Esperimento radiofonico
Parte 1
Costretti in casa da «cause di forza maggiore»1 ci troviamo finalmente a poter sfogare tutta la nostra grafomania, in un fiorire di theory, analisi, proposte, visioni apocalittiche2, piccoli diari e scritti vari; tutti pronti a deflagrare e sparire se mai succederà la paventata «fine della società», con ciascun autore, nel suo piccolo, caricato a molla per saltar fuori e poter finalmente urlare «Io l’avevo detto». Questo triviale clima intellettual-competitivo si è, come prevedibile, poggiato sul più classico degli stili morali/manicheisti3; che neppure i racconti personali, troppo personali, sono riusciti a scardinare, quanto piuttosto a rinforzare, portandoci a chiedere «chi sta con chi», riuscendo ancora una volta a spazzare via dal piano del discorso qualunque parola che non si armonizzasse con il paradigma di volta in volta preteso dominante4.
E così già da fine febbraio assistiamo (e partecipiamo) a questo ammasso di scritti, documentazioni, racconti e proposte5, ma uno sembra aver squarciato lo splendido piano discorsivo in cui ci citavamo a vicenda: il 26 febbraio 2020 esce un brevissimo articolo di Giorgio Agamben, dal titolo indicativo «L’invenzione di un’epidemia» , che ha subito un trattamento quantomeno singolare. Se da un lato è stato trattato per quel che è, un articoletto che, quantomeno dal titolo, sembra totalmente mancare il punto; dall’altro ha subito una critica tanto veemente da scadere, a volte, più sul personale6 che sul contenuto.
Scambiare l’analisi di Agamben per un’indicazione pratica, di cui si sottolineano le immense lacune, sembra essere il passatempo preferito di buona parte dell’intellighenzia di sinistra durante questo periodo di isolamento sociale. Il gioco che viene fatto ci appare semplice: prendere una proposta analitica, pretenderla come tesi (o meglio «antitesi») dello stato delle cose (nella sua interezza) e sminuirne, azzerandole, le possibilità7 da praticare. Ma non troviamo così difficili da seguire queste poche righe che un uomo quasi ottantenne8 ha e ha dovuto scrivere per specificare sempre più il suo personale, a tratti misero, punto di vista. Utilizza le classiche vecchie categorie schmittiane e attraverso esse prova ad indicarci come proprio ora e qui stia avvenendo (o potrebbe avvenire) qualcosa di «epocale»: in questo momento specifico lo «stato d’eccezione» non sembra più riguardare soltanto «le minoranze» (che subiscono e lottano giorno-per-giorno contro le decisioni del potere), ma anche una delle fette di popolazione «normale», a cui la norma si rifà, piuttosto che essere prescrittiva9, e su cui è costituita.
Nonostante questo speciale stato di cose, non sembra esserci altra organizzazione (o meglio un’organizzazione altra) capace di sapere e decidere per10 una comunità che si ritrova praticamente, idealmente e simbolicamente al punto zero da cui si ripartirà. La miseria della critica a questo banale appunto di Agamben racchiude e rappresenta la pochezza pratica e politica in cui versiamo noialtri11. E piuttosto che ripensare a ciò che si è fatto e ciò che ci siamo rifiutati di fare finora12 e sapere che fare, ci ritroviamo ad avere le solite risposte a queste domande – scientifiche, di governance, umanitaristiche – dove ci siamo tutti e tutto c’è13.
È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo14
Strano poi come, dopo aver ripetuto per anni certe formule, dopo aver analizzato fino alla nausea quanto il «capitalismo» fosse penetrato nelle vite di ciascuno, e di ciò che ciascuno fa delle proprie vite (la libertà dobbiamo ancora guadagnarcela?), adesso stiamo qui ad attendere notizie e indicazioni da «qualcuno», appigliandoci – ognuno secondo le proprie simpatie – a uno qualunque di questi valori universali e totalizzanti: tutto ciò che possiamo fare sembra essere totalmente tradotto (traslato) nel discorso, e questo ritorcimento della «critica da sinistra» su se stessa (nell’immenso chiacchiericcio a chi ha la soluzione migliore per tutti, mentre, ovviamente, dobbiamo e possiamo stare a casa), lungi dall’essere la «resa dei conti finale», come molti si stanno promettendo, appare e agisce come l’ennesimo ritorno dell’uguale.
Uguale il piano di riferimento, uguali le analisi, uguali le soluzioni che ogni parte adesso urla più forte. L’«esperimento radiofonico» a cui stiamo assistendo ha sì mostrato la forza e l’estensione dell’apparato di cattura statale (ha risuonato l’inno nazionale insieme ai ritornelli più conosciuti di città in città), ma abbiamo anche assistito al processo musicale, la possibilità di richiamare comunità (tribù?) alla loro contraddizione costituzionale: deterritorializzate (dalla casa) e riterritorializzate (in quello spazio liscio e forato fra i balconi la cui esplorazione era stata finora considerata «popolare/da terroni»).
Da giorni echi di nazionalismi stanno riempendo gli ultimi spazi in pubblico rimasti senza sorveglianza: dai balconi e dalle finestre, aperture nella «sacra proprietà privata» siamo stati capaci di diventare delatori, spie e coristi nazional-popolari, mentre le strade sono pattugliate dalla polizia, a cui con un decreto è stato legittimato il libero arbitrio durante lo svolgimento delle proprie funzioni (a decidere qual è un «motivo necessario» a star per strada sarà ciascun agente, de facto). Non c’è un accordo d’accordo sulle cause né sul proseguo di questo stato (d’eccezione o di continuità?), ma di una cosa sembriamo essere certi: siamo insieme e ne usciremo insieme. Come se finora non fosse stato così, come se l’insieme fosse insindacabile e universalmente riconosciuto (è, di fatto e nei discorsi, l’Umanità, finalmente svelata nel suo essere una comunità di individui), come se i modi di uscirne insieme fossero tutti già detti, già sul banco, bisogna scegliere quale merce-pensiero si addice più alla nostra personalità (i supermercati sono ancora aperti, tocca solo mettersi in fila).
Tutto ciò è fornito dai discorsi della «scienza regale», molteplici – riproducono fedelmente il modello multipotere orizzontale dell’ideologia aziendale dominante – lontani dalle condizioni sensibili, subordinando di fatto le sensibilità al discorso – universale, universalizzabile, da statisti o umanisti15-, dove, contraddittoriamente, qualcuno sa qualcosa e tutti possono parlare, che favorisce la riattivazione di un valore di persuasione «sofistico» più che un fiorire di cause prime (possibili e reali). Risuonano così, necessarie, nella realtà discorsiva, parole d’ordine16. Parole d’ordine riterritorializzanti che richiamano al nucleo sociale – o dello Stato-borghese così come lo conosciamo – ciò che, idealmente, tutti noi abbiamo: la proprietà privata. Cosa c’è all’interno, non si può vedere, atomo indivisibile della vita sociale, la nostra casa (e chi ci sta dentro con noi, fosse anche nessuno) è la puntualizzazione da cui si ripartirà per normalizzare.
Verso dove è così già tracciato: passeremo finalmente (dopo) per strade pulite – qualcuno vuole addirittura approfittare di questa «pausa» per tappare le famose buche17 -, sicure (la polizia e l’esercito in città hanno più legittimità che mai), come soggetti guariti. E soprattutto, abbiamo individuato i cattivi: sono tutti quelli che hanno favorito il contagio. Ovvero, siamo tutti noi. Ciascuno di noi sa, nonostante le buone intenzioni e le accuratezze, di non aver fatto tutto-tuttoneiminimidettagli. Anche avendo sempre e comunque seguito gli ordini e le direttive alla lettera. Qualcuno è morto, forse era quel vecchio che ci ha tossito vicino, prima che lo scacciassimo. Però allora avevamo ragione, doveva stare a casa. Avremo forse, finalmente, un po’ di igiene nei discorsi. Le parole d’ordine saranno le stesse, ma le declineremo in una politica finalmente pulita e chiara18.
Eppure, contro tutto questo bell’avvenire ideale per tutti («saremo più forti» o «saremo più organizzati», l’orgia della dialettica), che vuole rappresentare il reale su cui tutti saremo, si costituisce il confine da esso tracciato19: anche riportando tutto al nucleo, le monadi avranno le finestre. Che l’esperimento radiofonico continui, piuttosto che sperarne la cessazione, e che continui ritornando alla materialità del suono e della musica, e dei corpi che la producono. Spingerlo fino a tornare ai bisogni che questi corpi possono avere, in un intorno non più «ideale» (i tutti noi, la comunità o la nazione) quanto più reale del vero: lanciare corde dai balconi per creare nuove strade mobili, intrecci e alleanze: scienze sociali, pratiche e girovaghe che «subordinano tutte le loro operazioni all’intuizione e alla costruzione […] tracciare e raccordare lo spazio liscio» e che «si limitano a inventare problemi, la cui soluzione rimanda a un insieme di attività collettive e non scientifiche», tracciando, bloccando, annodando e snodando materialmente più di mille piani. Per una geografia sonora.
Note
↩1 | Paura per il contagio o forze dell’ordine per strada. |
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↩2 | Che sia arrivato anche per noi il momento di affondare? Sembra che qualcuno non vedesse l’ora di scoprirci tutti alla mercé del caso per poter finalmente girare lo sguardo dall’intorno, e riempirsi gli occhi di una società che affonda. Chi affonda è assurto ad archetipo sociale, abbandonando lo stato di mostruosità sociale che tanto ci faceva penare. |
↩3 | Da questo bailamme c’è chi ne è riuscito addirittura ad uscire con una dicotomia fra Foucault e il vaccino |
↩4 | È il caso di Bifo, che nelle sue cronache della psicodeflazione non ha detto nulla se non se stesso, ma pagando la sua fama di ironico e sarcastico autore è stato inscritto in qualche fazione, di volta in volta, fosse anche quella dei «privilegiati che possono non far niente». |
↩5 | Wu Ming ha finora (23-03-20) dedicato otto articoli alla questione, compresi tre «diari virali» |
↩6 | Un «personale» che comunque non sembra aver preso in considerazione il filosofo-Agamben, di cui si dovrebbe altrimenti ammettere una totale continuità, quasi «non avesse potuto scrivere altro» a proposito, quanto la persona-Agamben, come se la posta in gioco fosse altro da un mero dibattito teorico/teoretico, uno spazio politico forse? |
↩7 | L’analisi sblocca dei possibili, ma non indica la prassi. Sarà questa la posta in gioco? Che forse tutta un’intellighenzia senza altra pratica da quella culturale, tanto da ritenere come propria la pratica delle lotte passate stia insorgendo contro la propria stessa impotenza? |
↩8 | Sottolineiamo qui la «veneranda età del caro vecchio» per poterne meglio apprezzare la posizione in quanto parlante, il poco-più-giovane Bifo ha già ricordato come «Il coronavirus ammazza i vecchi, e in particolare ammazza i vecchi asmatici, come me». |
↩9 | Rinasce infatti il «focolaio di famiglia» contro il «focolaio virologico». |
↩10 | «Decidere per» inteso nel suo senso «di fronte a…» non «al posto di…». |
↩11 | Intellighenzia di sinistra. |
↩12 | Quali linee di fuga non abbiamo seguito per provare a costruire un piano finora? È forse il momento di chiedersi se quel piano non stia per collassare, o sia già collassato. |
↩13 | ma soltanto col presupposto di rispettare alla perfezione i paradigmi dettati da ciascuna di queste risposte, siamo tutti, ma non ciascuno, e dobbiamo rispettare i paradigmi forniti da queste risposte per poterci essere. Essere pazienti, essere cittadini, essere umani |
↩14 | M.Fisher che dice che l’ha detto S. Žižek o F.Jameson |
↩15 | Dobbiamo avere tutti «una preoccupazione da uomo di Stato, o che prende partito per lo Stato, volta a mantenere il primato legislativo e costitutivo della scienza regale», a fronte delle continue riterritorializzazioni che stiamo subendo, sempre più identificanti, per trovare un popolo – non astratto nel pre-confezionato nazionalismo – bisognerà mettersi in movimento e tracciare delle carte – relazionali, di potere – per renderlo possibile, ora che siamo tutti a casa: non è abbracciandoci tutti che eviteremo certe preoccupazioni. A tal proposito un Trattato di nomadologia (come quello scritto da G.Deleuze e F.Guattari – sembra venirci comodo appoggio. |
↩16 | Oltre all’hashtag lanciato addirittura dal presidente del Consiglio – l’hashtag: la parola d’ordine che si insinua negli archivi, un dirsi-a-patto-di-sapersi-dire -, risuona finalmente in tutta la sua chiarezza quella che potremmo definire la parola del nostro secolo, che apre la sua catena simbolica nel 2001: sicurezza. |
↩17 | Chiaramente qualcun altro dovrà svolgere questo lavoro, in un ambiente miracolosamente igienizzato. In fin dei conti, dovrebbero solo «toccare del materiale» e si sa, la merce non è infetta. |
↩18 | Questa volta, questa volta sarà chiaro ed evidente per tutti: se non avessimo obbedito alle parole d’ordine saremmo morti; «ogni tanto il governo può avere ragione» |
↩19 | «Lo spazio liscio riconquista le proprietà di contatto che non gli permettono più di essere omogeneo e striato», improvvisamente sembra essere più facile incontrare chi ci abita vicino o dirimpetto; e abbiamo assistito durante le rivolte del lontano – geograficamente – 2019 come la striatura dello spazio aereo a livello molecolare «i droni» stia incontrando decisive resistenze. |
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