Aldiqua
Siamo poveri, saremo tutto!
La povertà non è necessaria, è un fatto. È un’emergenza; esito di violenza, espropriazione, rapporti di forza. Per questo non può esserci discorso sulla povertà che non sia una genealogia, una storia >…
Guerre e poveri ci sono sempre stati, ma a volte anche i secondi fanno rumore
Guerre e poveri ci sono sempre stati, ma a volte anche i secondi fanno rumore. Come nel caso del 1378, l’anno spartiacque tra la fine della guerra degli Otto Santi fra il Papa Gregorio XI e Firenze e l’inizio di una serie di «revolutionary years» in cui nacquero nuovi movimenti e nuove corporazioni per artigiani e salariati. Dopo la peste nera del 1348 solo le condizioni salariali dei lavoratori qualificati con piccole famiglie a carico si potevano considerare statisticamente migliorate, mentre la morsa dell’indebitamento, della tassazione e dei lavori irregolari faceva sì che la gran parte rimanesse sotto la soglia di povertà. In Oltrarno, specie a S. Frediano e Camaldoli, predominavano i lavoratori tessili non qualificati, così come tra S. Lorenzo, S. Maria Novella e quello che è oggi il Mercato Centrale si estendevano i più ampi quartieri della classe di lavoratori e artigiani che tutti assieme innescarono i tumulti che dilagarono tra il giugno e l’agosto del 1378.
Furono tre i momenti decisivi d’insorgenza. Il primo a giugno, in risposta a una provocazione della parte guelfa contro il gonfaloniere Salvestro de’ Medici, vide coinvolte le 21 Arti, Maggiori e Minori, alle quali si unirono anche i sopracitati lavoratori non specializzati, la «plebe» che si occupava delle prime fasi del processo di produzione tessile (battere, cardare, pettinare la lana) e che desiderava ottenere un riconoscimento politico minimo nelle magistrature. Il secondo del 20 luglio, durante il quale venne assediato il Palazzo della Signoria, obbligato a dimettersi il gonfaloniere Luigi Guicciardini e acclamato uno dei capi della rivolta, Michele di Lando. In questa fase i Ciompi ottennero una loro rappresentanza nella Signoria e nei collegi, sanzionata per via elettorale ordinaria, nonché la costituzione, in aggiunta alle 7 maggiori e alle 14 minori, di tre nuove Arti (tintori, farsettai e salariati della Lana ovvero «popolo di Dio») in cui potevano iscriversi coloro che erano prima esclusi, cioè il «popolo minuto». Infine, il 27 agosto, una parte più radicale insoddisfatta della politica di Michele, si raccolse in Santa Maria Novella e propose la sospensione delle magistrature ordinarie, spingendo per un vero e proprio governo-ombra con il titolo di Otto Santi della balia del Popolo di Dio. La proposta fu osteggiata da una compatta opposizione sociale, dalle Arti Minori alle Arti Maggiori, fino ad arrivare alla borghesia finanziaria e imprenditoriale. La tensione si acuì a tal punto che pochi giorni dopo, tra il 30 e il 31 agosto si consumarono violentissimi scontri in cui i Ciompi vennero sconfitti e le loro riforme dichiarate decadute, sebbene l’instabilità sociale e istituzionale si chiudesse soltanto nel 13821.
Questo insieme di eventi tumultuari, pur iniziato con il rovesciamento del governo legittimo, non mirò direttamente al cuore dell’assetto istituzionale fiorentino, ma scardinò, invece, l’ordine vigente dal punto di vista economico-sociale
Questo insieme di eventi tumultuari, pur iniziato con il rovesciamento del governo legittimo, non mirò direttamente al cuore dell’assetto istituzionale fiorentino, ma scardinò, invece, l’ordine vigente dal punto di vista economico-sociale: i lavoratori non specializzati non proposero un mutamento costituzionale complessivo degli organi consiliari e delle procedure, ma volevano poter riunirsi ed esprimersi in quanto gilda o corporazione. Se prevalse il momento destituente, tuttavia ci fu un notevole tentativo di produrre nuove istituzioni, molto al di là di un ribellismo episodico. Tale movimento, infatti, che terminò con la soppressione fisica (alcuni morti e diversi esiliati) e simbolica dei Ciompi e dei loro claims, ebbe un’eco significativa nelle cronache e nelle storie della Repubblica fiorentina, balzando in primo piano nella redazione delle Istorie fiorentine2di Machiavelli (1520-1526).
Il Segretario, infatti, dedicò buona parte del terzo libro alla descrizione di quel tumulto su cui pure altri – fra cui Francesco Guicciardini, che consegna addirittura l’apertura della sua Storia Fiorentina alla «novità de’ Ciompi» – avevano scritto, traendone in taluni casi conseguenze diametralmente opposte. È il caso di Leonardo Bruni, cancelliere fiorentino per due volte, la più lunga dal 1427 fino alla morte nel 1444, umanista, autore anche lui di alcuni libri Historiarum Florentini populi, che coglie l’occasione per rilevare quanto sia pericoloso e controproducente armare, nelle lotte tra fazioni, la «infima plebe», con il rischio di perderne il controllo3.
Plebe, questa categoria indica la presa d’atto di uno specifico mutamento storico-sociale, l’emersione di una certa realtà che necessita di nuove parole
Se è evidente che la narrazione di Machiavelli ha una specialità assoluta rispetto alla scrittura della storia dei Ciompi – tanto che non possiamo che pensare collegati il nome di Machiavelli e quello dei Ciompi, e viceversa – vale la pena osservare da vicino quale sia la differenza essenziale rispetto agli altri racconti di cui disponeva. Egli trasse gli elementi salienti dalle Istorie fiorentine di Giovanni Cavalcanti, ma soprattutto da alcuni testi coevi all’evento, come la breve Cronaca di Alamanno Acciaioli, con relativa Aggiunta, e l’anonimo resoconto noto come Lettera sul tumulto dei Ciompi, confrontandosi alla fine con la volgarizzazione Acciaiuoli delle HFP di Bruni, che critica, insieme con Bracciolini, proprio per lo scarso rilievo dato ai conflitti sociali interni di Firenze4. Si badi che egli (come i protagonisti stessi della rivolta) non usa mai il termine, di origine incerta ma sicuramente spregiativo, «ciompo», impiegando piuttosto plebe, oppure l’equivalente «popolo minuto». Ora, questa categoria, piuttosto infrequente tra i testi di Machiavelli nel senso dello speciale valore semantico che acquista nel contesto delle Istorie Fiorentine, indica la presa d’atto di uno specifico mutamento storico-sociale, l’emersione di una certa realtà che necessita di nuove parole.
In questo senso è secondario domandarsi se Machiavelli – che in quel momento scrive pagato grazie alla commessa ottenuta dal Papa Clemente VII, Giulio di Giuliano de’ Medici – consideri positivamente o negativamente il tumulto dei Ciompi, essendo chiaro che egli di primo acchito condanna lo svolgersi dei fatti, quanto considerare la forma e la terminologia in cui essi vengono narrati. Il modo di raccontare porta alla luce la storia sotterranea, la forma della storia, modificandone il contenuto immediato. In incipit al terzo libro Machiavelli offre una valutazione teorica generale sullo stato dei rapporti tra conflitto e costituzione, tumulti e istituzioni, sia nell’esempio romano antico che in quello fiorentino contemporaneo. Questo confronto generale conduce immediatamente a una rilettura in termini sociale dei conflitti fra Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri e successive divisioni, in cui la parte esclusa gemma ogni volta dal vincitore, in esso non esaurita: «In Roma, come ciascuno sa, poi che i re ne furono cacciati, nacque la disunione intra i nobili e la plebe, e con quella infino alla rovina sua si mantenne; così fece Atene, così tutte le altre repubbliche che in quelli tempi fiorirono. Ma di Firenze in prima si divisono infra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore, si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria». La debolezza di Firenze, se paragonata alla grandezza del conflitto costituente romano, risiede nella moltiplicazione degli umori (popolo/grandi) in sette ulteriori, gruppuscoli, cui evidentemente anche i Ciompi, in quanto parte della parte, plebe che si stacca dal popolo, fanno riferimento.
Della plebe fiorentina (plebe dunque distinta dalla categoria romana di Discorsi che invece indica un istituto politico giuridico specifico, es. i Tribuni della Plebe) Machiavelli tratta esclusivamente in due casi salienti di rivolta5. Nell’episodio del Duca di Atene, in cui la plebe è definita sociologicamente come l’insieme di quanti vivono delle loro braccia senza essere attori politici in proprio e che tuttavia entra in una nuova suddivisione della base sociale. E nel resoconto del tumulto del 1378, quando Machiavelli prende atto del costituirsi e darsi nome della plebe inserendosi conflittualmente con un’Arte propria nel sistema delle Arti, unica via per diventare un soggetto politico a tutto tondo. L’estrema teatralizzazione delle inimicizie fra il popolo e la plebe (le contraddizioni fra le Arti e all’interno di ogni singola Arte, oltre al contrasto di tutte le Arti con gli Ottimati e il nucleo emergente dei banchieri) culmina nel discorso del «ciompo», la cui stessa indicazione anonima («alcuno de’ più arditi e di maggiore esperienza») segna un drammatico stacco rispetto all’intervento più convenzionale del gonfaloniere Luigi Guicciardini. Questo discorso in prima persona conferisce una posizione di assoluto rilievo ai Ciompi e alle loro rivendicazioni, annullando così la valutazione formalmente negativa del tumulto che conseguirebbe dalla valutazione teorica generale6.
Machiavelli accenna di sfuggita alla condizione di «quieta povertà» da vincere con «uno pericoloso guadagno», cioè con l’insurrezione, ma pone l’accento sulla situazione di conflitto politico che le rivendicazioni salariali e di status hanno ormai creato
In questa famosissima perorazione, una sorta di «docu-fiction» ante-litteram, Machiavelli accenna di sfuggita alla condizione di «quieta povertà» da vincere con «uno pericoloso guadagno», cioè con l’insurrezione, ma pone l’accento sulla situazione di conflitto politico che le rivendicazioni salariali e di status hanno ormai creato, saldando un fronte comune fra magistrati e ceti più ricchi. Occorre assumersi più rischi, rilanciare la lotta, commettere «errori nuovi» per farsi perdonare i vecchi e assicurarsi «la libertà nostra» – cioè prendere parte, diventare parte da senza-parte, fare valere «un’ingiuria universale» in luogo di ingiurie particolari, le mere richieste singole che in ogni caso ingenerano odio. L’argomento di fondo è che gli uomini non valgono per antichità del sangue, essendo tutti per origine egualmente antichi: «Spogliateci tutti ignudi: voi ci vedrete simili, rivestite noi delle veste loro ed eglino delle nostre: noi senza dubio nobili ed eglino ignobili parranno; perché solo la povertà e le ricchezze ci disaguagliano».
Qui andiamo ben oltre l’idea (pur rivoluzionaria) di Tolomeo da Lucca e di Savonarola secondo i quali la libertà repubblicana restituisce agli uomini una condizione edenica basata sulla comune povertà e la naturale parità. Gli uomini sono assunti schiettamente nell’eguaglianza di peccatori soggetti solo a rapporti di forza, liberi di fronte a Dio e alla coscienza e solo consapevoli della propria forza di classe: «perché né conscienza né infamia vi debba sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportono vergogna. E della conscienza noi non dobbiamo tenere conto; perché dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». Il vero ostacolo all’emancipazione è la rassegnazione, «perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti. Perché Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo; le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiono l’uno l’altro, e vanne sempre col peggio chi può meno. Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data occasione».
La plebe – antica parola per nominare una nuova realtà nella storia di Firenze – emerge e merita di essere raccontata e chiamata in causa in quanto soggetto del tumulto. Questa al di là della «performatività» oratoria è la vera novità. Vincitrice o sconfitta, essa si afferma sulla scena della storia. La nudità edenica o selvaggia non evoca la «nuda vita», se non nella misura in cui si fonda oggettivamente – quasi all’insaputa dei protagonisti e dei commentatori del tempo – sulla condizione della forza-lavoro salariata: assoluta povertà di vita e assoluta potenza di produzione e di azione nel momento in cui scuote le proprie catene. Per questo il passo affascinerà Marx e Simone Weil, nel primo in riferimento alla povertà ontologica del lavoratore unskilled, nella seconda come esempio di rivolta proletaria indipendente dai tempi della filosofia della storia. Tale povertà viene però in luce solo nella lotta e nei suoi effetti organizzativi, pur transitori, e non come condizione esistenziale: diventa arma e acquista rilievo nel discorso e nella storia solo quando si fa tumulto.
Note
↩1 | J. M. Najemy, A History of Florence (1200 –1575), Blackwell, 2006, pp. 156-166; F. Franceschi, I Ciompi a Firenze, Siena e Perugia, in M. Bourin, G. Cherubini, G. Pinto, Rivolte urbane e rivolte contadine nell’Europa del Trecento: un confronto, Firenze University Press, 2009, pp. 277 ss.; C. Varotti, Voce Ciompi, tumulto dei, in Enciclopedia Machiavelliana, diretta da G. Sasso, Treccani, 2014, vol. I, pp. 312-315. |
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↩2 | N. Machiavelli, Istorie Fiorentine in Opere storiche, a cura di A. Montevecchi e C. Varotti, con il coordinamento di G.M. Anselmi, 2 tomi, Salerno editrice, 2010, da qui in poi abbreviate IF. |
↩3 | Bruni L., Istoria fiorentina di Leonardo Aretino, tradotta in volgare da Donato Acciajuoli, premessovi un Discorso su Leonardo Bruni aretino per C. Monzani, Le Monnier, Firenze 1861. |
↩4 | «Messer Lionardo d’Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici» avevevano egregiamente narrato gli eventi, specialmente militari e di politica estera di Firenze, ma erano in difetto nel trattare «delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati», fino ad «averne una parte al tutto taciuta», IF Proemio. In realtà, Bruni non è così silenzioso in materia, ma la critica vera concerne l’insieme del suo atteggiamento filo-oligarchico. Un riepilogo generale delle fonti è in A. M. Cabrini, Interpretazione e stile in Machiavelli. Il terzo libro delle Istorie, Bulzoni, 1980. |
↩5 | Cfr. J.-C. Zancarini, Les humeurs du corps politique. Le peuple et la plèbe chez Machiavel, in «Laboratoire italien» 2001/1. |
↩6 | Come ha messo in rilievo G. Pedullà, Il divieto di Platone. Niccolò Machiavelli e il discorso dell’anonimo plebeo (Ist. Fior. III, 13), in Storiografia repubblicana fiorentina (1494-1570), ed. J.-J. Marchand e J.-C. Zancarini, Cesati, 2003, pp. 209-266. |
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