Politicità dello sguardo

Una conversazione con Fabio Condemi

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Fabio Mauri, Analogia (1964).

Nel marzo 1966, Pasolini è colpito da un’ulcera che lo costringe a letto per un mese. Durante la convalescenza legge i Dialoghi di Platone e, «sconvolto dalla loro bellezza», scrive quasi di getto sei tragedie, ma ne pubblica solo una: Calderón (1973), che si ispira a La vida es sueño (1635) di Pedro Calderón de la Barca, ma è ambientata nella Spagna franchista degli anni Sessanta. Il testo, messo in scena per la prima volta da Luca Ronconi al Teatro Metastasio di Prato nel 1978, è stato scelto per inaugurare il progetto «Come devi immaginarmi», ideato dal direttore di Emilia Romagna Teatro, Valter Malosti, insieme a Giovanni Agosti, che prevede l’allestimento di tutte le opere teatrali di Pasolini nel corso della stagione teatrale 2022-23. A metterlo in scena è stato Fabio Condemi, premio Ubu per la miglior regia nel 2021. Gli ho rivolto alcune domande intorno a questo suo spettacolo, che ha debuttato il 2 novembre scorso all’Arena del Sole a Bologna, è andato poi in scena al LAC di Lugano e nel corso del 2023 sarà proposto in diverse città europee.

F.F.: Pasolini accompagna il tuo percorso di regista dai tempi dell’Accademia Silvio d’Amico. Cosa ha significato per te l’incontro con Pasolini? In che modo ha influito sul tuo lavoro?

F. C.: Durante l’ultimo anno d’Accademia venne a farci lezione Giorgio Barberio Corsetti e per me fu un incontro importantissimo. Giorgio propose alla classe di regia e recitazione un lavoro sulla scrittura di Pasolini. Fu un periodo molto intenso di studio, con una meravigliosa confusione sul da farsi: a differenza di altri insegnanti Corsetti non ci diede un testo da mettere in scena, ma ci chiese di ragionare sulla scrittura di Pasolini e di ricavarne degli studi, e poi di metterli in scena utilizzando dei nostri compagni di classe e degli attori già diplomati. Il risultato fu un lavoro su alcune scene di Bestia da stile, che fu il mio saggio di diploma in regia nel 2015. Le prove con Gabriele Portoghese e gli altri attori erano esaltanti perché ogni pagina del testo richiedeva nuove scelte (drammaturgiche, visive, attoriali). Quello fu il primo incontro felice con la scrittura di Pasolini e fu decisivo per i lavori successivi. In Questo è il tempo in cui attendo la grazia, un collage di pagine delle sceneggiature di Pasolini, ancora insieme a Gabriele Portoghese, ho cercato di concentrarmi sul tema dello sguardo e del tentativo della parola di comprendere, afferrare, entrare e modificare la realtà. Nelle sceneggiature di Pasolini c’è una capacità enorme di entrare nella realtà, di descriverla, di illuminarla attraverso le parole. Non è ancora cinema e non è romanzo, ma un genere intermedio fatto di descrizioni in cui lo scrittore e il lettore sono ugualmente importanti per costruire l’immagine descritta. Infatti in questi testi l’azione della scrittura è costantemente quella di portare chi legge a VEDERE: per questo il punto di partenza è uno schermo bianco nel quale affiorano immagini, scritte, appunti, descrizioni. Ci siamo molto ispirati ai lavori di Fabio Mauri per creare il dispositivo nel quale avviene questo montaggio fatto di pezzi di sceneggiature, appunti visivi, versi, folgorazioni figurative e che crea uno sguardo costantemente inquieto e inquietante sulla realtà. Un film che ho scoperto solo di recente ma rende benissimo questa idea è Scénario du film «Passion» di Godard. Non mi considero un esperto del teatro di Pasolini e ci tengo a dirlo. Però ogni volta che ci torno, riscopro la gioia dello studio e sento che il tempo speso a studiare, a interrogarsi sul teatro di Pasolini è un tempo prezioso per me.

F. F.: Pasolini considerava Calderón il più riuscito tra i suoi testi teatrali. Eppure Calderón è il testo in cui più sembra rimanere fedele all’idea tradizionale di teatro, che tanto avversava. Questo lui lo sa, perché per due volte quasi se ne scusa, attraverso lo speaker suo portavoce. Per due volte, prima del III e del XV episodio, lo speaker si rivolge al pubblico e gli chiede di sentirsi per un po’ come il pubblico del vecchio teatro, scusandosi per la cura quasi naturalistica della messinscena. Se ne scusa perché invece il «teatro di parola», che Pasolini proponeva come unica vera alternativa al teatro tradizionale come a quello d’avanguardia, doveva caratterizzarsi, oltre che per «la mancanza quasi totale dell’azione scenica», anche «la scomparsa quasi totale della messinscena – luci, scenografia, costumi ecc.». In Calderón troviamo invece entrambe le cose: una ricca azione scenica e un’articolata messiscena. Questa è una contraddizione molto interessante. Un’altra è costituita dalla potente dimensione visuale di questo testo, che contraddice il «teatro di parola» teorizzato da Pasolini, che richiedeva un pubblico che andasse a teatro «con l’idea più di ascoltare che di vedere (costrizione necessaria per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro)». Certo, in alcuni tratti, Caldéron sembra andar verso un teatro di idee, ma a dominare è l’immagine, la capacità di Pasolini di creare immagini. Vedi anche tu questa contraddizione?

F. C.: Pasolini parla di «contraddizione cosciente» (lo fa dire allo speaker). La cosa interessante è che le due ricostruzioni che Pasolini chiede a chi mette in scena il suo testo sono la ricostruzione di un quadro, Las Meninas, che come tema centrale ha proprio la rappresentazione, e la ricostruzione di un documento fotografico (una foto scattata nel dormitorio di un lager), con le domande che questa foto porta dentro di sé (è possibile ancora rappresentare o l’unica cosa che si può fare è documentare?). Nel mio lavoro ho ragionato su questo tema della rappresentazione. Il primo e il secondo sogno (quello della borghesia nobiliare e quello del sottoproletariato) sono più teatrali (hanno scene, costumi, cambi scena, entrate e uscite di scena, tanti personaggi e cambi continui come fossero due film). Nel terzo sogno (quello della piccola borghesia in cui Pasolini introduce il tema del lager) ho eliminato la teatralità e ho fatto in modo che gli attori spostassero il testo dalla sua rappresentazione (nessuno fa le azioni che descrive e tutti sono seduti a un tavolo, non ci sono più entrate e uscite, non ci sono cambi luce ecc.). Mi è sembrato un principio drammaturgico giusto per interrogarmi su queste contraddizioni e fare il mio Calderon senza seguire il Manifesto per un nuovo teatro (che considero un testo importante con cui confrontarsi, ma non un decalogo per una messa in scena corretta del teatro di Pasolini, che è molto più ricco e complesso di quel testo).

F.F.: È vero, in realtà quello che Pasolini chiede di mettere in scena non è il testo, ma sono due immagini: un quadro, Las Meninas, che come dice Foucault è «la rappresentazione della rappresentazione classica»; e una fotografia di un lager, cioè un «documento» che ritrae un evento che per molti si sottrae a ogni rappresentazione. Puoi dirci qualcosa di più sul modo in cui hai lavorato su queste immagini?

F. C.: La prima volta Las Meninas compare come diapositiva proiettata su un muro con un vecchio diaproiettore da Rosaura e Stella nel primo sogno. È un quadro ma il mezzo che usiamo per mostrarlo è quello della fotografia. Il suono del proiettore è stato amplificato in modo da evidenziare lo scatto (che torna più volte, di solito quando la realtà di Rosaura vacilla). Sulla foto del lager ci siamo fermati a ragionare molto. Io sentivo l’importanza di mostrare quella foto, di lavorare con un documento e credo che le parole di Pasolini abbiano la forza necessaria a confrontarsi con quell’immagine. Però, quando durante le prove è arrivata l’immagine (stampata su una tela di dimensioni molto grandi) mi sono sentito a disagio. Quel disagio mi ha aiutato, perché mi ha portato a fare uno spostamento a mio parere giusto. Non abbiamo mostrato la foto nel momento in cui lo speaker la descrive (un modo di utilizzare quell’immagine troppo didascalico e televisivo), ma molto prima. Con questo décalage abbiamo creato un momento in cui lo spettatore si trova faccia a faccia con quell’immagine, senza commento, e un momento in cui la recupera nella memoria ed è costretto a ricostruirla e a entrarci dentro attraverso le parole dello speaker e di Rosaura. L’idea di far fare agli attori la parte degli internati nel lager (magari travestendoli da deportati ecc.) non mi è mai passata per la mente. Credo che si tratti veramente di fare i conti con un documento che esiste, che qualcuno ha scattato in quel dato giorno e che ci guarda dritti negli occhi.

Still da video di Lucio Fiorentino e René Magritte: La reproduction interdite (1937).

F.F. I tuoi spettacoli presentano ogni volta una accurata e sorprendente drammaturgia dell’immagine, che affidi a Fabio Cherstich. Da questo punto di vista, il testo di Pasolini mi sembra molto interessante, non solo perché ha una forte dimensione visuale, ma perché ha come suo tema centrale l’immaginario, il sogno, il fantasma come dimensione del reale e della politica?

F. C.: Il fantasma è veramente importante nel nostro lavoro. Lavoro con Fabio Cherstich da Jakob von Gunten (2018) e da lui imparo continuamente qualcosa sul fare teatro perché Cherstich possiede una grande capacità di individuare il superfluo e di cercare quegli elementi che rendono unico il rapporto tra lo spazio e chi lo abita. Spesso parlando ci capita di citare gli habitat di Rezza\Mastrella, non tanto come riferimento visivo ma come idea di uno spazio\habitat che gli attori possono giocare veramente. Fabio lo scorso anno mi ha regalato un libro molto bello: L’immagine fantasma di Hervè Guibert. Un libro scritto da un fotografo ma completamente privo di immagini. In questo libro la scrittura cerca l’immagine perduta, la foto mai scattata, la foto ricordata, la descrizione di una foto distrutta, insomma: un’assenza, un vuoto che crea immaginazione in una tensione fortissima tra chi scrive, il fantasma che cerca di evocare e il lettore. Questo per me è estremamente teatrale. Per quanto riguarda Calderón provo a elencare alcune cose sulle quali abbiamo lavorato in ordine sparso. Il documento fotografico, il flash, è presente in tutti e tre i sogni. Nel primo un diaproiettore viene usato per proiettare sul muro delle diapositive del museo del Prado. Il Prado, per la Rosaura del primo sogno, è il museo della grande tradizione borghese nella quale la sua famiglia si riconosce. Le immagini che Rosaura proietta creano una sequenza drammaturgica (si potrebbero leggere come un riassunto per immagini di tutto il testo). Abbiamo scelto molti volti che guardano direttamente lo spettatore per poi passare all’immagine dell’Agnus dei di De Zubaran, che richiama il tema del capro espiatorio. Poi Crono che divora i suoi figli di Goya anticipa il finale del testo e, come ultima immagine delle diapositive, l’infanta Margherita di Las Meninas, che sembra guardare gli spettatori (in quel caso Rosaura) ma in realtà guarda i suoi genitori fuori dal quadro. Inoltre, le diapositive erano quelle che Longhi utilizzava a Bologna durante le sue lezioni e che causarono la «folgorazione figurativa» nel giovane Pasolini.

Riguardo Las Meninas abbiamo pensato ai film di Greenaway, alle griglie prospettiche, ai manuali di disegno e abbiamo creato un tableaux vivant non tanto del quadro ma di un suo ipotetico disegno come a voler cogliere il momento in cui l’autore studia tutti i rapporti tra gli spazi, gli sguardi, le luci e le figure. Abbiamo poi ragionato sul tema dello sguardo e la confusione tra guardare ed essere guardati: le immagini del Prado che abbiamo scelto sono soprattutto immagini che ci guardano, come nel bel libro di Horst Bredekamp. Lo straniamento sta nel guardarsi guardare, in questo modo c’è una mise en abime di questi sguardi che parte dallo spettatore. Poi c’è un lavoro sul doppio. Ho riletto l’inizio di Petrolio, con Carlo Tetis e Carlo Polis che si contendono il corpo di Carlo e poi si scindono e da questo ho tratto l’immagine iniziale dello spettacolo: Rosaura piccolo borghese stesa, in preda a un sonno ipnagogico in cui si vede sdoppiata (in Rosaura e Stella) vivere un’altra realtà in cui è ancora possibile la disobbedienza. Abbiamo usato una porta simile a quella di Duchamp per tutte le entrate e le uscite nei primi due sogni. La porta è sempre aperta e chiusa al tempo stesso e ci è sembrato un oggetto giusto per questi personaggi doppi che vivono la vita sempre su un binario parallelo (esuli, esclusi, carcerati, internati, dropout, dissidenti). Nel terzo sogno non c’è più una porta in scena, ma uno spazio unico, con una luce uniforme che non muta mai. Non ci sono più scelte e anche la dimensione dialogica va assottigliandosi. Il potere apparentemente democratico pervade tutto e non ha più veri oppositori. L’ultima parola è sempre la sua e sarà lui a dire che la liberazione dal lager in cui ci troviamo è «un sogno, nient’altro che un sogno».

Marcel Duchamp, «Porta» (1927).

F. F.: Il quadro di Velásquez è una prigione, perché fornisce il modello a quella prigione che, in questo testo, è il mondo borghese, e da cui Rosaura vuole evadere. Nello spettacolo trovate un modo molto efficace per mostrare questa cornice che imprigiona la vita attraverso una rappresentazione, ma anche per visualizzare il tentativo di Rosaura di trascenderla e la capacità di questa rappresentazione di tornare in sé dopo essersi apparentemente sfaldata. Mi riferisco all’uso della griglia prospettica.

F. C.: Sono affascinato dalle griglie prospettiche. La prospettiva fa dell’occhio il centro della realtà. Ma la realtà non è in prospettiva. Quando si osservano artisti che mettono in crisi la prospettiva, la visione si arricchisce enormemente. Così succede alla Rosaura del primo sogno: vede le cose da un altro punto di vista e il quadro della sua esistenza si sfalda. Si sfaldano i rapporti familiari, il rapporto con lo Stato, la religione, la storia (almeno la storia della Spagna così come le è stata raccontata). Perciò diventa un capro espiatorio, viene esclusa, internata in un manicomio. E solo in quel momento vede come funziona il mondo in cui vive. Durante le prove ho citato spesso un racconto di Abbott sulla quarta dimensione: Flatlandia. Una terra bidimensionale in cui un quadrato, che può avere un’esperienza solo bidimensionale del suo mondo, incontra una sfera tridimensionale che gli fa percepire la tridimensionalità del mondo. Lo fa sollevando il quadrato e facendogli vedere il suo mondo da un’altra prospettiva. Anche nel testo di Abbott il quadrato finisce in prigione perché predica l’esistenza di una terza dimensione dando molto fastidio ai sacerdoti del suo mondo bidimensionale!

F. F.: Se il testo è così monumentale, con le sue grandi, anzi grandiose questioni filosofiche e politiche, le sue tesi roboanti, la potenza della sua poesia, se il testo è così monumentale, dicevo, invece nella scenografia di monumentale non c’è niente. Non ci sono pareti, non ci sono grandi costruzioni, ma elementi mobili, leggeri, che danno vita a luoghi ben configurati e tuttavia segnati da un aspetto di leggerezza, di mobilità, di effimerità, lasciando gli spazi aperti, aperti verso un profondo che non si vede, una pregnanza che non si afferra. Poi ci sono le molte citazioni visuali. Si può dire che la scenografia lavori per aprire il testo, per distrarlo dalla compattezza della sua analisi, dalla lucida negatività della sua diagnosi storica?

F. C.: Esattamente. La scena lavora per aprire e per creare una drammaturgia visiva parallela al testo accentuandone l’ambiguità. Per esempio, nell’incontro tra Rosaura e Sigismondo c’è una grande bandiera rossa a fare da sfondo, ma sulla bandiera c’è scritto un verso di La vita è sogno di Calderón de la Barca: «il maggior delitto dell’uomo è d’esser nato». Questo punto è un nodo in cui si incontrano i destini dei protagonisti del testo di Pasolini, i versi di Calderón de la Barca e le sue considerazioni sul libero arbitrio, la guerra civile spagnola ecc. in una sovrapposizione di segni che si possono leggere in modi diversi. La mia idea è quella di creare una struttura visiva e drammaturgica complessa in modo da invogliare gli spettatori a leggerla in tanti modi, a ripensarci, a ritornarci con la mente dopo lo spettacolo. E per fare questo c’è bisogno di segni precisi che agiscano nella mente e nei ricordi di chi guarda. La leggerezza per noi è molto importante. Calvino l’ha descritta perfettamente nelle Lezioni americane e noi cerchiamo di tradurla in un fatto visivo. Grazie per averla notata. Per me la leggerezza è un principio compositivo costante. Detta legge, perché, se la si cerca, si individuano subito gli elementi soffocanti. Ha un suo respiro, la leggerezza. Quando io e Cherstich ci incontriamo per parlare di un nuovo lavoro, nelle nostre conversazioni il teatro compare pochissimo mentre spesso nominiamo artisti e designer (Munari, Castiglioni, Mari), cineasti (Mekas, Monteiro, Lynch, Seidl, Pasolini) e scrittori (John Berger con le sue considerazioni sullo sguardo…).

Albrecht Dürer, «Il disegnatore della donna sdraiata» (1525) – Diego Velásquez, «Las Meninas» (1656) – Foto di scena di Luca del Pia.

F. F. Adriano Sofri disse che il Calderón non è un testo politico, perché è un testo ambiguo. A me pare si possa dire il contrario: Calderón è un testo politico proprio perché gioca sull’ambiguità, la mette in campo come una forma di resistenza al potere che invece si costituisce proprio nel passaggio dall’ambiguità all’assolutezza, cancellando l’ambivalenza, imponendo l’unicità. Pensi anche tu che la scrittura teatrale di Pasolini coltivi una dimensione sotterranea di ambiguità, di ambivalenza?

F. C.: Quando Basilio incontra Enrique (che si ispira proprio ad Adriano Sofri) dice: «La società tecnica fa regredire molto più della società umanistica \ e il cuore umano non conosce più sottigliezze». L’ambiguità è decisamente l’aspetto più intimamente politico di Calderón. Da subito lo speaker si scusa (polemicamente) con gli esperti della nuova epoca che sta cominciando: tecnici, esperti di politica, informati sul presente e sul futuro che saranno forse infastiditi dal linguaggio ambiguo – perché poetico e non ideologico – del testo. E il testo è una continua messa in scena di crisi, di fratture incolmabili. Il mio modo di lavorare sull’ambiguità del testo è stato dunque quello di rispettarla, di lasciare che interrogasse e scandalizzasse anche me mentre provavo le scene. In questo modo le fratture, le posizioni inconciliabili rimangono tali e sono dei punti di domanda attivi che interrogano gli spettatori. Credo che l’opera sia più complessa di qualsiasi mia possibile interpretazione, per questo ho lasciato aperti i problemi e le questioni che pone anche dal punto di vista della drammaturgia visiva, abbandonando un po’ di coerenza e di rigore perché, come dice lo speaker, «il rigore spesso è una giustificazione all’aridità»!

F. F.: L’assenza di didascalie sembra voler lasciare uno spazio di libertà per il regista. Ma il testo è pieno di asserzioni forti, di tesi seducenti, di riferimenti intertestuali e di temi politici, esistenziali, filosofici, che corrono su più piani temporali correlati da ripetuti rispecchiamenti. È insomma un testo di una ricchezza schiacciante e compatta, che lascia invece poco tempo all’associazione, all’immaginazione, e tiene avvinti alla parola dell’autore che chiede di essere compresa. Nel «Manifesto per un nuovo teatro» questa richiesta di comprensione è programmatica. Pasolini pensa a un teatro rivolto ai «gruppi avanzati della borghesia» (cioè «le poche migliaia di intellettuali di ogni città») in cui discute sui temi posti o dibattuti nel testo, temi «che potrebbero essere tipici di una conferenza, di un comizio ideale o di un dibattito scientifico». In questo teatro l’attore deve essere un «uomo di cultura» e «fondare la sua abilità sulla sua capacità di compendere veramente il testo». Mi sembra problematica questa idea di un testo non da interpretare, da leggere, ma da comprendere, e di una attività artistica vincolata alla comprensione.

F. C.: Se si trattasse di un testo solo da comprendere e spiegare non avrebbe retto al passare del tempo. È proprio la parte misteriosa dei versi che ci attira. Gli attori si emozionano (e noi con loro) proprio nelle zone di testo più oscure, più misteriose. Ci piace dirle proprio perché risuonano in una zona più profonda di quella della comprensione razionale. Occorre però anche una grande concentrazione nel dire i versi di Pasolini, seguire i pensieri. Non credo si tratti di comprensione. Spesso con gli attori parliamo di quando si leggono o si recitano dei versi per un amico o qualcuno che ti piace. Credo sia quello lo spirito: aderire a qualcosa che non si comprende pienamente, ma che ha trovato una forma perfetta.

F. F.: Improvvisamente ci risvegliamo e non riconosciamo più il mondo: è l’evento che Brecht chiamava «straniamento» e che – diceva – può farci dare l’opportunità di guardare il mondo con altri occhi, di sentire quel che per noi era stato fino allora naturale come qualcosa di irreale, come un sogno da cui dobbiamo svegliarci. Ma il sogno in cui si risveglia Rosaura è un sogno da cui non si può più uscire: è – cioè – la realtà. Un sogno da cui non si può più uscire: questa, per Pasolini, è diventata la realtà nell’era del tardo capitalismo, consumistico e tecnologico. Una realtà in cui non c’è altro, non c’è passato e perciò non c’è neanche la capacità di immaginare un futuro diverso dalla presente. È una diagnosi simile a quella che Mark Fisher fa in «Realismo capitalista».

F. C.: Rosaura si sveglia in una realtà che non riconosce, ma non arriva a una coscienza politica sul da farsi per modificarla. Rimane solo lo straniamento, la distanza. Infatti, nell’ultimo sogno non riesce a essere ne obbediente né disobbediente, e cade in preda all’afasia, come succede a molti personaggi dei film e del teatro di Pasolini. Abbiamo pensato a Fisher e al suo «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» perché anche nelle 120 giornate di Sodoma l’intellettuale (la pianista) ha un solo modo di salvarsi: il suicidio. Qui, come in altri testi di Pasolini, l’intellettuale si rinchiude nell’afasia. Anche in Bestia da stile il protagonista, Jan, alla fine non riesce più a parlare.

F. F. L’afasia appare come l’esito inevitabile quando la dimensione che chiamiamo realtà diventa totalitaria e non lascia più spazi al sogno. Per questo nel testo a un certo punto si dice che chi prende partito per la verità non deve sopprimere il sogno. La coscienza richiede il sogno, perché il sogno è fatto della stessa materia della memoria. In fondo quello che mette in moto il testo è il ritorno di un passato di cui nessuno vuole sapere in un mondo che fa valere soltanto il presente. Tutto inizia col prologo in cui lo speaker chiede scusa per il fatto che verranno rimesse in circolo vicende di un passato che non conta più. Gli eventi rappresentati, il sogno di un’altra vita, sono presentati come anacronistici. Il passato che ritorna è anche quello della Guerra civile spagnola, e della Resistenza italiana: un passato sconfitto che chiede di poter continuare a vivere, che torna come sogno dimenticato, per rivendicare un futuro. Torna a mettere in discussione l’esclusività del presente, a far vacillare il confine tra essere e non essere, a fare da soglia verso un altro mondo. Ma non è questa, in fondo, la dimensione propria del teatro?

F. C.: Ci ho pensato molto. All’inizio lo speaker dice solo chi è sano e senza dolore può vivere rivolto verso il futuro. Gli altri, malati e pieni di dolore, sono lì, a mezza strada. E la trama di Calderón nasce da questo sguardo rotto, malato sul mondo e dalla domanda su come uscire dal quadro del potere senza rimanerci invischiati. Che chi impazzisce, chi prova ad analizzare, chi si dichiara escluso volontario, chi lo vive pienamente, chi prova a rappresentarlo, ma nessuno ne viene fuori indenne. Perché per Pasolini il punto (lo dice chiaramente nella risposta a Sofri) non è sentirsi puri e incontaminati, ma fare i conti col rapporto intimo che abbiamo col potere. E ciò ha a che fare con la sopravvivenza del passato. Qui il passato arriva nella persona di Sigismondo. Nel testo di Calderón de la Barca Sigismondo è il protagonista, mentre qui è un «fantasma del passato» (così viene definito da Dona Lupe) che arriva come un vento gelido nella casa dell’alta borghesia e porta scandalo e contraddizione in una realtà che sembrava solidissima. Nella stessa scena si parla di un altro Sigismondo (Sigmund) perché viene evocato (senza dirne mai il nome) Freud. Sigismondo rappresenta il rimosso di un’intera nazione. In questo senso compie la stessa azione che fa il testo dalle prime battute dello speaker. Il testo, il teatro è una forza del passato (come nella celebre poesia di Pasolini) che infastidisce e inquieta il nostro sguardo e le nostre certezze.

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