Nicchie e comunità imperfette

Il paradosso antropologico

fiamma montezemolo,Neon Afterwords_1, 2016, courtesy Kadist
Fiamma Montezemolo, Neon Afterwords, 2016 - Courtesy Kadist

È appena arrivata in libreria la nuova edizione de Il paradosso antropologico di Massimo De Carolis (Quodlibet, 2018). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto della Premessa alla seconda edizione.

Il paradosso antropologico è un tentativo di riflettere sul rapporto fra lo scenario politico contemporaneo e quella che, con un po’ di enfasi, si può definire la natura umana. Mi riferisco, con questa espressione, all’insieme di istanze, bisogni e desideri genericamente umani, che abbiamo motivo di leggere come altrettanti indizi, sintomi o riflessi di una costituzione condivisa da tutti i membri della nostra specie, per quanto le loro concrete manifestazioni non possano che emergere, di volta in volta, all’interno di un percorso di vita specifico e particolare. Isolare, in ciascun caso concreto, il momento genericamente umano, distinguendolo dalle sue declinazioni contingenti, è di sicuro un’impresa azzardata, gravata dal rischio di errore e di illusione soggettiva.

Non sembra però un esercizio dal quale ci si possa esimere, visto che non c’è mai stata, in pratica, cultura umana che non abbia progettato le proprie particolari forme di vita sulla base di una qualche immagine, attendibile o meno, dell’esistenza umana in generale. La natura umana, per definizione, non cambia se non in modo impercettibile nel corso della storia. Può invece cambiare l’immagine della condizione umana su cui poggia la vita individuale e collettiva in un’epoca o un’altra. E cambiano sicuramente le istituzioni politiche e le forme di organizzazione sociale in cui le istanze genericamente umane sono tenute a esprimersi, per tradursi in forme di esistenza stabili e felici. Cambiamenti del genere possono aver luogo, a volte, in modo così rapido e profondo da costringerci a ripensare non solo le strategie esistenziali cui affidiamo la nostra vita, ma anche l’idea dell’umanità dell’uomo su cui basiamo tali strategie. L’ipotesi di fondo del Paradosso antropologico è che, qualche decennio, sia in corso per l’appunto un tale cambiamento radicale. E che l’insieme delle teorie sociali, politiche e filosofiche di cui disponiamo stenti tuttora a cogliere e a descrivere in modo esaustivo il mutamento in corso.

Per dare pienamente la misura del cambiamento in atto, può essere utile retrocedere per un istante fino a un classico del pensiero antico: il trattato di Aristotele sulla Politica, nelle cui battute di apertura la polis è presentata come una comunità perfetta1. Il che, ovviamente, non vuol dire affatto che la città-Stato sia priva di limiti o di difetti. Il senso è che si tratta di un’organizzazione collettiva in sé compiuta, che non rimanda ad altro e che «raggiunge, per così dire, il limite della perfetta autarchia (autosufficienza e auto-determinazione)». Di qui la deduzione, a prima vista sconcertante, che una comunità politica sia tale per natura2. Anche in questo caso occorre un minimo di cautela interpretativa per non fraintendere il testo. La polis non è infatti di sicuro un dato «naturale», diffuso e antico quanto l’uomo. In diversi altri passi, anzi, Aristotele fa chiaramente capire che una comunità perfetta, a suo giudizio, è un frutto tardivo e decisamente raro dell’evoluzione storica.

L’organizzazione autarchica della polis ha però un rapporto ideale con la natura umana, dal momento che «l’uomo è animale politico ed è portato per natura alla condivisione della vita» (1169b 18). E alla tendenza genericamente umana a una vita felice e condivisa, solo una comunità politica perfetta – autonoma fino al limite dell’autarchia – può offrire una risposta davvero soddisfacente. La vita sociale, in effetti, è costellata di forme parziali e imperfette di condivisione e, nelle sue meditazioni sull’amicizia, Aristotele ne sottolinea la variegata eterogeneità: c’è, volta per volta, una condivisione tra coniugi, tra genitori e figli, tra membri dello stesso clan come pure tra commilitoni o persino tra semplici compagni di viaggio. Ciascuna forma parziale e relativa di comunità ha un suo modo specifico di unire, di rendere «amici» e di offrire, così, protezione e rifugio. Nessuna però di simili comunità imperfette può dare adeguata espressione alla «natura politica» della nostra specie, per il semplice motivo che a essere condiviso, in ciascun caso, è questo o quello – un interesse, una finalità specifica – e mai la vita come tale. L’azione politica vera e propria, invece, non si limita ad amministrare interessi e obiettivi comuni, ma istituisce un genere di condivisione molto più profondo e, soprattutto, molto più radicato nell’assoluta unicità della condizione umana. I cittadini di una polis sono infatti chiamati a rispondere insieme (nella prassi e non solo a parole) alla più basilare delle domande esistenziali: come intendiamo vivere? Su quali priorità e valori intendiamo costruire l’esistenza collettiva? Quale forma è, per noi, la forma vera di una vita adeguata all’umanità dell’uomo? Questioni del genere, evidentemente, non avrebbero senso per nessuna delle altre specie viventi, quale che sia il loro grado di socialità naturale. Del leone, dell’ape o del lupo esiste un’unica forma di vita, un solo bios, depositato fin da principio nel corredo istintuale di ciascun individuo. La sola specie umana sembra invece segnata da un grado di duttilità e di contingenza talmente alto da rendere quanto meno legittimo il dubbio che «per il falegname e il calzolaio vi siano un’opera e un’attività, per l’uomo invece nessuna» (Eth. Nic. I, 1097b). Nel nostro caso, insomma, la forma della vita è, almeno in parte, una questione aperta, un vuoto da colmare, che esige un genere di prassi collettiva del tutto speciale: quella che è in gioco, appunto, nella politica.

In Aristotele, e nel pensiero antico in generale, l’idea di una natura aperta e problematica della specie umana resta comunque appena un vago accenno. È solo nel mondo moderno che una simile intuizione antropologica acquista un peso filosofico e politico davvero decisivo. Il passo di Pico della Mirandola citato in esergo al primo capitolo del Paradosso antropologico mostra, ad esempio, con grande efficacia letteraria fino a che punto la concezione moderna della «dignità dell’uomo» poggi fin da principio sull’idea di una natura umana intimamente indefinita e duttile. Adamo è presentato come l’unico, tra i viventi, chiamato a disegnare da sé stesso la propria identità e a dare forma, in modo libero e creativo, alla propria vita e al proprio mondo. Qualche secolo dopo, Kant si richiamerà alla stessa concezione per aprire la strada al cosmopolitismo, ricordando che le azioni umane non si esauriscono nel semplice conseguimento di una qualche finalità più o meno utile, ma hanno il compito ben più profondo e sfuggente di «colmare il vuoto della creazione relativamente al loro scopo» (Kant 1784, A 393). E nell’antropologia filosofica tedesca del Novecento, infine, una simile concezione dell’umano si tradurrà in un programma di ricerca coerente e dettagliato.

Quanto più emerge in primo piano il carattere aperto e auto-poietico della natura umana, tanto più è logico che si radicalizzi anche l’indagine sulla comunità «ideale», capace di accollarsi nel modo più completo il compito di dare creativamente forma alla vita collettiva. È comprensibile perciò che, nella cultura moderna, si riproponga e si accentui la distinzione di rango tra la comunità perfetta (che vale ora come unico soggetto politico legittimo) e le forme parziali e imperfette di condivisione che possono proliferare al suo interno. La netta opposizione, in Hobbes e in altri autori, fra popolo e moltitudine, non solo ribadisce questa distinzione, ma circoscrive anche in modo più stretto l’idea di una comunità «perfetta», associando al criterio dell’autosufficienza, già previsto da Aristotele, quello dell’omogeneità. Il «popolo» è ora fonte di sovranità legittima solo se è in grado di parlare con una sola voce, agire come una persona sola e fondere le sue differenze interne in una identità unitaria, diametralmente opposta a una moltitudine eterogenea e plurale. La costruzione del popolo come prototipo di comunità «perfetta» diventa così, in epoca moderna, non solo l’operazione politica realmente decisiva, ma persino il presupposto basilare della civiltà nel senso più ampio del termine.

Logicamente, una tale fusione dei «molti» in un soggetto unitario sarà tanto più facile da realizzare quanto più avrà occasione di appoggiarsi a una rete di pre-condizioni, come la condivisione di una lingua, di una tradizione culturale o di una stirpe più o meno omogenea. Di qui il fatto che, in Europa, lo Stato nazionale sia rapidamente diventato il prototipo di una comunità «perfetta» nel senso moderno. È chiaro però che la «nazione» o il «popolo», nell’accezione moderna, non possono comunque mai risolversi in un semplice dato naturale, acquisito una volta per tutte. Autodeterminazione, unità e omogeneità sono il prodotto di un’azione di governo ostinata e continua, che implica rischi e conflitti, e che ha inevitabilmente un costo. E nel corso della tarda modernità, con l’aumento progressivo della complessità sociale, il costo è andato regolarmente crescendo3.

Un così lungo preambolo era necessario per misurare in tutta la sua profondità la frattura storica di cui siamo testimoni in questi anni. Date tali premesse, possiamo infatti definire ipermoderna un tipo di società in cui nessuna comunità perfetta sembra poter più prendere forma, se non a un costo talmente esorbitante da screditare fin da principio il progetto politico che dovesse propugnarne realmente (e non solo a parole) la necessità. Una società, quindi, in cui possono sussistere solo comunità imperfette, capaci spesso di offrire rifugio e protezione, e destinate talvolta ad accendere la fedeltà più profonda, ma segnate in ogni caso dalla dipendenza esterna e dalla eterogeneità interna. Un mondo di nicchie, insomma, più che di popoli e nazioni. È presumibile che un simile scenario costringa a ripensare da cima a fondo l’idea stessa di un ordine civile. Ma non è questo l’unico problema aperto. Se infatti, come lascia intendere Aristotele, a spingere verso una comunità perfetta è il desiderio di condividere la vita in quanto tale, che ne è più di un tale desiderio in una società ipermoderna? Come può esprimersi, in un mondo di nicchie, il bisogno genericamente umano di dare alla propria vita una forma compiuta? E di «colmare il vuoto della creazione» riguardo al senso della vita umana? Sono queste, in sostanza, le domande che il Paradosso antropologico si sforza di affrontare.

 

Carl Schmitt, Der Gegensatz von Parlamentarismus und moderner Massendemokratie, in Id., Positionen und Begriffe, Duncker u. Humblot, Berlin 1994 (3a ed.), pp. 60-74 (trad. it. in Posizioni e concetti, Giuffré, Milano 2007, pp. 83-104).

Note

Note
1Koinonia teleios polis (Pol, 1252b 28).
2Pasa polis physei estin (Pol, 1252b30).
3Tra i pensatori politici del Novecento, Carl Schmitt è stato quello che più di ogni altro ha insistito sulla necessità di mantenere salde, a ogni costo, la sovranità dello Stato e l’omogeneità del popolo. La sua adesione al nazismo può valere perciò come esempio probante di quanto, nel frattempo, fosse cresciuto il costo politico di un ordine che, per ammissione esplicita di Schmitt, esigeva «se occorre, l’esclusione o l’annientamento dell’eterogeneo» (Schmitt 1926, p. 94).

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