Solitudine Latina
Nell'America dei Fratelli D'Innocenzo
Quando si soffre di quella bazzecola così peculiare che è la cattiva memoria, il passato e il futuro assumono quasi la stessa consistenza. Se guardo indietro e tento di ricordare ciò che ho vissuto, i passi che mi hanno condotto fin qui, non so mai con assoluta certezza se sto rammentando o inventando
Hector Abad, L’oblio che saremo
Chi sono io, qui e ora? Uno che non parla e morirà attraversato dalle scariche elettriche oppure uno che diventerà un docile animaletto? Un eroe o un traditore?
Marco Bechis, La solitudine del sovversivo
Buenos Aires, America Latina, 1976-1982
L’acqua dell’estuario del Rio della Plata scorre con regolarità come la vita nelle strade cittadine. Un ritmo tranquillizzante e normale, quello del traffico delle automobili che portano a casa i professionisti di un paese civile, l’Argentina del regime di Videla, nel quale accanto ai bambini che nuotano in piscina, quotidianamente si svolge, impeccabile, l’attività di militari e paralimitari: la tortura sistematica e scientifica attraverso la picana (le scariche di corrente elettrica) e poi la regolarizzazione a tempo variabile dei prigionieri politici, i desaparecidos nel ritorno impossibile, vivi, nelle acque del Rio della Plata.
Latina, America Latina, 2021
L’acqua contiene il suo riflesso placido nello spazio di una piscina con attorno una villa curata, celeste. Celesti sono le mascherine Made in Italy e i camici che indossano Massimo Sisti e le sue collaboratrici nello studio dentistico di proprietà del primo. Una vita tranquilla, quella di Massimo, borghese, benestante, gentile che vive isolato con la sua bella famiglia – una moglie e due figlie – a Latina, città che riemerge dalla palude verdastra dopo la bonifica fascista. È sottoterra che abitano il volto scuro del potere e le solitudini umane, relazionali e politiche, nella cantina di una casa costruita sulla sporcizia della palude come in un garage trasformato in luogo di tortura.
In Garage Olimpo, una donna desaparecida viene scaricata nell’oceano, a doppia distanza di sicurezza dal regista Marco Bechis, uomo e sopravvissuto a quella stessa tragedia che veniva raccontata nel film. Con La solitudine del sovversivo (Guanda, 2021), Bechis scrive il racconto dell’Argentina di Videla e della propria storia personale, senza fare sconti a se stesso e senza compiacimenti retorici ma affondando la lama nella compromissione della propria vergogna – di essere sopravvissuto, lui, rispetto a tutte le altre persone scomparse – e nel tentativo lucido di indagare una ferita mai rimarginata al tempo presente. Chiuso in una prigione mentale e non più fisica dove le emozioni non emergono. Questa la domanda dello psichiatra a Bechis: Dove tieni le tue emozioni?
In America Latina (2021) i due gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo costruiscono attorno a questa mancata emergenza uno spiazzante e folgorante dispositivo dopo l’esordio nella periferia romana de La terra dell’abbastanza (2018), proseguito con l’indagine delle famiglie nella provincia di Favolacce (2020) attraverso il tradimento sistematico e originale di riferimenti cinematografici e generi (il thriller psicologico, l’horror alla Cronenberg e le atmosfere rarefatte di Lynch) e una descrizione della duplicità e dell’ambiguità della crisi del patriarcato. L’America del titolo non rimanda esclusivamente alle atmosfere dark comedy dell’ American Beauty di Mendes ma piuttosto parte dall’impossibilità del sogno vincente della middle class. Il dentista Massimo Sisti – uno straordinario Elio Germano, alter ego dei registi – è una mosca intrappolata in un bicchiere che assiste, atterrito, allo svolgersi di un viaggio interiore infernale dall’esterno delle vetrate della sua casa, indagando in maniera anatomica e imprevista e trascinando lo spettatore nell’ordinarietà del suo dolore e della sua follia.
Una vita sospesa tra la regolarità degli incontri – con l’amico con cui si ubriaca, con il padre (Massimo Wertmuller) che lo rifiuta rimandandogli l’immagine del proprio fallimento – del lavoro e del ritorno salvifico, pervaso di infinita dolcezza, nel femminile allucinato rappresentato dalla moglie e dalle due figlie Laura e Ilenia, creature tratteggiate con la grazia raggelata delle protagoniste de Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola. Il nitore degli abiti e della luce che avvolge le immagini al femminile contrapposto al buio, al nero che avvolgono Massimo e il corpo costretto nella violenza di carcasse di vetri rotti della ragazza, desaparecida, scomparsa in una cantina.
La casa di Massimo, nella perfezione esterna ai confini con gli spazi desolati della palude, è un architettura sbagliata nella cui cantina abita l’America Latina del titolo: una ragazza scomparsa, legata a un palo di ferro, le cui urla straziate sono spesso coperte dalla musica che diventa stridore, rumore assordante. Fin qui, quindi, il racconto di un episodio di cronaca presentato come un evento allucinatorio nella vita del protagonista che scopre – e si scopre – ignaro di quella presenza nella sua cantina.
Nell’altro Sud America, quello di Garage Olimpo (1999) di Marco Bechis, la cella della protagonista Maria è uno dei 365 centri clandestini di tortura dei desaparecidos in uno straordinario patchwork narrativo in cui la violenza claustrofobica è inserita tra vedute aeree della città, l’increspatura silenziosa del Rio de La Plata che apre il film, luci iperrealisti che, note gravi di violoncello in sottofondo. La violenza sottoterra è mostrata, mai raccontata in maniera faziosa.
Le immagini iperrealistiche alla Hopper dei fratelli d’Innocenzo raggiungono un alto grado di visionarietà – grazie anche alla riuscita presenza musicale dei Verdena con lo Scintillatore (Bambola a gas) – negli incontri tra Massimo e la ragazza tenuta prigioniera in cantina, specchio paradossale dell’estrema solitudine del primo, sospeso tra vuoti di memoria – i tentativi di ricostruire la propria storia tra le pagine bianche di un’agenda che contiene solo il resoconto di qualche incontro saltuario – e inciampi di un tempo disperatamente al presente, senza memorie da rimarginare e senza attese di futuro. La sequenza finale, in una cella, quella di un carcere, dove Massimo rivolge lo sguardo vuoto al sogno, al desiderio dell’amore rappresentato dalla famiglia, unico volto reale nell’impossibilità di liberarsi da se stesso e dal vuoto relazionale della sua vita. Nell’America dei fratelli D’Innocenzo non c’è sconto alcuno al compromesso in cui, tutti, ci ritroviamo ad abitare.
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