il sottosegretario alle magliette estive ma il vice presidente del consiglio, è la postura cinica della politica, capace di fare immaginare verginità di intenti e immacolatezze di prassi. Il Movimento 5 stelle ha voluto e portato avanti la stessa politica dalla quale prende le distanze. Quella fatta d uno show perpetuo ai danni di chi in mare annegava, o di chi aspettava per giorni e giorni sotto il sole d’agosto che il messaggio promozionale della Lega fosse sufficientemente spregevole da piacere a un paese di idioti.

Perché solo un paese di idioti può farsi fregare così. individuando nel migrante la minaccia mentre un sistema economico finanziario fa della famiglia l’unico welfare possibile. Mentre si muore per mano dei mariti, nei monolocali, spesso dentro situazioni di isolamento e degrado sociale, mentre si perdono lavori, ci si suicida perché non si ha nemmeno un reddito su cui contare, mentre i servizi erogati dagli enti locali hanno ridotto le strade a terre di vermi e topi e immondizia. Mentre non esiste la sanità e per curarsi bisogna andare al nord, non sapendo come fare a trovare qualcuno che si occupi di una fase delicata e difficile come la malattia. Mentre c’è gente che muore per non aver fatto tac in tempo. Mentre circolano contratti a trenta giorni, mentre capita che in un lavoro interinale non si possa nemmeno andare in bagno.

Capitolo II: recuperare la memoria
Gli anni Settanta e l’avanzata dei diritti. La scala mobile per non farsi mangiare i soldi dall’inflazione. La cacciata di Lama per ricordare al sindacato che non è per sedere coi padroni che è stato creato. La resistenza al fascismo sulle montagne. Fischia il vento e bella ciao. Il no greco ruggito da un popolo che stavano affamando con la chiusura dei conti. Le navi nel mediterraneo che salvano uomini e poi violano i blocchi. Le piazze riempite dalle donne che non vogliono più tenere sui loro corpi il peso della cura, che vogliono vivere delle loro differenze. Gli scioperi degli operai. Il Manifesto che non è morto, ribaltando qualsiasi legge di mercato. Tutti quelli che fanno politica nonostante tutto. Tutti quelli che si alzano e scrivono le ingiustizie. I cantautori che cantano in direzione ostinata e contraria. Chi ci ricorda con la musica che la rivoluzione c’è, sta nel fondo dei tuoi occhi, sulla punta delle labbra, nella gioia e nella rabbia, nel distruggere la gabbia. Genova e i lacrimogeni e le botte e noi, tutti li. Sentire il cuore che batte quando si muore di lavoro. Sentire di dover parlare fino a notte fonda quando non sembra esserci più poesia. L’amore.

Capitolo III: la morte delle socialdemocrazie
Non crediamo a Conte, alla sua cravatta inamidata così’ vicina a quella del criminale Salvini. Quella vicinanza non è solo fisica, è culturale: si può giocare sulla vita dei disperati. Quella vicinanza non esclude, ma include il partito democratico. Lo chiama in causa, anzi, non come salvatore, ma come il facilitatore del dilagare del fenomeno razzista. A partire da quando l’odioso Giorgio Napolitano assieme alla furba Livia Turco si inventarono i centri di permanenza territoriali, le prigioni per chi non ha commesso reato. O gli sgomberi feroci del ministro Minniti, faccia da minculpop, postura da ventennio. O negli accordi firmati dall’irrilevante Paolo Gentiloni, che ha avuto solo il tempo per firmare con la Libia degli accordi che sono stati il nullaosta a torture e stupri. Scenari tremendi, che fanno dell’inferno qualcosa a portata di vista, nelle giornate nitide quando dalla Sicilia si vede la costa africana. Sono morte le socialdemocrazie, tradendo la loro vocazione e disperdendo i loro tesori, a partire dall’internazionalismo, che ai confini sostituiva il pensiero della comunità di condizioni e che riconosceva una sola lotta, la lotta di classe.

Capitolo IV: tocca a noi
Non sarà Renzi a salvarci. E neppure Zingaretti. Non sarà questa cultura, non sarà questo capo di Stato. Non sarà una alleanza, non sarà un governo istituzionale, né un governo di legislatura. Siamo noi, l’anomalia della storia, a dover tornare sulla scena, per irrompere bruscamente con il sogno. Perché il sogno non è meno vero dell’incubo.

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