Antirazzismi (per) bianchi
«Detroit» di Kathryn Bigelow e lo sguardo Dem sul razzismo
Nei giorni scorsi ha circolato nelle sale un nuovo film sulla questione nera negli Stati Uniti: Detroit, di Kathryn Bigelow. Si tratta di un lavoro ispirato a un fatto realmente accaduto durante un ciclo di rivolte scoppiato nella città di Detroit nel 1967, e di cui quest’anno decorreva il cinquantenario: il sequestro da parte della polizia di un gruppo di dodici persone – dieci giovani neri e due ragazze bianche – nel Motel Algiers. Il film è già stato ampiamente recensito, ma a noi pare importante tornare su alcuni punti della sua narrazione: sia sui fatti stessi di Detroit, sia sulla questione razziale negli Stati Uniti. Vogliamo tornarci, in primo luogo perché crediamo che Detroit riproponga uno sguardo sulla questione africano-americana divenuto oramai dominante, tanto nel cinema quanto nella società statunitense degli ultimi anni. Si tratta di uno sguardo che proponiamo di definire qui, per questioni di comodo, semplicemente come «white-liberal», e quindi sintomatico di un certo tipo di posizionamento etico-politico di fronte al fenomeno del razzismo negli Stati Uniti. Da questo punto di vista, Detroit si presenta come una semplice variazione di un unico tema, come parte di un topos filmico, giornalistico e televisivo assai ricorrente e quindi anche all’origine di altri film più o meno visti negli ultimi anni, come Twelve Years Slave, The Butler o Selma. Ma oltre a tornare sul film per mettere in luce questa sua valenza «ideologica» – nel senso marxiano del termine – rispetto al suo oggetto del discorso, a noi interessa porre, a partire dalla narrazione così come ci viene proposta alcune questioni più generali riguardo la percezione e l’interpretazione del razzismo anche in Italia, rimaste – forse non a caso – invisibili in altre recensioni. Pensiamo, dunque, che questo esercizio di lettura possa dirci qualcosa anche rispetto ai limiti di un certo tipo di discorso antirazzista circolante in Italia.
Il razzismo tra sadismo dal basso e pornografia della violenza
Va subito detto che l’interesse di Bigelow non sembra riguardare i riots razziali di Detroit del 1967 in sé, bensì quell’aspetto che il suo sguardo pone come matrice del razzismo in quanto fenomeno sociale: il sadismo, la violenza repressa e la perversione che, dal suo punto di vista, sono costitutive della condizione (psichica) umana contemporanea. È così che la sua rappresentazione dell’evento finisce per apparire del tutto alienata (poiché volutamente scissa) dal contesto sociale e politico in cui si è verificato, e dall’impatto che esso produsse nella società americana dell’epoca. Basti qui ricordare alcuni numeri delle rivolte esplose a Detroit: 43 morti, 473 feriti, 7200 arresti e decine di miliardi dollari di danni; è stata proprio la dimensione di queste rivolte – insieme agli effetti di altre decine di insurrezioni urbane nere che si stavano verificando in quegli anni negli Stati Uniti – ad aver costretto il presidente Lyndon Johnson a nominare una commissione d’inchiesta per «fare luce» sull’accaduto.
La narrazione di Bigelow scinde completamente il (suo) fatto dal suo contesto storico, diversamente, per esempio da 12 Years Slave, in cui vi era la volontà di mantenere, per quanto possibile, un certo rigore filologico nella riproduzione cinematografica di una vicenda storica. L’effetto dunque non può che essere spoliticizzante, nel senso che la storicità materiale della rivolta resta del tutto fuoriscena; nulla ci viene mostrato della condizione di segregazione in cui la popolazione nera era costretta a vivere: abitazioni indegne e sovraffollate, disoccupazione forzata, povertà estrema, esclusione dagli spazi pubblici, ripetuti attacchi incendiari da parte di bianchi, in breve tutto il sostrato materiale da cui nacquero i movimenti per i diritti civili e il Black Power viene volontariamente relegato in secondo piano. Anzi, si può dire che le stesse rivolte di Detroit vengono ridotte a mero sfondo della narrazione.
Più che con il suo sfondo storico, Detroit appare in perfetta linea di continuità con i due film precedenti di Bigelow, The Hurt Locker (2008) e Zero Dark Thirty (2013). Ambientati in Iraq e Pakistan rispettivamente, e incentrati entrambi sull’analisi psicologica di un’operazione militare, questi due film anticipano ciò che Bigelow mette di proprio (la sua politica della rappresentazione) nella codificazione estetico-politica di Detroit: il tentativo di descrivere in modo asettico e dall’interno – nel modo più freddo e diretto possibile – una sorta di sadismo perverso dal basso, una specie di micro-fisica non tanto del potere quanto dell’aggressività e della violenza (che Bigelow sembra considerare, forse sulla traccia di Freud) tipicamente umana. Si tratta di un’aggressività e di una violenza sadica che per Bigelow sembrano manifestarsi nelle modalità più visibili tanto all’interno di quelle che Erving Goffman chiamava le «istituzioni totali» quanto nelle «situazioni di eccezione» sostenute dallo stato e dai suoi diversi apparati, come l’esercito e la polizia. In ultima analisi, ci sembra di poter riconoscere una sua tendenza alla scelta di situazioni in cui sia possibile costruire una sorta di «eccezione sovrana» in cui l’autorità dei poliziotti, in quanto agenti dello stato, può trasformarsi in un esercizio totale del potere sui loro soggetti, in questo caso neri e quindi cittadini di seconda classe. Questa scelta narrativa non è affatto interessata alla conflittualità sociale, poiché i soggetti razzializzati vengono rappresentati come mere «vittime» inermi dei loro carnefici, come mera «nuda vita», non possono fare o dire nulla, ma solo subire l’azione ed essere raccontati.
Sta qui forse la politica della rappresentazione di Bigelow, il suo taglio soggettivo su ciò che racconta; e tuttavia, questo suo modo di presentare la guerra in Iraq, la cattura di Bin Laden in Pakistan o i riots razziali di Detroit presuppone già una sua costruzione – tutta politica – dei fatti. Nel caso specifico di Detroit, nonostante il punto di partenza sia una rivolta, il blocco narrativo centrale del film è incentrato su un episodio simbolico di ristabilimento dell’ordine: il lungo interrogatorio e il pestaggio continuo dei neri e delle due giovani bianche da parte dei poliziotti all’interno di una delle camere del Motel. Si tratta di una situazione d’eccezione, ideale rispetto a ciò che Bigelow intende raccontare: un luogo chiuso in cui membri delle forze dell’ordine godono di un momentaneo e indisturbato potere illimitato sulle proprie vittime – nella fattispecie, e non a caso, neri e donne. È chiaramente l’episodio centrale del film, non solo per la lunghezza ma soprattutto per le scelte di regia – macchina in mano, piccoli e medi piani-sequenza, luce soffusa, rumori di scena ridotti al minimo – poiché tale forma cinematografica ci viene presentata da Bigelow come la sua singolare impronta estetica. Tutto il resto del film passa automaticamente in secondo piano: da questo momento in poi, non abbiamo se non ciò che può essere chiamato una «pornografia della violenza» – «nuda» e a tratti morbosa – in cui alcuni poliziotti sadici ed esplicitamente razzisti – rappresentati quasi come delle macchiette – si dedicano a torturare e violentare a volontà soggetti presentati dalla regista come inermi e passivi. C’è qui un filo rosso che unisce Detroit ad altri film come, per esempio, a Twelve Years Slave (2013) di Steve McQueen, anche se narrano due contesti storici e razziali assai diversi: una strategia narrativa costruita per sottoporre gli spettatori (bianchi) a lunghe sequenze di violenze e torture da parte di poliziotti bianchi su soggetti neri ridotti a mero corpo, e che sembra plasmata da un’unica «struttura del sentire», da una sorta di necessità di espiazione collettiva, tutta white e liberal, della propria colpa.
La lunga sequenza del Motel potrebbe richiamare il formidabile Funny Games di Michael Haneke; e tuttavia in Haneke la descrizione di questo «sadismo dal basso» obbedisce a un suo discorso critico sul lato oscuro del mondo piccolo borghese bianco, più sistematico e maggiormente compiuto. Non è un caso che, al contrario di Bigelow, Haneke non mostri mai in modo diretto la violenza, quasi a prendere il distacco da una certa narrazione – tipica della società e del cinema americano – di un tipo di violenza che è cruda solo in apparenza, poiché in realtà viene resa tutto sommato «accettabile». Tornando a Detroit, la scelta di concentrare il proprio sguardo su questa «pornografia istituzionale della violenza» contiene già di per sé un’interpretazione del razzismo come fenomeno sociale, ovvero costruisce il razzismo come un fenomeno riconducibile non tanto alla stessa condizione strutturale del capitalismo americano – emerso dall’intreccio con il colonialismo e la schiavitù – quanto a un certo tipo di soggetti o di psiche individuale: in sostanza si tratta della solita logica della «mela marcia» (membri isolati della polizia locale) contro cui si scarica l’artiglieria per salvare il melo (l’integrità dei valori della società americana, rappresentata dalla guardia nazionale e da poche altre figure). Questa strategia di «igienizzazione» istituzionale richiama due dei pochi film italiani che si pongono come uno sguardo sulle forze dell’ordine: Diaz, Don’t Clean Up this Blood (2012) di Daniele Vicari e ACAB (2012), di Stefano Sollima. Entrambi i film, pur se con oggetti e sguardi diversi, finiscono per riproporre una visione simile a quella di Bigelow sulla «violenza istituzionale»: sui fatti di Genova, per quanto riguarda Vicari, sui comportamenti fascisti dei poliziotti italiani, nel film di Sollima.
Il razzismo tra alterità ed eccezione
Stando a quanto ci racconta Detroit quindi è difficile parlare anche di «razzismo istituzionale», visto che la contrapposizione tra militari (buoni e difensori dei diritti civili) e poliziotti (mere espressioni di un razzismo banale) mette da parte qualsiasi ragionamento sistemico o strutturale sulla questione razziale negli Stati Uniti. Nel film, infatti, vi sono diversi momenti e dialoghi in cui compaiono militari e autorità di Stato e di governo come contrappunto altrettanto grottesco al razzismo banale e spietato dei poliziotti. Al di là della eventuale fondatezza o meno storica di questa tale contrapposizione nel caso specifico, il film sembra utilizzare questo conflitto semplicemente per interrompere qualsiasi discorso che oltrepassi il mero discorso non-psicologico sulle motivazioni della questione razziale. Il finale appare qui sintomatico. Per quanto ripreso dalla vera sentenza sul caso, le sequenze finali del processo non fanno che rafforzare questo presupposto della narrazione di Bigelow: anche se i tre poliziotti sono stati assolti, ci chiede meticolosamente di ricordare la regista, essi non torneranno più a esercitare la loro funzione, lasciando intendere che in un certo senso la polizia in quanto istituzione è stata «epurata». Bigelow cade così in uno dei luoghi comuni più diffusi di quell’ideologia tipicamente americana che promuove gli Stati Uniti come terra «naturale» della giustizia e dei diritti: ci potranno essere momenti di oscuramento dei principi autenticamente liberali, ma alla fine, attraverso una sorta di (hegeliana) astuzia della ragione democratica, giustizia e democrazia trionfano sempre. Certi soggetti e/o certi gruppi storici di potere (anche istituzionali) potranno anche essere malati, ma il sistema è strutturalmente sano, è sempre in grado di auto-correggersi. E tuttavia, pensando proprio all’assoluzione dei poliziotti, si può dire che il film racconti, in modo alquanto paradossale, una storia che va contro se stesso.
È anche in virtù di questo ragionamento che la costruzione narrativa della «situazione di eccezione» del Motel appare piuttosto problematica: non solo perché essa finisce per nascondere il fatto che il razzismo come eccezione è in realtà regola nelle società contemporanee (nel senso che lo spettro razziale plasma ogni sfera sociale, pubblica e privata), ma perché tende a spezzare la continuità esistente tra la quotidiana normalità del razzismo culturale e popolare, fra quell’inconscio razziale/coloniale che passa anche e soprattutto attraverso minimi gesti e ripetizioni inavvertite (del tutto assente nel film) e il razzismo istituzionale eccezionale. Questa rassicurante sussunzione manichea del razzismo entro personaggi eccessivi e caricaturali (qui i poliziotti, altrove psicotici o «estremisti d’altri tempi») o la sua costante localizzazione in contesti spazio-temporali costruiti come «altri» rispetto al presente o alla norma (ad esempio il Sud degli USA) non fanno che bloccare qualunque tipo di identificazione tra l’audience contemporanea e il fenomeno narrato, col risultato che è la stessa narrazione della violenza a rimanere isolata, ridotta all’anormalità (chi potrebbe identificarsi con quei «pazzi»?) e quindi ad auto-addomesticare qualunque effetto realmente disturbante.
Detroit come specchio: il pericolo dell’antirazzismo dem
Una menzione a parte meriterebbe l’orientalismo dello sguardo di Bigelow sui suoi personaggi neri. Se abbiamo definito i suoi poliziotti bianchi come delle macchiette caricaturali, per i neri sarebbe più adeguato parlare di stereotipi sociologici. I personaggi neri del film, i loro dialoghi ed enunciazioni appaiono come diverse incarnazioni schematiche di oramai ben noti tipi-ideali (piuttosto sovra-rappresentati) delle diverse soggettività nere. Stando a quanto sostiene Paul Gilroy in Darker than Blue (2010), non è difficile vedere qui in che modo la costruzione delle culture e delle sottoculture nere appaia del tutto connotata dai canoni imposti dall’industria commerciale della cultura di massa americana. Ad esempio, tanto l’esperienza del complesso The Dramatics – seppur interessante per ricordare in che modo l’industria della Motown fosse rivolta soprattutto al mercato bianco – quanto la colonna sonora (brani tipo Nowhere to Run, di Martha and the Vandellas) rimangono del tutto estranee al pathos narrativo, ovvero sono stati inseriti in una forma puramente esterna e descrittiva: come a dire, nessun film che si rispetti (che si voglia vendere su un certo tipo di mercato) sull’esperienza insorgente nera non può non avere alcuni pezzi musicali famosi, poiché cornice ideale per l’altrettanto «necessaria» dose di sessualità e violenza. Bigelow qui non fa che proiettare le regole di mercato nella (sua) confezione (razziale) del prodotto «Black Culture». È chiaro, poi, che una narrazione così dentro i meccanismi del mercato dell’industria culturale (del politically correct obamiano) non poteva che proporre ancora una volta, come in molti altri film americani recenti sulla questione nera, due soli tipi di personaggi progressisti: uomini neri e donne bianche (oltre alle due ragazze bianche, si ricordi qui la dottoressa che consola il padre di uno dei ragazzi assassinati nell’obitorio). Su questo punto, in ogni caso, il film di Bigelow resta interessante nel modo in cui consente di inferire (al di là della sua specifica narrazione) la centralità del rapporto di intersezione tra razza e genere nella costruzione delle identità razziali. A scatenare l’ira dei poliziotti nel Motel non è tanto il presunto sparo di un nero contro di loro, ma, come ricorda la nonna di una delle vittime, soprattutto il fatto che due donne bianche abbiano dei rapporti sessuali con uomini neri, tradendo in questo modo quello che può essere inteso come un «mandato» di razza. Del tutto sotto-rappresentata invece la voce (poiché ci compaiono spesso solo come corpi sessualmente attraenti) delle donne nere; ma forse non a caso data la narrazione «vittimizzante» di Bigelow. Si può dire la mancanza di questa voce percorre tutto il film come uno spettro, e che tale mancanza non fa che agire contro la stessa costruzione del racconto; così come va contro il racconto di Bigelow la biografia sociale del cantante dei Dramatics, che rifiutandosi di cantare per i bianchi, finisce a cantare gospel in una chiesa di un anonimo quartiere di periferia.
Detroit dunque ha il merito di esprimere con chiarezza la visione «Dem» sulla questione razziale americana. Si tratta di un discorso sul razzismo che ci appare, in alcune delle sue concezioni, anche assai ricorrente nel variegato movimento antirazzista italiano. Forse non è un caso che, così come nel film di Bigelow, nemmeno alle nostre latitudini espressioni come «razzismo strutturale», «razzismo istituzionale» e «segregazione» abbiano ancora conquistato una chiara visibilità nella costruzione della lotta politica antirazzista e nella sua rappresentazione cinematografica. Pensiamo che anche qui sia ora di cominciare a costruire politicamente un razzismo e antirazzismo in termini più concreti e materiali, e di abbandonare quella critica già pronta per l’uso contro un razzismo (astratto, generico) senza aggettivi.
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