Spettri delle nostre vite

Una conversazione con El Conde de Torrefiel

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El Conde de Torrefiel, Cuerpos Celestes - Foto di Lorenza Daverio (2024).

El Conde de Torrefiel è una compagnia spagnola che da più di dieci anni con i suoi lavori costruisce spazi di contemplazione che mettono in crisi lo sguardo e le posture dell’essere spettatori: dispositivi, letteralmente apocalittici, con cui la compagnia di Tanya Beyeler e Pablo Gisbert si è creata uno spazio preferenziale all’interno della scena contemporanea. A loro è dedicato il PRISMA dell’edizione 2024 di «Short Theatre-Viscous Porosity», diretto da Piersandra Di Matteo. In questa conversazione, il duo si confronta con Edoardo Lazzari prendendo in analisi i vettori di ricerca che ruotano intorno ai tre lavori – Ultraficción N. 1. Fracciones de tiempo, Cuerpos Celestes e Se respira en el jardín como en un bosque – che presentano a Roma in diversi spazi urbani.

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Edoardo Lazzari: «Quando uno spettacolo inizia, il pubblico sa bene che tutto ciò che vedrà è falso, è artificiale, una finzione. Ora, qui, noi siamo gli spettatori, e tutto quello che stiamo per vedere è una messinscena. Ora, qui in questo spazio in cui ci troviamo, i nostri occhi sono un grande sipario aperto…». L’inizio disvela, e si disvela. Per voi la questione della visione e della creazione di panorami contemplativi è una costante del vostro ragionare scenico, fin dai primi lavori. In Ultraficción n. 1 qualcosa è cambiato: l’oggetto di osservazione.

El Conde de Torrefiel: I dispositivi di visione sono sempre stati al centro del nostro ragionare sulla scena. A differenza di altri lavori, Ultraficción n.1 ha rappresentato un deragliamento, l’inizio di un nuovo percorso. Il frammento di cui parli è particolarmente calzante perché l’oggetto di osservazione, il luogo in cui siamo, è un ambiente naturale. È accaduto tutto in modo circostanziale: non l’abbiamo pianificato né voluto. Durante le due edizioni pandemiche di Santarcangelo Festival ci siamo prima confrontati con un lavoro in nostra assenza Se respira en el jardín como en un bosque; e poi ci siamo relazionati per la prima volta con uno spazio all’aperto, seguendo le regole di contenimento dei corpi, e avendo a disposizione un inventario preciso (un grande schermo, un impianto sonoro di grossa portata e la possibilità di agire nello spazio di passaggio atmosferico del crepuscolo). È accaduto tutto in maniera spontanea, come sono l’amore e l’amicizia. Gli ingredienti hanno poi iniziato a lavorare tra loro e sono esplosi felicemente.

In quel momento ci siamo resi conto di poter lavorare sull’immaginazione anche in modo opposto rispetto a come avevamo sempre fatto. L’incipit che citi non risuonerebbe con la stessa forza dentro un teatro: è qualcosa che abbiamo messo a tema nel più recente Una imagen interior, in cui tentiamo una strategia materialista, appellandoci alla fisicità delle sedie della platea, del palco, delle luci, e così via. Per secoli ci siamo chiusi dentro la scatola nera del teatro per evocare finzioni più vere della realtà, ma qui ci siamo ritrovati alle origini, al teatro greco: uno spazio aperto in cui l’immagine del reale e della finzione coesistono e si alimentano reciprocamente, e non è dato sapere quanto siano distinguibili. E dove a un certo punto si possa verificare l’irruzione di un elemento di realtà, un crollo del regime dell’apparenza, una forma di shock estetico (e quindi politico). Ci piace definirle turbolenze: un evento di cui ci si rende conto nel momento stesso in cui accade – non prima, non dopo – e che semina panico. Proprio come le turbolenze in aereo: improvvisamente tutto si trasforma, nessuno sa più cosa fare. Il flusso del vivere secondo una partitura nota è interrotto da una incognita, nessuno sa come rapportarvisi.

EL: La rottura si ricollega, credo, alla critica che voi muovete, attraverso le vostre creazioni, al sistema delle immagini: la continua riproduzione e accumulo conducono alla progressiva anestetizzazione dell’esperienza percettiva, una desensibilizzazione epidemica dell’immaginario, una de-realizzazione della realtà. La vostra risposta sembra passare attraverso una ricerca di strategie ellittiche e iconoclaste. Questo è il caso di Se respira en el jardín come en un bosque.

ECdT: In quel lavoro, primo esperimento nella fase pandemica, la negazione dell’immagine è radicale. Constatare che non c’è nulla da vedere è ancora peggio che non vedere nulla. E questo accade per ben due volte. È un altro ritorno a una radice dell’esperienza teatrale, quella del teatro elisabettiano, di Shakespeare. Il teatro avviene nella testa dello spettatore. Non c’è immagine, ma l’immaginazione si invola e ci conduce, alla fine, a un riaffacciarsi alla realtà. Di nuovo «i nostri occhi sono un grande sipario aperto». Com’è particolarmente evidente in questo lavoro, una delle componenti chiave per lavorare in modo complesso sull’agency dell’immaginazione, passa attraverso la provocazione del linguaggio. La paralisi dell’immaginazione, infatti, significa anche un conseguente impoverimento del linguaggio, come possiamo sperimentare quotidianamente. Nel deprivarsi delle immagini date c’è un avvio che mette in crisi – e in moto – il principio immaginativo. Di qui si arricchisce la parola, e il pensiero, e si aprono possibilità per pensare, e fare più bella la vita.

A questa componente bisogna affiancarne un’altra fondamentale: il suono. La dimensione sonora è la dimensione creatrice per eccellenza di immagini e immaginari: è il suono che le fa nascere, e dà loro una tridimensionalità. Potremmo anche non avere niente sul palco: il suono è il corpo delle immagini. Nel processo creativo, non puoi davvero controllare la produzione di immagini (che resta esperienza appannaggio dello spettatore); l’unica cosa che puoi controllare è appunto il suono. Nella nostra pratica, in quanto duo artistico, convivono queste due diverse strategie – diverse ma convergenti – che passano attraverso parola e suono per provocare il processo immaginativo.

El Conde de Torrefiel in dialogo con Lorenza Accardo e Lucrezia Ercolani – Real Academia de España en Roma. Foto CIRCA.

EL: Questo è quello che accade in Cuerpos Celestes, un lavoro emblematico sia per il formato sonoro-verbale dell’audioguida sia, soprattutto, perché testimone ultimo di una vostra ossessione, variamente declinata, per il futuro – penso ad esempio a Guerilla. Qui la flânerie ci porta nell’ambiente del cimitero [per Short Theatre, quello Monumentale del Verano a Roma]: un luogo di memoria, di collasso tra presente e passato, quasi un frattempo, dove avviene una compenetrazione di tempi storici.

ECdT: Guerrilla era, ed è, una speculazione finzionale su una possibile guerra mondiale in procinto di scatenarsi nel 2023. Quel tempo è appena passato, e le cose non sono andate come avevamo «previsto» – anche se forse l’attualità non si discosta poi di così tanto. Eppure c’è qualcosa di quella profezia, di quel vaticinio, che rimane attuale. Abbiamo cominciato nel 2008 come compagnia, a partire dalla sensazione generazionale di una crisi, di una rovina progressiva, a livello sociale, culturale, politico, ecologico. Non intendiamo la storia come una cronologia, ma, piuttosto, come un campo di forze, in cui è possibile cogliere delle convergenze. Gli eventi storici in qualche modo danno forma ai comportamenti, ai pensieri, all’educazione, alla cultura, al modo di relazionarsi di questo presente. Se si guardano con occhi sensibili le convergenze del passato, i frutti nel presente, si possono generare ipotesi sul futuro. Il punto non è tanto indovinare, quanto praticare, con una cura quasi agricola, per tenere aperto, poroso, il presente, e generare possibilità di futuro, in un clima contemporaneo che invece tenta di schiacciarci in un eterno presente.

Al contempo, però, la parola «futuro» rischia di essere un po’ vana, per questo sentiamo la necessità di riallacciarci alle riflessioni sull’haunting di Jacques Derrida e Mark Fischer: rievocare gli spettri del passato, mescolare le carte tra i piani di temporalità, come fossero una materia malleabile. Questo ci porta a Cuerpos Celestes, in cui chiediamo al pubblico di abitare la città dei morti, di camminare nella memoria. La traccia audio è una composizione letteraria, animata da meccanismi di suspense e di messa in scena a tratti cinematografici, ma il punto è che, nel nostro attraversare, ci possiamo rendere conto del nostro status privilegiato di corpo vivo tra centinaia e centinaia di corpi morti che hanno vissuto questo luogo, esattamente come noi, ma in altri tempi: una stratificazione geologica di corpi, voci, storie e fantasmi. Se si accetta il gioco teatrale, a un tratto potrebbe far irruzione di nuovo una turbolenza, un terremoto che apre una faglia, una riemersione di ciò che è stato sotterrato, e che irrompe nel nostro tempo dei vivi, e, come una peste, una malattia genetica, ritorna a interrogarci.

EL: Oltre ai questi tra lavori, a Short Theatre fate parte anche del progetto RECIPROCITY con una vostra proposta laboratoriale. Sarei curioso di sapere qualche cosa anche sulla vostra poetica in merito alla pedagogia teatrale, e a come questa dialoga con Roma, una città che ha giocato un ruolo notevole nel vostro percorso artistico in Italia.

ECdT: Ci capita di dare lezioni di teatro, ma non è una dimensione in cui ci sentiamo troppo a nostro agio: non abbiamo metodi o formule. A fronte di una tendenza accademica che punta sulla teorizzazione, preferiamo restare nella pratica: lavorare con ciò che c’è – e non con ciò che manca. In questo caso, le condizioni umane (le persone che ancora non conosciamo) e materiali, che in questo caso consistono nel meraviglioso spazio del Laboratorio di pittura del teatro dell’Opera di Roma: una vasta sala in alto sulla città, con la luce e l’aria che attraversano le ampie finestre e tutto ciò che ci sta intorno. Ci piace partire dalle limitazioni: possono dare grandi allegrie. Consentono di andare, più che nell’accumulo, nella profondità: nella perforazione. Da lì può partire un processo ricorsivo, che da un’idea – o meglio, ancora prima da un desiderio – conduce a una immaginazione, e di lì a una realtà sensibile da poter offrire al pubblico. Non è un processo lineare ma un fare e disfare continuo, in cui è fondamentale alimentare la curiosità, l’istinto e la fiducia. Ecco, forse proprio in questo c’è una piccola forma di restituzione a Roma: sono stati questi valori generosi – pensiamo a figure come Renato Palazzi e Francesca Corona – a consentirci di arrivare a Short Theatre. Ci hanno voluto, senza strategia, senza un perché. Questo atteggiamento desiderante e istintivo è salvifico: consente a chi fa arte di crescere, e a chi fa curatela e critica di aprire nuove piste, scavalcando le mode e interrompendo sviluppi monoculturali.

El Conde de Torrefiel, Ultraficcion. Foto di Ines Bacher (2024).

EL: Per concludere, nella vostra ricerca vi è una costante riflessione sulle ibridazioni tra i linguaggi del teatro e della performance; inoltre, i tre lavori di cui abbiamo parlato entrano di volta in volta in risonanze e osmosi con alcuni ambienti della città di Roma. Come si manifesta la «porosità vischiosa», tema di questa edizione?

ECdT: Nel nostro lavoro c’è certamente una compresenza di teatro e performance. Ci piace la finzione scenica ma quando è totale ci sembra di soffrire un po’ la mancanza di una breccia, di una fessura, di una faglia da abitare. Questa turbolenza, come dicevamo. È questo per noi l’ingresso della performance: un’irruzione non programmata, anti-coreografica. Spesso la performance ha una qualità affettiva legata indistricabilmente alla personalità del performer, alla soggettività dell’Io autoriale, che si fa (pensiamo alla storia del Novecento) veicolo di conflitti e violenze incise nella carne. Noi ci sentiamo più a nostro agio in una postura più defilata, affidando il conflitto, in particolare, allo scontro tra dinamiche temporali: il tempo artificiale del teatro ha una sua codificazione storicamente determinata, e proviamo a sconvolgerlo con l’incursione del tempo della performance. Un discorso analogo può essere fatto per il valore performativo dello spazio: Ultraficción n.1 era nato per accadere solo una volta, poi però qualcosa di quel lavoro ci ha spinto ha portarlo altrove, e tutte le volte abbiamo dovuto ripensarlo. Qui ci accingiamo a portarlo sulle sponde del Tevere. A teatro non è facile (anche per ragioni normative) lavorare con l’acqua. Questa presenza irrompe al nostro sguardo, mentre lo contempliamo dall’alto delle sponde. E c’è qualcosa che nella sua corrente umida ci chiama – e di cui non siamo ancora coscienti – nella limacciosa performatività del fiume, nella sua forma ondivaga, nel suo flusso ipnotico…

L’autore ringrazia Alessandro Tollari per la collaborazione nella redazione del testo.

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El Conde de Torrefiel è un progetto guidato da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert con base a Barcellona attiva dal 2010. La loro ricerca ha dato vita a un’estetica capace di integrare teatro, scrittura dei corpi, letteratura, ricerca sonora e arti plastiche per interrogare le ambiguità della vita contemporanea. Tra le creazioni più importanti: GUERRILLA (2016), LA PLAZA (2018), Una imagen interior (2022), La luz de un lago (2024). Spettacoli e installazioni sono stati presentati in importanti contesti internazionali in America, Asia e soprattutto in Europa, tra cui Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles, Wiener Festwochen di Vienna, Festival d’Automne di Parigi, Festival GREC di Barcellona, Short Theatre di Roma, MMCA di Seoul (Corea), Museo del Chopo di Messico DF, Festival Transámerique di Montréal e Festival d’Avignon.

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Short Theatre 2024-VISCOUS POROSITY
TWILIGHT ZONES
EL CONDE DE TORREFIEL NELLA CITTÀ DI ROMA

Se respira en el jardín como en un bosque | teatro
5-8 settembre | Teatro Cometa Off

Immaginazione e altri umidi fantasmi | talk
7 settembre | Real Academia de España en Roma

Occupazione Sensibile | masterclass
8-9 settembre | Laboratorio dei Cerchi del Teatro dell’Opera di Roma

Cuerpos Celestes | soundwalk
11 + 12 + 13 + 15 settembre | Cimitero Monumentale del Verano

ULTRAFICCIÓN NR. 1 / FRACCIONES DE TIEMPO | teatro
13-14 settembre | Sponda del Tevere – Parco Tevere Marconi

 

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