Un’autentica ipocrisia

Virtù personali e pubblici vizi nell’era del populismo

Santino Drago, Asilo politico (2013), MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove - Foto di Giorgio Benni
Santino Drago, Asilo politico (2013), MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove - Foto di Giorgio Benni.

Vizio dell’incoerenza morale e della piccineria esistenziale, l’ipocrisia ha una lunga storia. Nei secoli scorsi l’accusa di ipocrisia figurava come un attacco tipico dell’armamentario progressista contro il conservatorismo di ogni specie. Nella sua versione libertaria o socialista, si rivolgeva sovente contro le stretture moralistiche di qualche sepolcro imbiancato. La novità paradossale degli ultimi decenni non è soltanto che l’accusa di ipocrisia sia diventata una freccia tipica dell’arco polemico conservatore, ma anche che solo i progressisti sembrano essere vittime di questo vizio. Le ripetitive, ma efficaci, polemiche contro i radical chic e la sinistra benestante riempiono i giornali da decenni. I personaggi pubblici di sinistra sembrano dover vivere all’insegna del sacrificio, se vogliono parlare di giustizia e solidarietà. Per una sorta di ribaltamento polemico, nel dibattito pubblico occidentale, l’ipocrisia sembra essere diventato un vizio tipico dell’élite progressista, o meglio un’accusa di cui solo quest’ultima soffre dialetticamente nel confronto con la presunta credibilità della controparte.

Il paradosso sta nella parzialità dello stigma: ipocrisie e meschinità personali dei progressisti, o presunti tali, valgono come una condanna capitale della loro credibilità pubblica, mentre simili o ben peggiori accuse contro i conservatori non sembrano avere uguale appiglio, per lo meno per i loro elettori (e per il pubblico pagante dei social). La questione non è nuova. Un caso di scuola, piccolo ma emblematico, fu l’uso della barca a vela da parte di Massimo D’Alema, di fronte al quale le molteplici incoerenze berlusconiane sembravano bazzecole evanescenti. Mentre il primo venne additato di ipocrisia pur non avendo mai predicato il pauperismo militante, il secondo è stato ampiamente condonato dal proprio pubblico pur avendo predicato virtù pubbliche (onestà, coerenza, adesione ai principi liberali) ampiamente sconfessate da fatti acclarati. E, sebbene nel dibattito pubblico contemporaneo i «fatti» raramente siano unanimemente percepiti come tali, c’è un limite alla possibilità di manipolarli e alla dissonanza cognitiva che non fa vedere le malefatte della propria parte.

La questione potrebbe essere derubricata a un ovvio e banale gioco partigiano dei due pesi e delle due misure: si è spesso, e non sempre colpevolmente, più indulgenti verso chi professa idee simili alle proprie piuttosto che verso coloro che stanno dall’altra parte, almeno nell’agone pubblico. Eppure, la cosa non è così lineare di fronte a una smaccata e insistita ipocrisia della destra – si pensi ai molteplici divorzi di noti partecipanti al family day – che non si fa remore di attaccare la sinistra (o presunta tale) per alcune incoerenze più o meno gravi. Perché i «peccati» degli uni vengono allegramente digeriti dall’elettorato mentre le incoerenze dei secondi valgono come pietre tombali? Perché l’ipocrisia è assurta a sommo vizio del dibattito pubblico e perché lo è indubbiamente solo per una parte?

Una prima risposta, che è vera solo in parte e che pecca di pigrizia e presunzione, sostiene che solo gli uni possano essere considerati ipocriti poiché solo gli uni, e non gli altri, sono fautori di valori genuini, mentre gli altri giocano al ribasso con standard morali inesistenti o uguali al proprio interesse. La parziale validità di questa ipotesi si basa sull’idea che i valori portati avanti dalla sinistra siano più onerosi (solidarietà, giustizia, inclusione) di fronte a quelli di destra che si limitano a voler congelare l’esistente o a favorire chi non ha bisogno di essere favorito. Sebbene ci sia del vero in questa risposta, essa non spiega il problema in questione poiché i valori portati avanti pubblicamente dalla sinistra si sono sempre più annacquati negli ultimi anni, divenendo via via sempre meno onerosi.

Inoltre, guardando alla questione puramente dal punto di vista del dibattito pubblico, cioè senza valutare la sostanza dei valori e delle idee in gioco, l’onnipresenza dell’accusa di ipocrisia sembra dipendere dalle posture che i diversi attori hanno preso nell’arena pubblica. Questo ci porta alla vecchia e sopravvalutata questione della superiorità morale della sinistra. Se ve ne è stata una, sembrerebbe essere tornata come una beffarda vendetta della storia: l’incoerenza ipocrita può essere lo stigma solo di chi predica superiorità perché si fa portatore di valori genuini, mentre gli altri ne sarebbero esenti.

Sebbene in questo gioco delle parti vi sia una parte della risposta, non basta a spiegare il fenomeno, non solo perché ogni divisione moralizzante di una popolazione (tra gli egoisti e i moralmente corretti) rischia di essere una mossa autoconsolatoria, ma anche perché l’asimmetria dell’accusa di ipocrisia non vale soltanto in Italia, dove la retorica sulla superiorità morale ha popolato la discussione pubblica. Vale anche, ad esempio, nel contesto statunitense, in cui Trump, sommo esempio di ipocrisia, incoerenza e uso strumentale dei valori, ha rovesciato sulla parte progressista tutto l’armamentario di accuse ben note. E agli occhi della destra Trump e altri del genere non sono soltanto i fustigatori della sinistra, ma anche i difensori di certi valori. Si può e si deve rigettare la presunzione di questi valori, ma non si può dire che non si presentino come tali e che solo la sinistra cerca una giustificazione morale della propria posizione.

Inoltre, se anche questa risposta fosse vera, aggiungerebbe ulteriore carne al fuoco: oltre a dare ragione all’accusa di ipocrisia, quando personaggi di sinistra non vivono secondo gli standard che dovrebbero predicare, certifica l’esistenza di un altro vizio capitale: la superbia del presumersi moralmente superiori. Quindi, anche se la sostanza della superiorità morale fosse vera, non si smentirebbe la logica perversa in cui è intrappolato il dibattito pubblico degli ultimi decenni: l’ipocrisia sembrerebbe un vizio solo di una parte, che predica virtù e razzola male nell’aia della vita tra pubblico e privato.

Per dirimere la matassa è necessaria un’analisi del senso politico dell’ipocrisia, il cui valore pubblico è al giorno d’oggi irriflessamente assunto come ovvio. Invece, se l’ipocrisia è un vizio, lo è per un ideale morale di integrità e purezza individuale che non è necessariamente un ingrediente importante o utile dell’attore politico. Senza arrivare all’uso strumentale dell’immagine virtuosa per fini di rispettabilità politica che già Machiavelli suggeriva, si può pensare in termini consequenzialisti che ciò che conta sono solo gli esiti delle azioni. Del resto, se certi attori pubblici predicano bene in pubblico e razzolano male in privato perché dovremmo dolercene, nella misura in cui il loro operato porta benefici collettivi?

Diversi studi hanno rivalutato l’importanza dell’ipocrisia come vizio civilizzatore: rispetto al mero auto-interesse dichiarato o alla crudeltà sfacciata, l’ipocrisia del pubblico impone a tutti, anche al politico spietato, di riconoscere, almeno formalmente, l’importanza dei valori democratici. Pulizia del dibattito o mero lip service, il riconoscimento pubblico di ciò che vale in linea di principio imbriglia tutti a un insieme di valori che fungono da standard. Anche se poi vengono violati nel privato o dietro le quinte, il riconoscimento di questi standard permette agli altri, e innanzitutto al pubblico, di poter accusare, inchiodare, criticare e anche cambiare gli attori pubblici rei di incoerenza1.

Se anche ammettessimo che l’ipocrisia fosse un male, è certo che non dovremmo considerarlo un male particolarmente significativo. La non-ipocrisia sarebbe un valore primario solo se fossimo attaccati a un ideale di piena virtù dell’attore politico secondo cui il politico non solo dovrebbe agire per il bene collettivo, ma anche essere una persona che vive privatamente secondo le convinzioni pubbliche. Un ideale, si converrà, di virtù piena che giustamente dovrebbe riempire i trattati di filosofi e moralisti, ma non necessariamente costituire il criterio di giudizio della politica. È vero che lo scollamento radicale tra discorso e azioni produce alla lunga una sfiducia nella rilevanza degli standard morali. Ed è anche vero che la politica si basa sulle promesse e le promesse di una persona incoerente sono poco credibili. Ma non è detto che il comportamento in privato sia l’unico (e il migliore) modo per valutare l’azione pubblica. Resta in ogni caso da spiegare perché un vizio minore di natura dubbiamente pubblica abbia tutto questo peso nel dibattito pubblico odierno, e lo abbia quasi esclusivamente come argomento contro la sinistra (o presunta tale).

Una prima ipotesi, ingenua ma aderente alla superficie del dibattito e non da scartare immediatamente, attiene alla diversa forma dei valori propugnati dalle due parti. In tal senso, la sinistra viene più facilmente accusata di ipocrisia perché i valori che porta avanti sono più impegnativi, ovvero richiedono di bilanciare il proprio interesse con le esigenze altrui. Invece, negli ultimi anni la destra ha avuto una sorprendente torsione libertaria. Il libertarismo di quest’ultima è, come noto, altamente selettivo e spesso autointeressato, cioè espressione delle classi dominanti che prediligono libertà economiche e responsabilizzazione della sventura, mentre mantengono buona parte dei valori sociali tradizionali (la famiglia!) per il controllo del popolo. Tutto ciò è vero, ma, di nuovo, non spiega del tutto l’asimmetria tra destra e sinistra.

Una spiegazione più plausibile chiama in causa la questione del populismo. Benché sia ormai un fenomeno pervasivo, almeno in senso comunicativo, che ha contagiato tutte le parti (che risultano vincenti), è evidente che negli ultimi decenni è stato giocato, manipolato e rielaborato soprattutto dalla destra nei paesi occidentali. L’aspetto cruciale della dinamica populista che può spiegare l’asimmetria nel valore dell’accusa di ipocrisia risiede nel tipico meccanismo di identificazione tra popolo e leader. Il leader populista salta le mediazioni comunicative e di rappresentanza e cerca un’identificazione con il proprio elettorato mostrandosi identico alla persona media. L’elettore tipico, identificandosi nel leader di destra, ne apprezza la presunta autenticità. Sebbene il leader si presenti spesso come somma di virtù morali ed esistenziali eccezionali, le incoerenze abbondano nei leader e nel loro entourage (corruzione, abusi di potere, appropriazioni indebite, nepotismo, disprezzo per il popolo). Ma questi scivoloni non vengono conteggiati tanto quanto quelli dell’altra parte perché il pubblico di riferimento, identificandosi col leader, è restio ad autoaccusarsi di ipocrisia.

Questo meccanismo non è ovviamente una protezione eterna e infallibile. Anche i leader populisti crollano e perdono consensi. Con la perdita dell’aura di invincibilità perdono anche l’identificazione popolare e quelle che prima erano piccole macchie di cui non ci si voleva autoaccusare, successivamente possono diventare significative mancanze. Ma a destra il processo di caduta dell’immagine è significativamente meno intaccato dall’accusa di ipocrisia, di cui pure ci sarebbe molto materiale, perché il meccanismo populista di autoidentificazione pubblica fa sì che l’immagine del leader viene protetta dal pubblico che, condonando il leader, vuole assolvere anche se stesso.

Non sembra esserci una via d’uscita dato che accusare insistentemente di ipocrisia e incoerenza i leader di destra ha, come detto, una scarsa efficacia, pur rimanendo necessario. Forse i leader di sinistra dovrebbero abbracciare più convintamente dinamiche di identificazione populista? Ne risulterebbe, ovviamente, un ulteriore abbassamento del dibattito pubblico. La soluzione preferibile e più logica sarebbe impegnarsi a selezionare e sostenere solo attori politici che, oltre ad essere capaci ed efficaci, soddisfano pienamente standard di integrità.

In attesa di trovarli, bisognerebbe invertire la priorità dei criteri di giudizio e dare più importanza a ciò che i politici fanno, (quasi) indipendentemente da ciò che sono. Mossa apparentemente difensiva, richiederebbe tempi più lunghi dello scrutinio dell’integrità delle persone. Ma la distinzione tra l’ideale di integrità personale e gli standard di etica pubblica dovrebbe tornare ad essere la guida di tutti coloro che non vogliono essere fagocitati dalle piccole macchine del fango che caratterizzano il dibattito politico.

 

Note

Note
1Judith Shklar, Vizi comuni. Crudeltà, ipocrisia, snobismo, tradimento, misantropia, il Mulino, 2007; Jon Elster, Argomentare e negoziare, Bruno Mondadori, 2005. Per una ricostruzione e critica di questa posizione si veda Leonard Mazzone, Ipocrisia. Storia e critica del più sociale dei vizi, Orthotes, 2020

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