Corpi, parole, immagini (di sé, di altre donne), mezzi e strumenti per dare visibilità ai primi, un altro senso alle seconde, ripensare le terze. Lo hanno fatto le donne coi movimenti delle donne animando una rivolta chiamata «femminismo». Le hanno fatto anche le artiste della mostra «L’altra misura: arte e femminismo negli anni Settanta». Tra le pratiche dei femminismi e le pratiche artistiche obiettivi comuni e percorsi intrecciati: costruirsi dei corpi votati ad altro che al dominio.
Lavorare insieme e per sé
Dal collettivo all'individuo nell’arte delle donne tra gli anni Settanta e oggi
Gli anni Settanta hanno rappresentato un momento formidabile dal punto di vista dell’autocoscienza della condizione della donna e delle sue possibilità di riscatto nella società civile e intellettuale. Nel mondo della cultura si è sentito il bisogno da parte delle donne di favorire progetti condivisi, partecipati, abbracciando quindi la pratica del collettivo, già molto diffuso nell’arte «al maschile» degli anni Settanta, come un bisogno di estrinsecazione del senso di appartenenza a una parte significativa della società. Anche se, di contro, questo associazionismo, quando solo femminile, ha talvolta portato molte artiste a interrogarsi sul rischio di identificare il proprio lavoro con una categoria troppo connotata con il genere.
Nonostante la situazione italiana non abbia avuto nel mondo dell’arte una presa di posizione femminista come quella decisamente schierata americana, indubbiamente però non poteva non avere, talvolta in modo non del tutto diretto, un coinvolgimento con quanto stava avvenendo a livello sociale. Il mondo della cultura ha favorito e incentivato questo fenomeno, ad esempio attraverso l’attività editoriale, come è testimoniato a Milano dall’impegno svolto da Gabriele Mazzotta che nel corso del decennio ha promosso una serie di importanti pubblicazioni collettive di stampo femminista1, a partire, nel marzo 1977, da La coscienza di sfruttata, libro manifesto del movimento femminista italiano scritto da un gruppo di donne2 impegnate per i diritti civili come Luisa Abbà, che insieme a Lia Cingarini nel 1975 a Milano ha fondato la Libreria delle donne.
Ed è proprio un lavoro artistico collettivo, una cartella di grafiche che ha riunito alcune protagoniste dell’arte, non necessariamente femministe – Carla Accardi, Mirella Bentivoglio, Valentina Berardinone, Tomaso Binga, Nilde Carabba, Dadamaino, Amalia Del Ponte, Grazia Varisco e Nanda Vigo – a finanziare l’apertura della libreria. «A noi è sembrato, realizzando questo lavoro, che fosse un passo per assumere in prima persona il nostro essere artista-donna e iniziare in qualche modo un nostro processo di identificazione e di riconoscimento» si legge nel testo introduttivo alla cartella, che era accompagnata da una riflessione critica di Lea Vergine.
Di questi anni è inoltre, sempre per Mazzotta, il libro fotografico di Paola Mattioli Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, che costituisce un felice esempio di una collaborazione artistica collettiva al femminile che a Milano ha avuto un altro luogo di aggregazione milanese nella Galleria di Porta Ticinese. Il piccolo spazio di Gigliola Rovasino, situato nel cuore dei navigli è stato fin dal 1973 un luogo aperto agli artisti più coinvolti sul versante dell’arte dell’impegno politico, della lotta di classe e più in generale dell’azione sociale.
Qui Gabriele Amadori, Narciso Bonomi, Mario Borgese, Corrado Costa, Roberto Lenassini, Cosimo Ricatto, Giovanni Rubino fondano il Collettivo Autonomo Pittori di Porta Ticinese, a cui prese parte anche Roberto Sommariva e Gabriele Albanesi. L’idea che animava questi artisti e l’attività stessa della galleria era quella di gestire autonomamente uno spazio espositivo autofinanziato per un’arte al servizio della comunità realizzando progetti in stretto rapporto con la lotta di classe e con le problematiche più urgenti della contemporaneità e del sociale. Non a caso il principale progetto realizzato nello spazio è stato la Mostra Incessante per il Cile 3, un’esposizione che ebbe la durata di quasi quattro anni, dall’ottobre 1973 al maggio 1977, durante la quale, attraverso organizzazione di eventi, anche in collaborazione con i comitati di quartiere o con le fabbriche, gli artisti si fecero promotori di un’azione di sostegno politico per il Paese oppresso dalla dittatura.
Le donne sentivano la necessità di rivendicare la loro presenza anche nel mondo dell’arte, di ribadire uno specifico femminile nella realizzazione di opere, attraverso la valorizzazione di quelle poche protagoniste femminili della storia dell’arte
L’esperienza del Collettivo Autonomo Pittori di Porta Ticinese in seno alla galleria vide quale corrispettivo in ambito femminista quella dal gruppo femminista Le Pezze promotrice nel 1976 di una simbolica mostra intitolata L’armadio. Forse la prima mostra «femminista di cui si ha notizia in Italia» 4. In un vecchio armadio, proprio come i loro sogni, le artiste avevano riposto, appunto, alcune pezze. Ma l’episodio più impegnativo legato al lavoro collettivo, anche per l’ampio coinvolgimento delle artiste, è stata la mostra mezzocielo, che si tenne da maggio a ottobre del 1978 e coinvolse artiste e attiviste dei movimenti femministi sui temi e i linguaggi dell’arte legati alle istanze delle rivendicazioni sostenute da molte donne in quel periodo. All’inaugurazione nello spazio della galleria lunghi fogli da lucido, appoggiati alla pareti, elencavano i nomi di artiste dimenticate dalla storia. L’aspetto opalino dei fogli dava l’impressione che le scritte, come in un mausoleo, fossero impresse nel marmo.
Le donne sentivano la necessità di rivendicare la loro presenza anche nel mondo dell’arte, di ribadire uno specifico femminile nella realizzazione di opere, attraverso la valorizzazione di quelle poche protagoniste femminili della storia dell’arte come Sonia Delaunay, Frida Kahlo, Meret Oppenheim, Florence Henri, sottolineandone, tra l’altro, la vicinanza, in qualità di mogli o compagne, ai maggiori artisti del tempo. Durante il periodo della mostra la galleria divenne un luogo di incontro e di attivazione di laboratori di discussione, di cui è rimasta qualche rara testimonianza documentaria, sull’esempio dei circoli di autocoscienza attuati dalle femministe. In una piena condivisione di ideali e obiettivi artistici, ma anche di contenuti sociali, le artiste hanno realizzato una serie di opere in comune scambiandosi i ruoli e riflettendo l’una dentro il linguaggio dell’altra.
Le riunioni settimanali a carattere interlocutorio e riflessivo sono confluite in alcune mostre a carattere tematico: Le Barriere che vide coinvolte Clemen Parrocchetti e Maria Grazia Sironi; Il trasparente sull’idea di smaterializzazione e dell’inconscio con Fernanda Fedi, Giuliana Consilvio e Giovanna Pagliarani; 4 Donne realizzata da Gabriella Benedini, Lucia Pescator, Lucia Sterlocchi, Marcella Campagnano e Elisabeth Scherffig sul concetto di identità; Biancaneve di Maria Teresa Meneghini e Valeria Castellucci sulla metafora della favola per le bambine; Cinque sagome diverse dentro una gabbia rossa… con Silvia Cibaldi, Maria Teresa Fata, Nicoletta Frigerio, Livia Lucchini, Lina Salvo. Nella mostra parteciparoano, a livello individuale, anche le artiste del Gruppo Metamorfosi, formatosi l’anno precedente la mostra, nel 1977 e attivo fino al 1986, che comprendeva, oltre a Benedini, Pescador, anche Lucia Sterlocchi e Alessandra Bonelli, tutte artiste accomunate da un’indagine poetica e allo stesso tempo parascientifica sulla realtà naturale e sui meccanismi che regolano l’esistenza.
Ciò che appare evidente è la rivendicazione di un’originalità rispetto all’arte degli uomini, ma allo stesso tempo anche una distinzione rispetto a una generica etichettatura di «arte femminile» o «arte femminista»
Ciò che appare evidente a chi si occupa di recuperare la memoria storica dell’arte delle donne di quegli anni in Italia è la rivendicazione di un’originalità rispetto all’arte degli uomini, ma allo stesso tempo anche una distinzione rispetto a una generica etichettatura di «arte femminile» o «arte femminista». Come Griselda Pollock e Roziska Parker hanno sostenuto in Old Mistresses: Women, Art and Ideology (1981) la storia dell’arte femminista si deve basare innazitutto su un presupposto: il recupero storico delle donne artiste, oggetto per tanti anni di oblio da parte di una critica sostanzialmente maschile. Tale recupero storico, tuttavia, non è sufficiente. È necessario individuare l’originalità del lavoro delle donne attraverso una struttura teorica che tenga presente non tanto una presunta «femminilità» del loro lavoro – aspetto del resto che molte artiste fin dagli anni Settanta hanno decisamente ricusato – quanto la cultura comune che è stata alla base delle opere delle donne. Ciò è evidente nel periodo storico delle avanguardie, momento in cui le donne hanno cominciato ad affermare la propria originalità artistica. È indubbio che «dobbiamo riconoscere quello che è il risultato non della natura, ma della cultura, vale a dire dei sistemi sociali storicamente diversi che producono differenziazione sociale».
La Pollock in un saggio sull’arte modernista5 spiega bene come le categorie socialmente costruite della differenza sessuale hanno strutturato le vite di due artiste come Mary Cassatt e Berthe Morisot. Ciò è evidente prendendo in considerazione gli «spazi di genere» che affiorano inevitabilmente nei loro lavori. «Quello che segnano le balaustre della Morisot [nell’opera Sul balcone (1872) da dove le donne si affacciano] non è il confine tra pubblico e privato, ma quello tra gli spazi del maschile e del femminile, un confine cioè che stabilisce quali spazi siano aperti agli uomini e alle donne e quale relazione un uomo una donna abbia con quello spazio e con lo occupa»6. I soggetti dei dipinti impressionisti realizzati da uomini sono decisamente diversi da quelli delle donne: la sfera pubblica, definita come mondo del lavoro produttivo, della decisione politica, del governo, dell’educazione, della legge e del servizio pubblico, era appannaggio degli uomini, mentre la sfera privata era quella della casa, delle mogli, dei bambini. La donna era definita da questo spazio, non sociale, del sentimento e del dovere, dal quale erano banditi il denaro e il potere.
Questa caratterizzazione del sociale che è possibile evidenziare nelle opere delle donne dell’avanguardia rispetto alle opere dei loro colleghi maschi è ancor più evidente nei lavori degli anni Sessanta e Settanta
Questa caratterizzazione del sociale che è possibile evidenziare nelle opere delle donne dell’avanguardia rispetto alle opere dei loro colleghi maschi è a mio parere ancor più evidente nei lavori degli anni Sessanta e Settanta. Anche in questo caso, quindi in una revisione storica, oltre al recupero dei fatti, è necessario prendere in considerazione il contesto sociale in cui le artiste vivevano. Venendo appunto agli anni Sessanta e Settanta, opere come Wolswagen di Emilio Isgrò o i «Fotoromanzi» di Nicole Gravier confermano quanto sostenuto dalla Pollock a proposito del rapporto immagine-ruolo sociale femminile. I «contesti» e pertanto gli ideali cui tendono uomini e donne nel contesto sociale del periodo sono profondamente diversi: il punto di vista da cui essi osservano il mondo portano inevitabilmente a lavori artstici connotati da linguaggi che hanno sfumature diverse.
Da lavoro collettivo e sociale a lavoro individuale
Il problema della visibilità della donna nell’arte, a partire dagli anni Ottanta, sembra essere superato. L’attuale panorama del sistema dell’arte (gallerie, musei, eventi espositivi) offre estrema libertà di partecipazione e visibilità al mondo artistico femminile. Di conseguenza anche l’approccio all’arte da parte delle donne è cambiato: non dovendo dimostrare o rivendicare una posizione, esse possono esprimere più liberamente un piano di azione sperimentale e di ricerca. Ciò non significa che è andato perduto uno specifico femminile, ma che proprio lo stimolo alla ricerca e all’uso di nuovi mezzi – video e fotografia soprattutto, che sono stati i più praticati dalle donne negli anni Settanta – ha messo meglio in luce proprio le differenze.
Il raggiungimento di quella che negli anni Settanta si rivendicava pubblicamente come «uguaglianza» – sia sul piano della teoria sia, appunto, attraverso forme d’arte estremamente politicizzate e sociali – non ha portato all’appiattimento, ma alla valorizzazione di quegli aspetti, spesso legati all’intimità, che sono propri dell’universo femminile. Questo concetto è stato ribadito anche nel corso di un convegno organizzato nel 1996 dal Castello di Rivoli, al quale partecipavano diverse esponenti della cultura italiana. Nell’introduzione agli atti, Francesca Pasini scrive, appunto, che «oggi non si tratta di definire le caratteristiche di un’arte al femminile: le donne scrivono, creano, pensano, lavorano, producono». Il convegno intese porre l’attenzione piuttosto sul nesso tra «creazione dell’opera e creazione dell’identità».
In concomitanza con una generale tendenza all’autoriflessione nell’arte, corrispondente agli anni immediatamente seguenti le battaglie degli anni Settanta, le donne rinnovano l’interesse per le microstorie, il quotidiano, la dimensione privata e intima. I temi dell’identità e della sessualità vengono affrontati in modo più ludico e intimistico. Sono questi i temi verso i quali si è preferibilmente indirizzata l’arte femminile negli ultimi tre decenni, nei quali l’assenza di tendenze artistiche definite corrisponde a una richiesta di pluralismo, di temi e di tecniche artistiche. Il recupero, tra l’altro, di forme espressive e modalità tradizionali dell’arte – la pittura o la scultura, l’immagine – viene rinnovato attraverso la contaminazione con il video o le più sofistiche tecniche di riproduzione e stampa fotografica, anche laddove si vorrebbe nascondere il dato tecnico.
La questione femminile, invece, «espatria» verso quelle culture dove la religione o lo Stato continuano a reprimere la libertà delle donne. Indubbiamente significativo in questo senso è il lavoro di Shirin Neshat, che, dagli Stati Uniti, dove vive, continua a denunciare, nei suoi video dal grande valore estetico ed emotivo, la condizione delle donne iraniane. Allo stesso tempo, però, un lavoro come quello di Vanessa Beecroft sottolinea come la mancanza di libertà per la donna oggi possa derivare, non più solo da costrizioni esterne, ma anche da condizionamenti psicologici causati dalla società. Le sue modelle seminude, magrissime, utilizzate all’interno di performance e fotografate, denunciano uno dei mali della società occidentale, quello che impone alle giovani donne modelli di bellezza da rivista di moda, e che può portare a gravi disturbi psicologici come l’anoressia.
Nel caso di lavori che innescano una relazione diretta tra pubblico e privato, differentemente dalle dichiarazioni artistiche delle donne degli anni Settanta, si predilige un rapporto più intimo e sottilmente psicologico, di natura relazionale. Gillian Wearing, ad esempio, nella serie Sign that say what you want them to say and not signs that say what someone else wants you to say, ha chiesto alla gente per le strade di Londra di scrivere i propri pensieri e poi lasciarsi ritrarre. Mentre Sandrine Nicoletta, in un video, ha ripreso dall’alto il flusso dei passanti in piazza San Petronio a Bologna, registrandone le reazioni di fronte ad attori che si bloccavano in posizioni ginniche. Lontani da ogni riferimento diretto alla questione femminile, eppure basati su una particolare sensibilità, sono anche i lavori di Sarah Ciracì, sul versate visionario, e di Zilla Leutenegger e Ottonella Mocellin, su quello del racconto personale.
Ma concluderei con un commento sul lavoro di Monica Bonvicini, il cui intervento alla 56° Biennale (Latent Combustion, 2015) rilevano l’aspetto psicanalitico di una donna finalmente liberata che critica divertita i simboli del potere maschile. Si può quindi parlare oggi di arte femminile? Sì, soprattutto nel senso di un approccio intimistico, anche se connotato da una forte carica eversiva, e quindi sostanzialmente individuale, nei confronti dell’opera d’arte.
Note
↩1 | Tra le varie pubblicazioni si ricordano: Che cos’è un marito visto dalla donna con le testimonianze di Natalia Aspesi, Nives Canestrini, Maria Rosa Cutrufelli, Maria Valeria Della Mea, Elena Ercolani, Angela Grotti, Maria Iazzurlo, Joice Lussu, Marusca Modesti sulla loro vita coniugale. Nel 1977 seguono L’invenzione della donna. Miti e tecniche di uno sfruttamento, di Maria Rosa Cutrufelli, un saggio che ripercorre la storia della condizione femminile dall’Ottocento alla contemporaneità attingendo da eventi storici, fumetto, letteratura e cinema, e Donna, cultura e tradizione, un libro basato sul convegno sulla donna tenutosi ad Assisi nel 1975, a cura di Pia Bruzzichelli e Maria Luisa Algini, con i contributi di Dacia Maraini, Roberta Fossati, Immacolata Mazzonis, Carla Ravaioli, Elena Gianini Belotti, Adriana Zarri e Io canto la differenza. Canzoni di donne e sulle donne, una raccolta di testi musicali e canzoni incentrate sulla condizione femminile, a cura di Maria Grazia Caldirola. Mazzotta si dedica anche al libro d’artista pubblicando nel 1978 un libro fotografico di Carla Cerati dedicato allo studio del nudo femminile dal titolo Forma di donna. |
---|---|
↩2 | Ci sono anche testi di Gabriella Ferri, Giorgio Lazzaretto, Elena Medi, Silvia Motta. |
↩3 | Cfr. Mostra Incessante per il Cile, catalogo mostra, Rotonda di Via Besana, Milano, 1-15 Maggio, 1977. |
↩4 | Cfr. C. Iaquinta, Dalla ‘casba’ alla città. Una cartografia di Milano negli anni Settanta tra impegno politico e autodeterminazione artistica, in Milano 1945-1980. Mappa e volto di una città. Per una geostoria dell’arte, a cura di E. Di Raddo, Franco Angeli, Milano 2015, p. 132. |
↩5 | G. Pollock, Modernità e spazi del femminile, in Arte a parte. Donne artiste fra margini e centro, a cura di M. Antonietta Trasforini, Franco Angeli, Milano 1994, p. 17. |
↩6 | Ivi, p. 23. |
condividi