Il privilegio del nome maschile

Intervista a Tomaso Binga di Raffaella Perna

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Tomaso Binga, Il linguaggio dei piedi, 1979, fotografia (6 elementi), cm 18x24 cad.

Tomaso Binga – Lo strumento impiegato? L’ironia e la metafora. Il termine di riferimento contro il quale lottavamo? La prevaricazione maschilista e le forme molteplici (le maschere) dietro le quali la prevaricazione si nascondeva e si nasconde! 

Bianca Pucciarelli, in arte Tomaso Binga, è tra le artiste italiane più significative nell’ambito della Poesia visiva e sonora. L’esordio avviene nel 1971 con la personale allo Studio Oggetto di Caserta, intitolata L’oggetto reattivo. In quest’occasione l’artista usa per la prima volta lo pseudonimo «Tomaso Binga».

Quali sono le ragioni all’origine della scelta di cambiare nome e quali le ripercussioni sul tuo lavoro?

Attratta fin da bambina dal fascino della parola, ho coltivato questa mia passione nella prima giovinezza piluccando nell’affollata biblioteca paterna, da Boccaccio a Baudelaire, da Dante a Marinetti che mi affascinò  subito per quel suo modo di utilizzare il linguaggio, per la dispersione della parola sulla pagina, per la grafica delle parole. Da Baudelaire traevo versi che mescolavo tra loro per ottenere sequenze stranianti, pensate per scandalizzare, ma soprattutto per divertire parenti, amici e compagni di scuola. La passione della lettura non mi ha impedito di cimentarmi anche nel disegno, che eseguivo sotto l’accorto occhio di mio padre, pittore e mentore. Negli anni Sessanta ho iniziato a lavorare con più sistematicità, producendo una serie di disegni e sculture di stampo geometrico/cubista che firmavo, per gioco, con il nome Binga. Solo nel 1971 sono uscita allo scoperto per dare inizio alla mia avventura artistica assumendo, a ricordo di Marinetti, un nome maschile che giocando sull’ironia e lo spiazzamento mettesse a nudo il privilegio maschile nel campo dell’arte.

Sin dalle prime sculture realizzate con polistirolo e inserti fotografici, come ad esempio Donna in scatola (1972) o Eva (1973), hai esplorato il ruolo della donna nella contemporaneità, ponendo l’accento sulla reificazione del corpo femminile. Nella serie Scrittura vivente (1976) proponi un linguaggio alternativo a quello corrente, basato su immagini fotografiche del tuo corpo, ripreso nell’atto di comporre le lettere dell’alfabeto. Che significato ha l’uso del corpo nella tua opera?

Nel lavoro Alfabetiere murale a fare da supporto, anzi a trasformarsi nei segni alfabetici di una scrittura vivente, è il corpo, il mio corpo, privo di qualsiasi connotazione sociale. Più di prima, questa volta si tratta di una scrittura in-scritta, scritta direttamente con il corpo che, affrancandosi dalla tirannia del segno, diventa esso stesso segno. Si tratta di un segno-gesto che tenta di conferire alla scrittura un senso più globale, una fisicità più concreta e nello stesso tempo una polivalenza di significati da opporre a ogni specializzazione.

Per realizzare la serie Scrittura vivente mi sono avvalsa dell’esperienza fotografica di Verita Monselles e insieme, come in un pellegrinaggio, abbiamo portato in giro da Bari a Padova i nostri lavori: la mia Mater o Litanie Lauretane e il suo Ecce Homo. I nostri discorsi e le nostre scelte linguistiche erano diversi, ma un punto in comune emerse: anzitutto i nostri lavori muovevano dalla comune condizione di donna, dalla constatazione della nostra tradizionale emarginazione; inoltre, entrambe intedevamo capovolgere tale condizione, mutarne il segno dal negativo al positivo. Lo strumento impiegato? L’ironia e la metafora. Il termine di riferimento contro il quale lottavamo? La prevaricazione maschilista e le forme molteplici (le maschere) dietro le quali la prevaricazione si nascondeva e si nasconde! Tra le forme di sfruttamento individuammo quelle con una lunghissima storia alle spalle, come ad esempio i simboli della religione impiegata come instrumentum regni, in particolare la Croce e la Mater che dettero un senso al nostro lavoro di quegli anni.

Negli anni Settanta hai realizzato numerose performance, spesso documentate da video e fotografie; nel 1977 hai messo in scena il matrimonio tra te stessa, Bianca Pucciarelli, e il tuo alterego maschile, Tomaso Binga. Come si è svolto l’evento?

Nella primavera del 1977 per lo Studio «D», un’altra delle mie performance femministe di quegli anni, inviai ad amici e artisti una partecipazione di nozze che recitava: Bianca Menna e Tomaso Binga OGGI SPOSE. La cerimonia si svolse nel Centro «D» a Campo dei Fiori. Solo due fotografie alle pareti: una d’epoca di Bianca Menna vestita da sposa, l’altra, eseguita per l’occasione, di Tomaso Binga vestita da uomo. La prima in piedi accanto a un’automobile con in mano dei fiori bianchi, la seconda in piedi accanto a una macchina da scrivere con in mano un foglio in bianco. Nella prima come sfondo un paesaggio reale, nella seconda come sfondo un paesaggio astratto.

La mostra crebbe su se stessa, durante la serata, con l’apporto dei partecipanti: biglietti di auguri, telegrammi, piccoli doni simbolici. Fra i tanti episodi che costellarono la mia performance, voglio ricordare questo che mi lasciò sgomenta: dopo circa dieci anni dalle nozze performative mi capitò di riaprire la cassettina nella quale avevo riposto i doni ricevuti, e tra questi ritrovai due uova colorate seminascoste e semiaperte tra la sabbia sulla quale erano state adagiate da cui spuntavano due secchi e incompiuti pulcini (il calore del termosifone aveva assolto al suo compito). Da tanti di questi episodi-azioni ironici, dissacranti, amari è costellato il mio percorso artistico femminista degli anni settanta. Anni di rivolte e di battaglie, di sofferta presa di coscienza e di grandi entusiasmi!

Parallelamente alla ricerca artistica, dal 1974 sei l’animatrice del Lavatoio Contumaciale, associazione fondata a Roma per promuovere sperimentazioni artistiche, letterarie, musicali, cinematografiche, teatrali. Come nacque l’idea di aprire questo centro?

Nel lontano 1972 con mio marito Filiberto demmo inizio a una serie di feste tematiche e mangerecce aprendo la nostra casa agli amici più intimi: artisti, poeti critici e giornalisti, qualche anziano parente assonnato e qualche quattordicenne distratto figlio degli aficionados. Ognuno portava qualche cibo residuato del pranzo, insieme a una poesia, un libro, un catalogo su cui riflettere e discutere sempre all’insegna della giovialità non cattedratica. Il pubblico delle serate nel giro di poco tempo aumentò enormemente per cui si decise di creare una associazione culturale con uno spazio aperto a un pubblico più vasto; per questo fu necessario trovare una sede. Ci imbattemmo, nel cortile interno di una casa economica del 1926 in Piazza Perin del Vaga 4, in un locale con una bella targa di ferro smaltato posta sull’ingresso, i cui caratteri azzurri su fondo bianco, lo qualificavano come «Lavatoio Contumaciale»: lavatoio a distanza dove venivano lavati e bolliti i panni delle malattie infettive.

Quel locale divenne la sede della nuova associazione che emblematicamente ne assunse il nome per lavare e bollire le idee infette o passatiste, a marinettiana memoria. Luogo d’incontro e di aggregazione tra le più antiche associazioni culturali del quartiere Flaminio, il Lavatoio Contumaciale ha svolto, nei suoi 42 anni di vita, una intensa attività, promuovendo, sin dall’inizio, manifestazioni e dibattiti sui diversi temi dell’attualità, della letteratura e della poesia, delle arti visive, del teatro, del cinema e dei nuovi media.

Oggi il quartiere è diventato il fulcro della cultura con l’Auditorium, il MAXXI e le tante associazioni culturali, ambientali, sportive e di volontariato sorte nell’ultimo decennio, che hanno dato ragione all’illuminato pensiero degli architetti del secolo scorso, i quali vollero inserire nei loro progetti spazi per botteghe artigiane e studi d’artisti utili alla diffusione della cultura e alla costruzione di una civiltà estetica.

Sei stata a lungo sposata con Filiberto Menna, brillante critico e storico dell’arte. Cosa ha significato questa relazione sul piano professionale?

Sì, siamo stati insieme per circa trent’anni! Ci siamo conosciuti da ragazzi a Salerno e ci siamo rincontrati a Roma dove entrambi lavoravamo. Rimasi subito colpita non soltanto dalla sua grande cultura letteraria, filosofica e artistica, ma anche dalla sua semplicità e dal suo modo di porgersi arguto e giocoso, congeniale al mio atteggiamento ironico. Andando in giro per musei vedemmo per la prima volta Mondrian in una mostra straordinaria alla Galleria d’Arte moderna, che a lui cambiò la vita e a me il marito: avevo sposato un medico e mi ritrovai a convivere con un critico d’arte! Tanto che alla fine degli anni Sessanta ebbe il coraggio di lasciare un lavoro certo (laureato in medicina, aveva vinto un concorso per il Ministero della Sanità,) per perseguire la sua vera passione: la critica d’arte. Iniziò a scrivere prima sul «Mattino» di Napoli, poi su «Paese Sera» dove, caso unico nei quotidiani dell’epoca, curò una pagina interamente dedicata all’arte. È comprensibile come la mia vita artistica, all’esterno di quella privata non fosse così facile!

Cito qualche esempio, dal fascino andropologico, tra le più divertenti: …dimmi Binghina ma a Filiberto piacciono le tue opere e le tue performance? Oppure da qualche voce fiorentina, ormai defunta: …Oh Binga ma che tu fai oggi… le solite bischerate?!? E ancora da voce critica dinanzi a una mia installazione in un museo: …chi è questa …Binga… passiamo oltre …è la moglie di Menna!

Negli ultimi cinque anni la tua opera è stata al centro di un crescente interesse da parte della critica e del mercato. Come vivi questo momento?

Con incredulità divertita! Ma soprattutto sono felice per le tante tesi di laurea dedicate al mio lavoro… purtroppo realizzate ancora solo da donne!!! Oggi più di ieri non salgo su alcun piedistallo (la mia età non me lo consentirebbe) ma sempre più spesso mi esibisco con allegria insieme a giovani artisti, nei centri sociali e nei bar/biblioteche, dove ringraziando accetto con gioia solo il rimborso del taxi!

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