Per farla finita con l’amicizia
Il progetto incompiuto di Michel Foucault
L’estate si è aperta con la pubblicazione di un importante lavoro di Lorenzo Petrachi sull’amicizia e la sua genealogia foucaultiana: Rovine dell’amicizia. Il progetto incompiuto di Michel Foucault, Orthotes Editrice. Il saggio ci sembra particolarmente interessante in relazione alle linee di ricerca sviluppate su questa rivista, per questo anticipiamo qui un estratto del libro, ringraziando l’autore e la casa editrice per la disponibilità.
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L’analisi storica di come l’amicizia è divenuta ciò che è divenuta rappresenta solo un momento del movimento critico di superamento, di presa di distanza e di elaborazione: si tratta di capire ciò che siamo al fine di rifiutare ciò che siamo, di dare un nome alle nostre amicizie per poi rovinarle – e ciò, chiaramente, secondo un imperativo di tipo condizionale (se volete lottare, ecco allora dei punti chiave). Se esercitare il potere significa strutturare il campo di azione possibile degli altri, un approccio del genere permette di individuare un ambito trasversale allo studio del governo di sé e del governo degli altri nel loro rapporto, vale a dire, con le parole di Federico Zappino, l’analisi dei «differenziali che strutturano […] le possibilità – o le impossibilità – di relazione [dei] corpi tra loro, [circoscrivendo] preventivamente la possibilità e la forma delle relazioni1. La nostra amicizia, per quanto felice e genuina possa essere, non è che una configurazione particolare di questo ambito: essa va considerata come parte del campo delle tecniche di governo delle condotte o, con una terminologia che ha conosciuto grande fortuna, come un dispositivo.
Dispositivo, d’altronde, di emersione piuttosto recente e con una storia affatto particolare: lungi dal sorgere da una problematizzazione diretta e correlata a una produzione di conoscenza (come nel caso della follia o della sessualità), è il risultato, per così dire, di una problematizzazione residuale, di riflesso. Ciò che dà forma alla normazione (e fino a un certo punto anche al discorso) dell’amicizia è il gioco di altre problematizzazioni contigue, di eventi appartenenti ad altre storie, di modi di produzione della soggettività e del rapporto che se da un lato rivendicano il monopolio su determinate modalità del comportamento e del sentimento, sottraendole all’amicizia, dall’altro formano individui e gruppi capaci di amicizia (e che tramite quest’amicizia riproducono gli effetti e le condizioni dei suddetti modi di produzione)2. Sarà bene distinguere questa forma di residualità – attuale e sistemica – dall’idea, criticata in precedenza, del persistere accidentale di forme residuali che, in quanto tali, sarebbero destinate a scomparire3. L’amicizia appare nell’immediato come qualcosa di privato e confortevole, indipendente dalle relazioni di potere, si definisce anzi tramite una sospensione di tutta una serie di relazioni (gerarchiche, sessuali, di dipendenza) che non possono incrociarla, pena il suo snaturamento. Ma che l’amicizia esista, che abbia una natura – e che possa dunque venire snaturata – è qualcosa di cui bisogna rendere conto.
Questa sezione, in maniera inevitabilmente parziale, tenterà di vedere tutto ciò più da vicino, gettando le basi per uno studio più completo dell’amicizia come dispositivo. Nel § 2 prenderò in considerazione alcuni dei modi secondo cui l’amicizia viene prodotta. Nello specifico, mi occuperò del modo di produzione eterosessuale, dei suoi rapporti con la mononormatività e l’amore (trattato anch’esso come una tecnologia), della governamentalità neoliberista e delle interazioni fra ognuno di questi ambiti. È facile vedere come, lungi dall’essere arbitraria, la scelta degli assi da studiare discenda direttamente dagli argomenti e dalle conclusioni della sezione precedente. Nel §3 tornerò su Foucault, soffermandomi dapprima sul concetto di confessione amorosa – sviluppato ampiamente in Vent’anni e poi e in Mal fare, di vero, in relazione all’asimmetria strutturale della coppia eterosessuale – e poi sul versante positivo della sua riflessione sull’amicizia, definita in questo frangente come l’invenzione di una relazione ancora senza forma, o come l’insieme delle cose attraverso cui è possibile generare del piacere reciproco. In conclusione, porrò la questione se l’amicizia possa diventare altro rispetto all’ambito, per così dire, derivato, preso qui in considerazione, e se fare dell’amicizia un problema non possa aiutare nel compito arduo di disfare, pezzo per pezzo e in chiave intersezionale, tanto il dispositivo della sessualità, quanto il modo di produzione eterosessuale, delineandosi quindi come punto d’appoggio possibile per una prassi anticapitalista. A questo punto, l’intento esplicito di rovinare l’amicizia, non potrà che essere inteso nella doppia accezione di ethos individuale e sfida politica collettiva.
Cosa significa affermare che l’amicizia, così come la conosciamo, è una configurazione esperienziale storicamente singolare e che non si tratta, in definitiva, di una pratica così attempata? In effetti, se non arriviamo a definirla “un’invenzione recente” è solo perché, a ben vedere, la sua comparsa furtiva ha poco a che fare con l’entusiasmo e la potenza creativa che il più delle volte accompagnano i primi momenti di un’invenzione o di una scoperta. Attraverso una simile affermazione, che cosa inizierebbe a vacillare pericolosamente, fosse anche solo nella considerazione individuale? La palette esplosa dei nostri affetti, i linguaggi e i gesti del quotidiano, il modo con cui posiamo lo sguardo su uno sconosciuto in libreria, le aspettative che riponiamo nel sabato sera, le parole delle nostre negoziazioni domestiche, i confini del privato, il significato dei nostri moti d’animo e la loro rinnovata politica, la gelosia, l’invidia, il possesso, l’ovvietà sospetta delle pacche sulle spalle, le nostre pretese, le nostre reticenze nel domandare, la partage dei cibi e dei letti, la malizia nelle dicerie, la distribuzione iniqua del lavoro emotivo, le modalità d’apprendimento e quelle d’abitazione, la desiderabilità della lotta, il suo prezzo e la sua vivibilità; tutto ciò – ma non sono che esempi tratti da un repertorio personale – sarebbe esposto a ritrattazione, a possibili e senz’altro necessarie metamorfosi. Prima ancora di un nuovo diritto relazionale o di una sovversione concertata, è il pensiero stesso a sortire degli effetti, a stritolarci. Vorremmo allora conoscere meglio l’amicizia così come la conosciamo, e questo per meglio disconoscerla.
Ma è possibile parlare in maniera sensata di quest’amicizia, come se si trattasse di un campo omogeneo, come se la realtà non fosse molto più ricca e variegata rispetto alla sua immagine stereotipata? Parlare dell’amicizia in termini così generali non vorrebbe dire condannarsi a descrivere un sociale che non esiste, un’esperienza costruita a tavolino in maniera un po’ meccanica e semplicistica? In un breve testo di metodo, Foucault sottolinea:
Quando parlo di società “disciplinare”, non bisogna intendere “società disciplinata”. Quando parlo della diffusione dei metodi di disciplina, questo non significa affermare che “i Francesi sono obbedienti”! Nell’analisi delle procedure messe in atto per normalizzare, non si trova “la tesi di una normalizzazione di massa”. Come se invece questi sviluppi non dovessero commisurarsi proprio con un perpetuo insuccesso4.
Considerazioni analoghe valgono per l’amicizia intesa come dispositivo. Ad esempio, possiamo notare che le proposizioni al centro della nostra analisi dell’amicizia non hanno mai un intento banalmente descrittivo. Al contrario, saranno da considerarsi come elementi di pratiche e problematizzazioni concrete, con un’origine e una ricaduta tutt’altro che infra-testuale, o, in altre parole, come proposizioni normative esposte concretamente e costantemente all’insuccesso, alla ritrattazione e al compromesso. In breve, nelle pagine che seguono non si tratta mai della totalità, ma sempre e solo della norma. Per questo motivo non sarà pertinente obiettare che si finisce col fornire un resoconto caricaturale e riduttivo di un reale più articolato, e ciò perché non si intende fornire un simile resoconto. D’altronde, bisognerà ammettere che gli scarti dalla norma, quando presenti, sono ben consapevoli del loro statuto straordinario e/o precario, specie nel riconoscimento e nel supporto più ampio da parte del contesto in cui si attuano.
In relazione a quanto detto nella sezione precedente, la specificità dell’amicizia quale si presenta ai nostri occhi è sin da subito rinvenibile nell’idea secondo cui essa sfuggirebbe alle regole sociali, forte di una sua autonomia regolata al più dal libero gioco delle affinità o dalle idiosincrasie dei singoli individui5. L’amicizia non sarebbe altro che un «accordo di volontà», una «libertà vissuta così come viene, senza sforzi né condizioni», un curioso fenomeno antropologico che «non si mendica» poiché «o viene o non viene»6. Così Jean Genet ha potuto affermare che essa è «come la fraternità: qualche cosa di ordinario alla quale si può non dare peso»7. Analogamente, secondo Tahar Ben Jelloun il motto di questo «stato tranquillo» di «reciprocità senza sfasature» dovrebbe consistere nella formula «sempre presente e mai pesante»8. Difficilmente si sopravvaluterà la distanza che intercorre fra quest’amicizia e il modello non solo delle amicizie tradizionali descritte da Bray, ma anche della più intima affettività di Montaigne e La Boétie.
Le parole di C. S. Lewis testimoniano aridamente di questo divario: l’amicizia è oggi «un fattore del tutto marginale; non è la portata principale del banchetto della vita, ma semplicemente uno fra i tanti contorni; è qualcosa che serve a riempire i momenti vuoti del nostro tempo»9. Questo carattere, lungi dall’essere accidentale o attribuibile a un semplice disinteressamento nei confronti della pratica, sembra essere costitutivo della struttura dell’esperienza contemporanea dell’amicizia. Si tratta dunque di una caratteristica non solo costantemente prodotta, ma anche costantemente valorizzata: non solo l’amicizia è «tempo sprecato», essa deve esserlo10. In questo senso, non basta dire che «la maggioranza degli uomini cerca nelle amicizie maschili» uno «sfogo che permetta di liberarsi dei ruoli che giocano altrove – lavoratori, mariti, padri – e di dedicarsi esclusivamente ai loro piaceri semplici e ai loro capricci»: l’amicizia infatti non si limita a permettere, di tanto in tanto e opzionalmente, un affrancamento dal tipo di relazione implicata da quei ruoli, essa li esclude preventivamente11. Se l’amicizia si riferisce il più delle volte a un rapporto superficiale, leggero e senza conseguenze, che non va «oltre un certo livello di connessione sentimentale e di condivisione delle “cose serie”», è perché «per noi oggi l’amicizia è una questione privata, che si manifesta nel tempo libero dai ritmi del lavoro o dello studio e dalle esigenze, dalle regole, dalle pressioni, dalle gerarchie che dominano il mondo là fuori»12. O, perlomeno, queste sono le linee guida della sua produzione, che si compie proprio per mezzo di quello stesso “mondo là fuori” che vorrebbe escludere configurandosi come una sua sospensione.
Più in generale, l’amicizia si caratterizza come una relazione «legata alla franchezza, alla sincerità, all’onestà e – qualità fondamentale – all’assenza di gelosia»13. Quest’ultimo tratto può servire a introdurre la distinzione più netta, evidente e proprio per questo apparentemente refrattaria all’analisi fra quelle che strutturano l’esperienza contemporanea dei rapporti amicali: quella fra amore e amicizia14. Senza mezzi termini, lo scrittore Joseph Epstein afferma ad esempio che «dove c’è sesso non c’è amicizia; qualcos’altro entra in gioco – forse molto altro – ma non l’amicizia»: «marito e moglie ovviamente fanno l’amore», ma «la vera amicizia si stabilisce fra loro quando il corteggiamento è finito, quando le responsabilità (per i figli o per altro) rendono i sentimenti più profondi e la stima tende a superare l’amore romantico»15. Tuttavia, questa profondità del sentimento non deve trarre in inganno. Un fenomeno lo dimostra chiaramente, quasi a ricalcare e ad ampliare, rinnovandolo ogni volta, uno dei processi storici analizzati in precedenza: «l’amico con cui si confidavano le avventure, le storie d’amore, si sposa o comincia una relazione stabile, e improvvisamente il suo ambito di confidenza viene troncato. La sua intimità diventa estranea, proprio perché essa copre un’area che adesso egli o ella condivide in esclusiva con qualcun altro»16. Tutto si svolge, in altre parole, «come se gli amori fossero ancora concepiti gerarchicamente come coronamento di un’affettività che vede nell’amicizia solo una fase “immatura”»17. Potremmo allora ricordare, seguendo da vicino il linguaggio colloquiale, che non si è mai solo amici, si è sempre “solo” amici, “semplici” amici, oppure, al contrario, “più che” amici e, allusivamente, “qualcosa di più”18. Nella prospettiva della storia dell’amicizia, queste espressioni perdono la loro banalità e diventano un segno, una traccia o un marchio del processo concreto di produzione dell’esperienza amicale.
Note
↩1 | Federico Zappino, Make love not war: Note per una giustizia sentimentale, in Ilaria Bussoni, Nicolas Martino, a cura di, È solo l’inizio: Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, ombre corte, 2018, pp. 127-128. |
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↩2 | Come espliciterò nel § 2. 1, utilizzo la nozione di ‘modo di produzione’ seguendo la formulazione e la rielaborazione di Federico Zappino, Sul modo di produzione eterosessuale, «Machina», DeriveApprodi, 2020. |
↩3 | Cfr. il §5 della sezione precedente. |
↩4 | Michel Foucault, La polvere e la nuvola (1980), in Id., Poteri e strategie (1994), a cura di Pierre Dalla Vigna, Mimesis, 2014, p. 97. |
↩5 | Cfr. Maurice Daumas, Des trésors d’amitié: De la Renaissance aux Lumières, Armand Colin, 2011, p. 458, trad. mia. |
↩6 | Tahar Ben Jelloun, L’amicizia e l’ombra del tradimento (2003), trad. it. di Egi Volterrani, La nave di Teseo, 2019, p. 44; p. 53. Questo testo, come molti fra quelli citati di seguito, rappresenta, più che uno studio sociologico, un vero e proprio elogio delle amicizie comuni, in termini morali, letterari e biografici. Per questo motivo costituisce una fonte privilegiata dell’analisi in corso. |
↩7 | Citato in ivi, p. 32. |
↩8 | Ivi, p. 3; p. 49. |
↩9 | Clive S. Lewis, I quattro amori: affetto, amicizia, eros, carità (1960), Jaca Book, 2001, p. 135. |
↩10 | Joseph Epstein, Amicizia (2006), trad. it. di Giuliana Ravviso, Il Mulino, 2009, p. 85. |
↩11 | Ivi, p. 145, corsivo mio. |
↩12 | Pietro Del Soldà, Sulle ali degli amici: Una filosofia dell’incontro, Marsilio, 2020, cit., pp. 12-13. |
↩13 | Maurice Daumas, Des trésors d’amitié, cit., p. 145, trad. mia. |
↩14 | Svilupperemo questo punto ampiamente nei §§ 2. 3 e 3. 1 della presente sezione. |
↩15 | Joseph Epstein, Amicizia, cit., p. 9. |
↩16 | Franco La Cecla, Essere amici, Einaudi, 2019, pp. 32-33. Notiamo a margine che questa distribuzione delle prerogative è altrettanto rilevabile nel contesto più ampio della famiglia: «Se l’amicizia […] implica occupare del tempo ad aiutare gli amici, si dà per scontato che questo non debba influire troppo profondamente sul tempo […] occupato dalla famiglia. Anche quando i figli non sono più a casa, i diritti dell’amicizia restano, nel migliore dei casi, secondari rispetto a quelli della famiglia. […] Oggi chiunque suggerisse che i diritti dell’amicizia debbano avere la precedenza o competere allo stesso livello con quelli di un marito o di una moglie o dei figli sarebbe considerato pazzo». Joseph Epstein, Amicizia, cit., p. 85; p. 234. |
↩17 | Franco La Cecla, Essere amici, cit., p. 33. |
↩18 | Espressioni di questo tipo sono presenti in molte lingue. Mi è stato possibile accertarmene per quanto riguarda l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo, il portoghese, il turco e l’arabo. |
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