Quella foto con Ferlinghetti

La comune primavera romana, dalla parte di Capote

Lawrence Ferlinghetti (1919-2021).
Lawrence Ferlinghetti (1919-2021).

La comune primavera romana
Peppe Allegri

Uno scoppiettante, scanzonato e divertito ricordo a firma di Fran Ventura P del grande poeta, libraio, editore indipendente – e molte altre cose ancora – Lawrence, Lorenzo, Ferlinghetti (1919-2021), morto centenario da poco, e di una foto in braccio a lui in una «serata culturale», ci permette di tirare ancora una volta il filo rosso intorno alla nostra amata, e certo anche odiata, Roma, allo sconcerto affettuoso sul «giro romano», all’entusiasmo nella ricerca della prossima festa, da eterni provinciali romanizzati quali continuiamo ad essere.

«Perché, tanto la provincia vitellona, quanto la Roma cinematografara sono gironi dell’inferno, ma sono anche godibili Paesi della Cuccagna», scriveva Italo Calvino nella sua Autobiografia di uno spettatore, introducendo i Quattro film di Federico Fellini (Einaudi, 1974).

Ancora di più in quest’anno di pandemia, isolamento, paure, insicurezze, solitudini, morti. Ancor più oggi, e quando, nel pomeriggio assolato di mercoledì 3 marzo 2021, increduli siamo andati a salutare in Piazza del Popolo il feretro di Claudio Coccoluto, un altro provinciale diventato uno dei Re di Roma della nostra tardo-adolescente «gioventù sonica» dei Novanta del Novecento che se n’è andato via, a neanche sessant’anni, ucciso da un tumore.

E la piazza è del popolo, direbbe Gianni Bismark, re senza corona di quella Teppa della Repubblica Romana Autonoma Poetica e Precaria che proprio a un passo da piazza del Popolo ha la sua via dedicata ad Angelo Brunetti che lì vi abitava, quando nel 1849 divenne il Ciceruacchio repubblicano della Roma senza Papa, carbonaro e rivoluzionario, come ricorda la lapide su via di Ripetta: operoso ispiratore del popolo a libertà / fuggendo la servitù della Patria / fu morto da ferro straniero / unitamente ai figliuoli Luigi e Lorenzo / il 10 agosto 1849. Nella difesa dell’ultima Repubblica europea del 1848-49, quella di Venezia, a fianco dell’armata repubblicana guidata da Giuseppe Garibaldi, fuggendo da Roma che sarebbe tornata in mano a Giovanni Maria Mastai Ferretti, in arte il Papa-Re Pio IX da Senigallia, con a fianco il conterraneo Mastro Titta, boja de Roma. Ancora due provinciali.

Allora approfittiamo di questo invito di Francesca ad amare disperatamente Roma, che è anche una burla nei confronti di quello che siamo diventati, per immaginare insieme la primavera romana nel centocinquantennale della Comune di Parigi (18 marzo – 28 maggio 1871).

La Comune di Roma, che OperaViva Magazine indaga da tempo: da Roma in comune, maggio 2016, a Senza Metropoliz non è la mia città, dicembre 2020. In mezzo tante altre storie romane e altre da aggiungere, a cominciare da questa qui sotto, appunto.

Poi «non mi rimase che scendere lentamente le scale, uscire dal portone, farmi baciare dal sole caldo di Roma, di quella puttana maledetta, e andarmi a ubriacare lì vicino al Baretto di via del Babuino, con un paio di Campari Soda», sempre vicino a piazza del Popolo, ci dice il nostro angelo custode Remo Remotti, Diventiamo angeli. Le memorie di un «matto» di successo (DeriveApprodi, 2002). Eppure, non basterà neanche un Campari Bitter con un bel po’ di Bombay, mi sa.

Salute, romane e romani di tutto il mondo! La parola scritta passa ora a Fran Ventura P, anche lei provinciale romanizzata, e alla sua foto in braccio a un altro matto di successo come Ferlinghetti, anche lui dalle ascendenze provinciali, evviva!

Quella foto con Ferlinghetti. Dalla parte di Capote
Fran Ventura P

Avevo una foto in braccio a Ferlinghetti bellissima, io con i capelli corti, un tubino blu, lievemente in imbarazzo ma gambe sforbicianti. Lui scherzoso e sorridente, in posa (ma per ridere) ed affettuoso. Era una conferenza stampa in epoca predigitale e la foto fu scattata con la mia Olympus chiusa da un lato con un pezzetto di scotch da pacchi marrone e con tutto l’entusiasmo del caso suscitato in una ragazza di provincia. Lo avvicinai e lui mi fece cenno con le mani di sistemarmi sulle gambe, quindi gli saltai in braccio come una bambina. Quella foto poi è stata per un po’ di tempo in una sua raccolta di poesie (rigorosamente Grandi tascabili economici Newton), libro che era anche caduto nella vasca da bagno per poi essere asciugato sul termosifone e quindi gonfio, indurito e macchiato, eppure allora la foto si era salvata. Il fatto è che ho perso un sacco di cose mettendole nei libri, vi sconsiglio vivamente questa pratica. Biglietti, soldi, ricordi vari, sono quasi impazzita per cercarli; e un giorno qualcuno li ritroverà come capita a me di leggere dediche appassionate sui libri usati (soldi mai francamente, devo sempre essere io quella più generosa!). Ed è chiaro che qualcuno troverà insignificante la foto di una in braccio a un allegro poeta pazzoide.

Per questo io ti prego, oh sconosciuto che ti troverai in mano il libro con la mia foto in braccio a Ferlinghetti, gioisci per me. Non dire Ma chi cavolo è questa e cosa mi frega di avere una sua foto, perché per me fu bello.

Domenica pomeriggio ero in una libreria romana abbastanza grande e per un po’ mi sono fermata sul blocco Narrativa italiana – in questo caso avrebbe avuto più senso scrivere Narrativa del giro romano –, e leggiucchiando un po’ in cerca di qualcosa che mi facesse innamorare, perché per me funziona ancora così, non ho trovato nulla: non mi piace niente. Ma dico di più, che sensazione asfittica di comitiva, gruppetto, cameratismo. Leggo i nomi e mi vengono in mente i vari giri, «quelli del scinema», le festicciole del Pigneto, di Monti o Trastevere, San Lorenzo. I racconti mitologici del Tevere, i rumori di Roma, le TOR-qualcosa, quella Roma conosciuta da studenti fuori sede dove finivi a letto con qualche ricca signora manco fossi Truman Capote. Tutti appassionati di periferie, sangue e disperazione, di barboni o di quella tipica mollezza e sfascio totale da centro sud. A Roma il venerdì pomeriggio non esiste, oppure: nessuno vuole ripararti niente, quello che si rompe a Roma resterà rotto per sempre, (forse qui un’idea c’è).

Salvo che poi qualche scrittore lo conosci di persona perché è tuo cugino o un’amica di tua sorella, e allora capisci come si forma e cresce questa bizzarra figura contemporanea e quanto sia di moda e costruita. L’invenzione di un passato o di un vissuto politicamente corretto e vendibile (non sono io che ho scelto la scrittura ma era già deciso, è la scrittura che ha scelto me!) o, comunque, arrotondamenti molto grandi per cui una banale infanzia alla Falconieri viene trasformata in una più ricercata fanciullezza cullata dalle fiabe di Rodari. Per non parlare di gusti musicali davvero discutibili e infrequentabili ridisegnati per il nuovo personaggio. Che ne so, un concerto dei Pooh onestamente va dimenticato per mostrare piuttosto una più accettabile passione Radiohead.

E poi il vanto dell’alcol e degli psicofarmaci, perché questa vita da scrittore è veramente dura, con il lamento-ricatto continuo di una società che non li considera abbastanza. Come se bastasse drogarsi e bere per essere posseduti dall’arte. E guardate che non ci siamo quasi neanche cascati con il Gotico di Robert Smith figuriamoci adesso con il vostro Orgoglio Xanax. Certo, anche Hemingway era alcolizzato, per non parlare della disperazione della Beat Generation, ma in nessuno di loro si può mai trovare tanta finzione e tanto cachemire (se non come scelta estetica consapevole e ostentata: faccio anche della mia vita l’ennesima opera d’arte, chessò le feste di Capote appunto).

Perché quando la disperazione diventa maniera, moda, accademia, posa è semplicemente ridicola.  Forse questo lo sapete già in cuor vostro, e forse la disperazione più grande viene dal non aver mai conosciuto una disperazione autentica. Io, per esempio, ho perso la mia foto in braccio a Ferlinghetti.

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