Il femminismo e le sfide del neoliberismo

Etica della cura e riproduzione sociale

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Libera Mazzolenti, Luca, II – 49, 1977, fotografia con intervento tipografico e grafico, cm 30x40,5

Pubblichiamo un estratto da Brunella Casalini, Il femminismo e le sfide del neoliberismo. Postfemminismo, sessismo, politiche della cura (IF press, 2018)

Se è vero che le parole utilizzate per descrivere la vita sociale sono anche forze attive in grado di plasmarla, optare per il lessico della cura o per quello neoliberale del rischio non è indifferente per il tipo di società che vogliamo creare. I bisogni, la possibilità della loro espressione e il loro soddisfacimento, nell’etica femminista della cura continuano ad essere al cuore della visione della cittadinanza e del richiamo alla responsabilità sociale. I nuovi rischi e la responsabilità individuale, invece, sono al centro della visione neoliberale, che si configura come una società della prevenzione e del controllo, oltre che dell’attivazione in vista dell’inclusione nel mercato del lavoro. Pensare la cura come diritto sociale e quindi come responsabilità collettiva pone l’etica della cura in contrapposizione rispetto alla visione dello stato investitore, attivatore e abilitante e alla sua insistenza sulla responsabilità individuale. Opposta è, in effetti, la loro lettura della dipendenza, dei bisogni e, quindi, della cittadinanza sociale.

Per l’etica della cura, la dipendenza dal welfare non costituisce un problema. Tutti siamo costitutivamente dipendenti simultaneamente nei confronti dello stato, nei confronti del mercato e nei confronti del sostegno che può derivare da persone amiche o familiari. E se non possiamo sfuggire alla dipendenza è perché essa è costitutiva del nostro essere umani. Come scrive Judith Butler ne L’alleanza dei corpi, la dipendenza, in senso proprio, definisce ontologicamente il corpo umano: «Nonostante i secoli di proclami a proposito dell’Homo erectus, l’umano non sta in piedi da solo». Ciò significa che il corpo necessita ontologicamente di una rete di supporto, costituita da infrastrutture materiali, istituzionali, e da reti di relazioni. La dipendenza è una dimensione inaggirabile: tutti dipendiamo da tutti, per vivere e persistere, anche quando non ce ne rendiamo conto, o vogliamo negarlo. È a questo che Butler si riferisce quando parla di interdipendenza. E il sintomo più eloquente della sua inaggirabilità è forse proprio il discredito culturale e sociale che pende su di essa, i cui effetti sono tangibili in termini di distribuzione differenziale della vulnerabilità, della precarietà, e dunque in termini di diseguaglianza. Come ha scritto Federico Zappino, è «proprio l’espunzione dell’interdipendenza a far sì che la precarietà possa essere indotta, sfruttata e manipolata in modi differenziali nei processi di produzione e di naturalizzazione delle diseguaglianze economiche e sociali». Basti pensare al fatto che la dipendenza dal mercato o dal privato per la fornitura di cura riproduce puntualmente diseguaglianze di genere, di classe e di razza, dal momento che le badanti, le tate, le colf sono nella quasi totalità dei casi donne, innanzitutto, e poi donne povere e/o razzializzate; dal momento che i loro contratti di lavoro, là dove stipulati, difficilmente le condurranno fuori dalla precarietà, o dalla povertà; e dal momento che difficilmente chi ha un reddito basso, o chi non ce l’ha proprio, potrà avvalersi del loro lavoro di cura. Il mercato della cura poggia dunque su una fitta trama di relazioni di diseguaglianza, le naturalizza, e le riproduce attivamente.

In questo senso, ha ragione Joan Tronto quando afferma che c’è un rapporto stretto tra la crisi della cura o il care deficit e la crisi della democrazia delle società contemporanee. C’è d’altra parte un rapporto stretto tra la risposta che è stata trovata alla crisi della cura, ovvero il ricorso al lavoro femminile migrante, e la crescita delle diseguaglianze sulla scala globale. Diseguaglianze che non sono solo il frutto dei giochi economici spontanei della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro, ma risultano per lo più facilitate dalla complicità dello stato (o meglio degli stati, includendo sending oltre che receiving countries), che ne favorisce l’emersione sia mediante il modo in cui disegna i regimi migratori sia mediante la scelta di determinate politiche sociali. E che, nel complesso, hanno come effetto una nuova invisibilizzazione dei costi della riproduzione sociale nell’ambito di una politica economica globale di cui la mercificazione e la transnazionalizzazione della cura all’interno dei cosiddetti «circuiti della sopravvivenza» sono tratti sempre più distintivi, insieme alla distruzione delle risorse e degli ecosistemi locali nelle regioni più povere del mondo.

Nella misura in cui l’etica politica della cura si sposta dal livello micro dell’esperienza quotidiana del lavoro di cura in famiglia o nelle istituzioni, al livello intermedio del contesto nazionale, per arrivare al livello macro della politica economica globale della cura, tanto più si avvicina alle domande cui da tempo cerca di rispondere un altro importante paradigma femminista: quello della riproduzione sociale. Un paradigma che la crisi economica del 2008 ha contribuito a diffondere nel dibattito internazionale grazie alla ripresa di una riflessione avente ad oggetto i limiti del capitalismo e la misura delle disuguaglianze economiche e sociali inaccettabili in un mondo in cui cresce il dato della precarietà sociale.

Diversamente dall’etica della cura, il paradigma della riproduzione sociale affonda le sue radici nel dibattito che tra gli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta ha infiammato il femminismo marxista e materialista circa i rapporti tra capitalismo e patriarcato. Un dibattito che matura dall’esigenza di colmare le lacune del pensiero di Marx in una prospettiva di genere. Per Marx, infatti, il lavoro che produce valore è solo il lavoro che produce merci. Marx è cieco verso l’importanza del lavoro di riproduzione svolto dalle donne e parla della riproduzione come una realtà naturale biologica, astorica, non consapevole e non come ad una attività sociale; e tutto ciò sembra remare contro la critica che nelle sue stesse opere troviamo a proposito della separazione tra natura e storia1. La sua mancata attenzione al tema si deve in parte a ragioni storiche e in parte a ragioni teoriche. Le condizioni storiche della classe operaia al tempo di Marx, quando spesso anche le donne e i bambini lavoravano in fabbrica con interminabili orari di lavoro, probabilmente contribuirono a fargli ritenere che, pur essendo «la conservazione e la riproduzione costante della classe operaia […] condizione costante della riproduzione del capitale», il capitalista si può tranquillamente affidare all’istinto di conservazione e di procreazione degli operai. Solo alla fine del XIX secolo, con l’avvento della fabbrica fordista come osserva Silvia Federici –, il lavoro domestico emergerà come motore della riproduzione della forza lavoro industriale in concomitanza con un cambiamento nella forma di accumulazione (col passaggio dal «plusvalore assoluto» al «plusvalore relativo»).

Ma a portare Marx a sottovalutare il lavoro di riproduzione sociale delle donne, d’altra parte, era anche la grande fiducia in una concezione tecnicista della rivoluzione, che assegnava un ruolo cruciale alla macchina nell’emancipazione dell’uomo. Un ruolo che le tecnologie difficilmente potranno mai arrivare ad avere nella sostituzione del lavoro di cura, sebbene molti lavorino oggi sulle loro potenzialità, per esempio, nel long-term care. Questo errore (nonostante il suo approccio si avvicini, molto più di altri approcci filosofici, alla comprensione dell’interdipendenza umana e all’importanza del soddisfacimento quotidiano di bisogni fondamentali) non avrebbe consentito a Marx di comprendere pienamente l’estensione delle forme di sfruttamento del lavoro operate dal sistema capitalista e la misura in cui il lavoro domestico non pagato o poco remunerato costituisca una forma di accumulazione originaria che consente alla società di evadere i costi della riproduzione sociale. Il femminismo marxista degli anni Settanta, d’altra parte, rilegge Marx anche con gli occhi della critica che al marxismo avevano rivolto i movimenti anticoloniali, ed è quindi sensibile anche verso il ruolo di soggetti “altri” rispetto alla classe: non solo le donne, ma anche le etnie minoritarie, o i movimenti rurali e indigeni.

Se negli anni Settanta il dibattito era incentrato sulla questione del lavoro domestico e del suo riconoscimento, nel femminismo contemporaneo esso si amplia fino a includere il terreno della riproduzione sociale, intesa come l’insieme delle attività necessarie a sostenere e riprodurre la vita su un piano quotidiano, a livello intergenerazionale e nel lungo periodo. Prendere in considerazione la prospettiva della riproduzione sociale significa oggi guardare a tre problemi principali: 1) alla riproduzione della specie, ossia al modo in cui mutano le scelte di mettere o non mettere al mondo bambini e quali strade seguire per farlo, nonché al problema strettamente connesso della costruzione sociale della maternità; 2) alla riproduzione della forza-lavoro, ossia al modo in cui si risolve socialmente il problema del sostentamento, della formazione e della socializzazione dei lavoratori; 3) alla riproduzione dei legami comunitari e sociali e al modo in cui si provvede al soddisfacimento dei bisogni di cura della popolazione. L’attenzione a queste tre sfere della vita è vista sempre in relazione alle trasformazioni che attraversa il sistema produttivo, come sfondo necessario per il suo funzionamento, ciò da cui il capitalismo dipende per la sua sostenibilità quotidiana, ma verso cui mostra totale irresponsabilità.

Il focus sui tre livelli di analisi sopra menzionati consente di mettere in luce i significativi cambiamenti che hanno toccato storicamente le forme della riproduzione sociale a livello micro, meso e macro-sociale, di far emergere l’inesistenza di un fondamento naturale e biologico dell’attuale divisione del lavoro, la determinazione storica, culturale ed economica delle attività che sostengono la vita; e, non ultimo, il loro carattere necessario al fine del funzionamento del sistema economico e, in particolare, del processo di accumulazione capitalista. Con questa lente interpretativa è possibile cogliere, per esempio, il fondamentale mutamento intervenuto nel rapporto tra pubblico e privato con il passaggio dal sistema fordista al sistema post-fordista; la relazione tra le forme della riproduzione sociale e le forme della soggettività; e il nesso tra crisi della riproduzione sociale e crisi ecologica globale. La ri-privatizzazione della riproduzione sociale prodotta dalle politiche neoliberali in epoca post-fordista con l’obiettivo di abbassarne i costi ha, infatti, quattro volti principali: il ritorno della riproduzione sociale nella sfera alla quale si ritiene appartenga per natura, la sfera domestica, ma nei modi di una ri-familiarizzazione o di una neo-domesticità attraverso la mercificazione del lavoro domestico nelle sue diverse forme (si pensi non solo alla diffusione dei lavori di cura, ma anche, per fare solo qualche esempio, alla diffusione di mestieri come quello del dog-sitter e cat-sitter, o ancora all’abitudine sempre più diffusa di acquistare cibo già pronto); la trasformazione della società in un insieme di individui e famiglie che agiscono come cittadini-consumatori, e quindi il progressivo allontanamento dall’idea di società come entità collettiva; il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale mediante il ritorno a processi di accumulazione primitiva, o di accumulazione per spossessamento – come preferisce definirli David Harvey –, che costituiscono un vero e proprio attacco alle forniture sociali, con il conseguente allontanamento dall’auto-sufficienza locale, dall’agricoltura sostenibile e dalla sicurezza alimentare, specialmente nei paesi più poveri.

Se assumiamo il capitalismo come una totalità, appare chiaro come la riproduzione del sistema capitalista abbia a che fare non solo con le attività produttive e di scambio, e le forme che storicamente esse assumono, ma anche con le modalità in cui la società organizza la propria riproduzione sociale, e quindi con il modo in cui costruisce la maternità, il lavoro di cura, i curricula scolastici ai più diversi livelli, o include come legittime certe forme di vita familiare a scapito di altre, e molto altro. Considerando che la riproduzione sociale si riferisce alla riproduzione della specie, alla continua riproduzione della forza lavoro e alle condizioni ambientali di creazione e mantenimento della vita individuale e collettiva, di quartieri, comunità e stati, si può dire ci sia stata negli ultimi decenni in questo ambito una totale rivoluzione che ha portato tra le altre cose anche a una riscrittura del «contratto sessuale» all’interno di una nuova divisione sessuale del lavoro riproduttivo su scala globale e di una cittadinanza fortemente stratificata a livello nazionale.

[…]

Gli effetti che l’attuale fase evolutiva del capitalismo sta producendo in termini di aumento delle diseguaglianze, cambiamento climatico, esaurimento delle risorse, crescente livello di tossicità ambientale, incluso quello dell’acqua e del cibo, con il seguente incremento dell’insicurezza alimentare, mostrano quali profonde contraddizioni e quale crisi stia emergendo nell’ambito del dominio della riproduzione sociale, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione, sia a livello locale sia globale. In una caring society, per dirla con Tronto, o in una cuidadanía, per usare invece il felice gioco di parole inventato dal collettivo femminista spagnolo Precarias a la deriva, le infrastrutture di sostegno alla vita devono essere sottratte alla mercificazione e consegnate all’interdipendenza sociale: questo è il prerequisito per condizioni di vita sostenibili. La cura non è una merce come le altre e sussistono ottime ragioni per evitare che la sua distribuzione sia lasciata al mercato. Nell’orizzonte neoliberale nel quale stiamo vivendo, la mercificazione della cura fondata sulla naturalizzazione delle diseguaglianze e dello sfruttamento ha portato all’impoverimento delle persone sul piano delle risorse relazionali ed economiche, alla loro disperazione e solitudine, all’incertezza dell’assistenza, e a situazioni lavorative inaccettabili dal punto di vista dei diritti di coloro che operano nel mercato del lavoro di cura. Una caring society, o una cuidadanía, dovrebbero opporre resistenza a questi processi di precarizzazione e creare nuove forme di vita fondate sull’interdipendenza e la vulnerabilità.

Note

Note
1Cfr., per esempio, K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 16 (ed. or. 1845). Qui Marx ed Engels criticano quanti presuppongano un’antitesi tra storia e natura, e parlano piuttosto di un uomo che si trova sempre di fronte a una «storia naturale» e a una «natura storica».

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