Scegliere la maniera felice,
o dell’arte del non altrimenti
A proposito di S.I.L.O.S. di Pietro Fortuna al Macro di Roma
La ritroviamo tra le arti che usano fili, invischiata nelle alea di una vita pratica che non vuole saperne di stare ferma immutabile a farsi contemplare. Dei suoi esempi pullula la natura, ma è arte tutta umana dell’artificio, della tensione a predisporre ciò che può darsi
Senza Illusione Le Occasioni Svaniscono: è il titolo dell’antologica di un lavoro decennale ma realizzato su circostanza da Pietro Fortuna, di mestiere artista, ed esposta al Macro Testaccio (Roma) fino al 7 giugno. All’acronimo S.I.L.O.S. hanno già aderito la seppia, la volpe, il conducente d’auriga, il sofista e il pugile Muhammad Ali. E la sottoscritta, per quello che conta.
In sostanza, alcuni episodici esponenti del partito kairologico, di quella razionalità femminile dicibile con «astuzia» che il pensiero greco ha bazzicato per diversi secoli fino al V e della quale la filosofia, intendiamoci Platone, si è messa a fare con buon metodo il repulisti. Parliamo di metis, intelligenza delle realtà fluide e molteplici, ha presa sull’occasione, ricorre a una tecnica del legame tessuto, impiega dissimulazione e inganno, ha capacità di previsione, sfugge allo scontro forzoso per sottrazione. La ritroviamo tra le arti che usano fili, invischiata nelle alea di una vita pratica che non vuole saperne di stare ferma immutabile a farsi contemplare, apparentata a un sapere «che va dritto allo scopo per la strada più corta, quella della deviazione». Dei suoi esempi pullula la natura, ma è arte tutta umana dell’artificio, della tensione a predisporre ciò che può darsi. Non senza agonismo.
Ora, caricare un artista dell’onere di riscattare ciò che finì annientato dal successo metafisico o incasellare le sue canne da pesca, le geometrie ornamentali dei suoi tappeti, i gufi in duello di sguardi, le linee puntinate di parole, o finanche i fucili tirati a lucido, nella netta corrispondenza con un genere di intelligenza che aveva presupposti nella caccia e nella pesca a filo, nella trama dei tessuti e nelle trame della sofistica, nonché nel ciò che si vede per come si nasconde, sarebbe un torto inferto all’illusione che è precondizione della produzione di occasioni in questa mostra. Identificare un sapere presunto dal quale far muovere le corde della prassi dell’arte sarebbe poi esercizio paranoico, comunque non richiesto dall’unico invito formulato dall’artista al visitatore: «scegliere una maniera felice». Così, che il fatto dell’arte di Pietro Fortuna sia l’impiego artefatto di tempo, visione, oggetti, segni, tensioni, lettere, posizioni, proiezioni, angoli, per intero sbilanciato sul fronte di una prassi che si installa in forma di silos – mobili interrogativi la cui funzione fa sussistere l’interrogazione sulla funzione, la loro, di quel che ci sta appeso e di chi ci gira attorno – non significa che l’affetto sollecitato nell’astante sia quello di spingerlo a mettersi a scavare. Nemmeno nei pressi di un’intelligenza rimossa, benché più simpatica di altre.
A non voler trattenersi dall’andare a cercare cos’è quest’arte del filo di rinnovata maniera finiremmo per l’inciampare nel solo verbo imperativo di tutta la mostra, esortazione che ci mette al riparo dalla tentazione di non goderci abbastanza il necessario precipitato dell’illusione: «Ami n’entre pas sans ton désir»
Dunque la mostra anzitutto espone. E il mettere di fuori non implica la richiesta di un movimento contrario per andare a vedere ciò che sta dentro. Di certo non spinge a cercare meccanismi, tanto più che l’artefazia di Pietro Fortuna genera solidi, volumi, ortogonie, fatti, stringhe puntigliose di frasi che si limitano a essere semplicemente lì, perché lui ce li ha messi. E l’effetto dell’occasionale è talmente effettuale dallo sfociare nell’arte forse così non paradossale che è il ladro a fare il caso, senza passare per l’uomo. La catena della necessità assume allora il tratto netto e preciso e apodittico dell’essere lì dove si è, non senza qualcosa dell’ordine di una maniera che nel non altrimenti lega con un artificio dell’ordine di un incantesimo il non e l’altrimenti. A non voler trattenersi dall’andare a cercare cos’è quest’arte del filo di rinnovata maniera finiremmo per l’inciampare nel solo verbo imperativo di tutta la mostra, esortazione che ci mette al riparo dalla tentazione di non goderci abbastanza il necessario precipitato dell’illusione: «Ami n’entre pas sans ton désir».
Frattanto, dichiarato l’artifizio fin dal titolo e con qualcuno che si è preso la briga di crearlo al posto nostro – speriamo ben pagato per questo –, infilata la natura sotto un’ostrica di plexiglas trasparente che comunque è già lì dischiusa in uno sforzo di apertura che anche qui qualcuno ha operato per noi, allestite le panchine per picnic in cartone compresso riciclato che ci invitano dalla loro prospettiva anziché da quella dei platani a prender posto lungo un Viale delle Arti non instradato al bello, e folgorati dall’esemplare poetica di una frase che lega il non altrimenti dei fiori e di una tomba con la mancanza di un sapere che farci davanti, alla tomba, per noi l’artista dispone l’occasione affatto illusoria di goderci il breve film RWY (sia detto, tra altri sette). Giallo d’azione dal ritmo concitato con protagonista una rosa tautologica rosa e uno sfondo monocromo giallo alle prese col vento, dove i colpi di scena di una telecamera fissa delimitano dentro la cornice di uno schermo tutto l’agonismo possibile: chi soggettiva, cosa oggettiva, chi muove, cosa resiste, nel ribaltamento istantaneo di posizioni tra una rosa, il vento e giallo, chi cosa. Il movente dell’action movie è così elementare da non richiedere sforzo di cercarne il sapere – ancora una volta, per noi l’ha fatto l’artista e, se non proprio pagato, almeno ne sia ringraziato – al posto del quale stanno strie di consonanti e vocali disposte a forma di linguaggio, nella regola di una grammatica inglese.
Che nell’arte dei fili senza passare per fili che ci presenta Pietro Fortuna la parola vi sia per qualcosa non v’è dubbio. Ma senz’altro non è il luogo privilegiato di una spiegazione, anche perché non vi sono pieghe. Al pari di altri attrezzi, quelle «cose di cui si serve il pittore [che] sono poco più di nulla», il linguaggio e la sua varietà – impressa, forestiera, tipografica – è una tecnica di transito, tra le altre. Così, in altri film sempre in mostra, sullo sfondo bianco tra una donna e una pianta assistiamo, senza leggerla né vederla, allo scontorno della parola pena angoscia dolore e, sopra il corpo allungato del barbone Fortuna, dentro una nuvoletta a mo’ di fumetto si disegna un lettering di possibili frasi comiche tra le varianti comparse dell’illusorio clochard, del vero performer, della spettatrice – portata a immedesimarsi ma frenata dalla barba –, sui mozziconi del sigaro e delle strofe di Jesus’ Blood Never Failed Me Yet.
L’arte del nesso non altrimenti. Solo se felice
Allora l’opera, all’interno di una mostra dentro un museo, a Roma, a Testaccio, tra maggio e giugno, nel 2017, di fronte a due visitatrici accompagnate da Pietro Fortuna, è l’occasione per l’opera, all’interno di una mostra dentro un museo, a Roma, a Testaccio, tra maggio e giugno, nel 2017, di fronte a due visitatrici accompagnate da Pietro Fortuna, alla quale segue un aperitivo tra amiche con ostriche non di plexiglas in un quartiere della mezza periferia. C’è poco da cogliere al volo appostati in un campo di grano con reti e retini le occasioni di una vita che la natura ha smesso almeno dal secolo V di produrre per noi. Eppure, al suo posto, il perenne esercizio di un’arte dell’occasione non smette di sollecitare piccole nature vive al lavoro e non solo agitate dentro una catena delle necessità, quotidiane e ordinarie. Spesso infelici. Andrebbe così ripensato l’esercizio di quell’arte del posizionamento, che consente di illudere il campo dell’agonismo nel quale ci troviamo a passare, della simulazione, che varia lo statuto della visibilità a partire dalla quale può darsi percezione, del linguaggio, che «entrando nei meandri dell’immaginazione verbale non evita la realtà, la affronta modificandola tramite l’uso ambivalente della parola». In questo, è d’aiuto S.I.L.O.S., che tra non e altrimenti si limita a far comparire forse una tecnica forse una poetica forse una prassi, qui, semplicemente, chiamata maniera. L’arte del nesso non altrimenti. Solo se felice.
Riferimenti
R. Blanché, Le détour et le raccourci, «Psychologie comparative et Art», Paris 1972, pp. 247-254.
Detienne, J.P. Vernant, Les ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs, Flammarion, Paris 1974, p. 295.
P. Fortuna, Saulo, La Nuova Pesa, Roma 2008.
M. Mazzeo, Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 71.
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