Fine della Belle Époque

L'Almanacco di Filosofia e Politica sull'Istituzione

Claire Fontaine, Brickbats (Taccuini di Guerra Incivile) 2007
Claire Fontaine, Brickbats (Taccuini di Guerra Incivile), 2007.

Pubblichiamo un’anticipazione dell’introduzione al secondo numero dell’Almanacco di Filosofia e Politica (Quodlibet, 2020). Questo secondo volume prosegue la ricerca inaugurata nel primo numero, cercando nella categoria di istituzione una via di uscita alla crisi del pensiero dell’immanenza. I contenuti sono organizzati in tre sezioni. La prima raccoglie i saggi di alcuni tra i più affermati pensatori contemporanei come Roberto Esposito, Massimo Recalcati, Paolo Napoli, Judith Revel, Miguel Vatter, Ubaldo Fadini e Nadia Urbinati. La seconda si compone invece degli interventi di studiosi più giovani che partecipano, durante l’anno, a un progetto di ricerca collettivo. La terza è infine formata da testi, inediti in italiano, di autori ormai classici – ma particolarmente rilevanti per il tema oggetto del volume –, quali Yan Thomas, Paul Ricœur e Cornelius Castoriadis. L’almanacco sarà presentato e discusso il 17-18 marzo alla Scuola Normale (Convegno su «Istituzione. Interpretazione, linguaggi, usi». Saranno presenti tra gli altri Elettra Stimilli, Dario Gentili e Gabriele Pedullà) e il 9 aprile Università di Firenze, presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con la partecipazione di Dimitri D’Andrea.

Oltre l’immanenza

Le trasformazioni intervenute nel corso dell’ultimo decennio interrogano in prima persona l’ambito della filosofia. Ciò che essa si trova di fronte, almeno in Europa, è un panorama sociale composto in prevalenza di individui isolati e privi di coordinate teoriche in grado di interpretare criticamente i processi che hanno condotto a questo esito. L’unica legge condivisa, dal senso comune come dall’insieme delle parti politico-culturali, sembra quella di un mercato competitivo che invita i singoli ad accentuare relazioni gerarchiche e concorrenziali.

Un nomos sempre più forte, e tuttavia sempre più contestato. In questo contesto – e per via di questo isolamento – l’idea che emancipazione significhi valorizzare la propria differenza specifica, salvaguardarne l’identità parziale e assecondarne la proliferazione illimitata, si presenta come largamente problematica. La filosofia, che per decenni ha scommesso sulla natura liberatoria di tali processi, all’acuirsi delle divaricazioni sociali del nostro tempo sembra così destinata a un ruolo progressivamente marginale, in mancanza, naturalmente, di una sua riforma. Si è conclusa, in effetti, la sua più recente belle époque. Una stagione, quella che dalle svolte della fine degli anni Settanta ha condotto alla crisi del 2008, in cui la filosofia ha in prevalenza fiancheggiato uno sviluppo produttivo che ha parcellizzato le nostre società fino agli esiti estremi, tribali, dell’individualismo contemporaneo.

Trasformazioni che hanno certamente seguito una logica interna non priva di alcune ragioni. Tuttavia, gli esiti mostrano quanto un’aria di famiglia o uno spirito dei tempi vi abbiano inciso. Nei tre decenni del dopoguerra il sapere filosofico si era in larga parte battuto contro individualismi, metodologici e non, empirismi più o meno ingenui, fino a opporsi a un’idea di uomo che trova in sé stesso le risorse della propria liberazione. E lo aveva fatto in nome del sistema, di una strutturalità della società e della storia in grado di decentrare l’intimità e la coscienza – privilegio di pochi – assumendo in prospettiva il compito di costruirne un altro, di sistema. Metafora dell’emancipazione collettiva, il sistema consentiva, sul terreno della teoria, di produrre un’analitica delle relazioni sociali volta a individuare la natura impersonale dell’assoggettamento e della liberazione, di mettere al bando essenzialismi e fondamenti, dunque ogni identità pensata in quanto tale, nonché di sottrarre il tempo e la storia all’anonima successione degli eventi, cogliendo nella rottura, rara e d’insieme, il sopravvenire di trasformazioni reali che, sovvertendo il tutto, riformassero anche le sue parti.

La belle époque rovesciava tutto questo, in ragione di effettive aporie teoriche e di non meno rilevanti mutamenti nei rapporti di forza politici e sociali. Tale ribaltamento trovava nella proliferazione delle differenze, nella disseminazione delle identità e nella pluralizzazione delle parti il suo vettore teorico principale. Una direzione che è sembrata emancipativa, in quanto capace di sottrarre la differenza specifica a nodi strutturali apparsi tanto livellanti quanto soffocanti, e di contrastare sia un’eguaglianza percepita come indifferenziata, sia forme organizzative che sembravano comprimere gli spazi della libertà. Esigenze tanto urgenti da giustificare l’assunzione di non irrilevanti ambiguità teoriche: la sincronia diveniva infatti il terreno uniforme di una molteplicità irrelata, in cui la natura degli elementi specifici, una volta sciolta ogni relazione sistemica, rischiava di riprodurre vecchi e nuovi essenzialismi. Nella diacronia si affermava, allo stesso modo, un campo di mutamento permanente, definito in prevalenza dai concetti detti performativi, i quali rimuovevano la storicità delle rotture rare e complessive, coniugando sempre al tempo presente il moto perpetuo del divenire.

La destrutturazione delle relazioni e la sovrapposizione dei livelli, che davano luogo a prospettive rigidamente immanentistiche, ricorrono ancora negli interrogativi della contemporaneità e, forse, nei suoi scacchi propriamente politici. Non ultimo tra questi sembra oggi la divaricazione tra conflitti e istituzioni: da una parte esplosioni puntuali e localizzate di antagonismo che con difficoltà crescente riescono a conseguire efficacia e durata, dall’altra istituzioni distanti, prive di energia e legittimità collettive. Conflitti afasici, tanto talvolta radicali quanto restii ad assumere una prospettiva d’insieme, e istituzioni introflesse, piuttosto sanzioni degli automatismi dell’economia che fattori di indirizzo e articolazione delle rivendicazioni sociali. Esiti, questi, non del tutto estranei a trasformazioni radicate anche nel lavoro della teoria, a fuoco sul puntuale e sul microfisico, e refrattarie alla ricucitura delle parzialità.

È questo il luogo geometrico su cui scommette il presente volume. Se non nel sistema come tale, oggetto di un’altra epoca il cui superamento ha seguito una logica anche propriamente filosofica che deve essere assunta, è nella potenza articolatoria della relazione tra conflitti (istituenti) e istituzioni (viventi), nella combinatoria affermativa, ma non autonoma, dell’istituire, che può cogliersi una prospettiva di superamento della pluralità irrelata tipica di un presente fatto di competizione e isolamento. Un’articolazione su cui si dovrà spendere, adesso, qualche parola ulteriore.

Conflitto istituente

È dunque necessario pensare un sociale ricomposto. Non per sacrificarne la pluralità interna, ma al contrario per valorizzarne e assumerne le variegate istanze contro un assetto non più in grado di rispondere, culturalmente prima ancora che politicamente, alle sue molteplici domande. Ricomporre, organizzare, aggregare, non significa solamente rompere la dispersione e l’isolamento, ma produrre orizzonti di senso condivisi e, con essi, nuovi strumenti per la critica. Quelle di Stiftung o di Institution, a cui molti degli autori dei saggi contenuti in questo volume fanno riferimento, sono categorie che tentano di nominare insieme durata e cambiamento, permanenza del senso e mutamento. Esse cercano di definire quella sorta di struttura, quel legame tra i fattori di un contesto dato, quell’orizzonte simbolico che dona agli elementi stessi la continuità e la resistenza di significanti condivisi.

La categoria di istituzione è apparsa allora come una via per pensare al di là delle difficoltà in cui la teoria sembra essere presa. Di fronte all’impossibilità di leggere la relazione sociale, sciolta nella proliferazione di microfisiche, corpi e voci irrelati, davanti all’impossibilità di considerare l’azione al di fuori della categoria dell’evento, essa indica la possibilità di concepire insieme la differenza e il rapporto, il conflitto e l’ordine. Non però come due polarità distinte di un unico insieme, ma nei termini della continua correlazione, del vicendevole scambio.

In questa semantica, il soggetto non si definisce nel contrasto o nella distanza dall’alterità, ma per la modalità del suo legame con essa; le identità non sussistono in quanto elementi puri, ma come relazione. Allo stesso modo, l’identità collettiva non si definisce come tale ma per l’intreccio che le è sotteso. È questo il tratto caratteristico dell’istituente e ciò che lo distingue dal costituente. L’istituzione traccia così, anzitutto, una via per pensare la politica e il sociale al di là di ogni dualismo, che esso prenda il nome del potere costituente contro il costituito, della politica contro la polizia o della democrazia contro lo Stato. Essa appare capace di nominare quel surplus di senso che avvolge ogni azione, collega da sempre ogni evento alla scena in cui esso accade, fa dell’avvenimento il rivolgimento puntuale che contribuisce a trasformare il quadro. Essa riesce insomma a donare un significato inedito, ulteriore, alla categoria del «politico», al di là di ogni sua supposta autonomia dal o nel sociale. Affermare, infatti, che l’evento sia già portatore di senso, non significa sostenere che esso sia di per sé politico. Vuol dire piuttosto constatare l’inseparabilità di empiria e teoria, l’impossibilità di uscire dall’interpretazione.

Da questo punto di vista, l’istituzione indica anzitutto un processo, che da sempre lega insieme la soggettività e la totalità in cui si inserisce, l’azione e il progetto. Da qui, ad esempio, l’attenzione per il verbo piuttosto che per il sostantivo, per l’istituire, piuttosto che per l’istituzione. Non si dà, allora, un conflitto estraneo e contrario all’ordine, ma piuttosto un conflitto come relazione a e proiezione di un ordine. Un ordine che non si costituisce se non in forma oppositiva, nel contrasto. Istituente sarà dunque quel movimento che, nel momento stesso in cui si esprime, riarticola le parti, ridefinisce la relazione e, di conseguenza, ridisegna i contorni della totalità. Un conflitto, insomma, che crea ordine, e ordini nuovi, nuovi significanti, inediti legami e opposizioni. Ecco allora che istituzione indica al contempo ciò che frena l’azione, che la definisce, la incardina, ne determina limiti e contorni di senso, permettendo infine un giudizio su di essa. Non solo movimento, dunque, ma anche fissazione.

Nel momento stesso in cui perde la sua singolarità e la sua contingenza, quando smette di essere colto come pura effervescenza scaturita da un piano immanente e viene pensato come articolazione, opposizione continua, il conflitto diviene giudicabile. Fuori dalla semantica dell’evento esso non è più buono o malvagio in sé, ma assume dei contorni, una fisionomia. Al contrario della proliferazione indistinta delle differenze, insomma, le istituzioni non sono tutte uguali, non sono continua emanazione di un unico principio, del desiderio, dell’espressione della cruda volontà di non-oppressione. Non si tratta, ovviamente, di ripensare un fondamento. Né è il caso di rimettere in campo un’idea di sistematica chiusa. Opzione, come già affermato, oramai superata. La totalità a cui si riferisce l’istituzione deve piuttosto essere pensata come infondata.

Istituzione e storicità

Pensare l’istituire come articolazione significa dunque attribuirle una temporalità che eccede la logica dell’evento, ma che al tempo stesso necessita di una continua rinegoziazione della sua messa in forma. Il processo articolatorio permette infatti di superare la dualità tra evento e struttura, tra plasticità e mobilità estreme – da una parte – e fissazione, rigidità necessarie – dall’altra. Una contrapposizione in cui, alla fine, entrambi i poli risultano svalutati e svuotati di significato dalla loro unilateralità. Eliminare dall’equazione la possibilità che un nuovo ordine si strutturi implica infatti l’abbandono di una concezione produttiva della storia, in ragione certo di una – condivisibile, per certi versi – esigenza antistoricista, che ha finito però per annichilire la dimensione della storicità. In egual misura, tuttavia, considerare indesiderabile l’esplosione conflittuale immediata dimostra un timore eccessivo per il rovesciamento delle forme date, che impedisce di considerare la possibilità di una trasformazione reale.

Chi pone l’accento sulla natura generatrice dell’istituzione ne sottolinea la caratteristica ontologicamente conflittuale, poiché ogni novità tende alla rottura nei confronti dell’esistente. Chi invece, dall’altro lato, sottolinea la necessità della stabilità evidenzia la natura ordinamentale dell’istituzione, la sua capacità di indirizzare l’azione umana secondo le direttrici della legittimazione e dell’obbligazione. Nel primo caso, la generazione continua rende impossibile una messa in forma, e dunque conduce l’istituzione nel campo frenetico della creazione continua, in cui però vige una temporalità ridotta a un presente evenemenziale. Nel secondo, la rigidità del combinato di legittimazione e obbligazione rende difficoltoso andare oltre la forma data, e relega così l’istituzione nel recinto – chiuso – del già istituito. Al contrario, pensare l’istituzione tramite la lente dell’istituire significa intenderla come spazio e momento di contesa tra ordine e conflitto. Si tratta di un confronto che si dà anche – e soprattutto – sul piano della temporalità, e il cui bilanciamento tensivo è in grado di produrre una durata dell’istituzione entro cui organizzare la sua produttività politica.

In questo spazio mediano – quello della durata – si situa anche la possibilità di oltrepassare il dualismo tra la dimensione sociale e quella politica. Poiché, come osservato, l’istituzione come processo dell’istituire permette di riempire di un nuovo significato – articolatorio – la categoria del «politico». In questo nodo si ritrova una problematica già avanzata nelle riflessioni contenute nel primo volume di questo Almanacco, dedicato alla crisi delle prospettive immanentistiche sul versante della riflessione politica. Il problema del rapporto tra politica e società – e la possibilità di una loro articolazione entro un quadro in cui sia possibile pensare le specificità di entrambe senza riprodurne le rispettive autonomie – può trovare nel paradigma dell’istituire una risposta, per quanto parziale. In questo senso, pensare di «istituire» il rapporto tra politica e società significa situarsi a metà strada tra l’esplosione sociale propria del momento istituente e la formalizzazione politica appannaggio della dimensione istituita. Ovvero, significa evitare che il contenuto venga annichilito sulla forma, ma al tempo stesso impedire che esso rimanga informe, e quindi inutilizzabile.

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