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Marzia Migliora, Test optometrico, 2006 - Dettaglio dell'installazione, Fondazione Merz - Torino. Courtesy l'artista, Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli.

Mostro orrendo, difforme e smisurato,
Che avea come una grotta oscura in fronte
In vece d’occhio, e per bastone un pino,
Onde i passi fermava
Virgilio, Eineide, libro III, 1039-1042 

Questo testo è parte di Costruzioni Fantastiche, spazio laboratoriale di ricerca, all’interno del progetto Diverse Visioni 2019/2020 di Blitz, realizzato con il sostegno del Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo. Una serie di conversazioni, a cura di Giulia Crisci, con diverse artiste, su quello che gli occhi non vogliono vedere e sulle narrazioni che esistono oltre la vista.

Argo Panoptes, creatura dai molti occhi a ricoprire il corpo, non si sa se dormendo li chiuda completamente o ne lasci sempre qualcuno aperto a vigilare. Ciclopi, giganti da un solo occhio, come Polifemo che catturò Ulisse e che da lui fu accecato. Balor, bestia dall’enorme occhio che può distruggere ciò che guarda. Le tre Graie, le tre streghe sorelle che condivisero un solo bulbo oculare, a cui Perseo chiese come trovare Medusa. Medusa, guardiana e protettrice, dalla testa di serpenti che Perseo recise. Colei che pietrifica chiunque le volga lo sguardo.

Molte mostruosità sono state attribuite allo sguardo, molte altre vengono ancora taciute. La vista è il senso attraverso cui l’umanità crede di percepire il mondo intero e così di possederlo. Una percezione presuntuosa che afferma che ciò che non può essere visto non esiste. Non esiste ciò che non può essere riconosciuto e successivamente nominato. Molte forme di vita rimangono fuori da ciò che è visibile all’occhio dominante, molte storie vengono espulse dalle trame egemoniche. Come bagliori discontinui queste esistenze scintillano, seppur per pochi istanti, come le lucciole.

Come creare dei varchi che ci consentano di avvicinarci delicatamente a ciò che resta fuori dalla visione dominante? Come possiamo riappropriarci delle arti perché siano espressioni anche delle esistenze intermittenti? Per dare vita a queste pagine ho voluto conversare con cinque autrici e artiste – perché ancora troppo spesso la voce delle donne rimane inascoltata – nella necessità di un confronto sulla visione, sulla molteplicità degli sguardi dominanti, normativi, coloniali, razzializzanti, patriarcali, eteronormativi e sulle tattiche per smantellarli.

Ho proposto loro come punto di partenza un breve video, un’intervista alla scrittrice Toni Morrison, che ha fatto di questi temi la letteratura di tutta una vita e delle vite di molti.

C’è in questa questione che poni non solo la dimensione del dominio e della razza – che si sente quanto punga nella carne Toni Morrison – ma anche una dimensione interessante di per sé che è quella visuale, attraverso la quale per esempio continuiamo a distinguerci tra bianchi e neri. E se non vedessimo? Non ci sappiamo immaginare senza guardare. Questi occhi sono stampelle a cui ci teniamo con forza. Non riusciamo davvero a vedere l’altro, proiettiamo su di lui-lei le nostre narrazioni, così entriamo in una dimensione di abuso, in cui è possibile pensare l’altro solo come subalterno. Bisogna ritrovare la volontà di sentire l’altro, di mettersi a rischio in questo ascolto, un altro che si manifesta in tantissime forme. Questa apertura all’altro avviene solo quando riusciamo a spogliarci dalle nostre costrizioni e costruzioni culturali e mentali.

Ho appuntato queste frasi di Rebecca de Marchi sul mio quaderno, durante la nostra videochiamata avvenuta appena dopo il suo rientro a Torino, con un volo dal Ghana, dove adesso vive. Qualche giorno dopo, mi scrive:

Nell’osservazione dei fenomeni ci si può porre esternamente o internamente, con profonde implicazioni. Ho pensato sovente alla nostra conversazione in questi giorni in cui leggevo una antologia di poesia negra americana del 19691 che avevo comprato mesi fa al Balôn. La questione terminologica e l’identità di tale scrittura occupa gran parte della prefazione in cui viene citato un passaggio di un intervento di Richard Wright in un convegno a cavallo del 1960. “… Nel momento attuale c’è una nota predominante nell’espressione letteraria dei negri. Dal loro immergersi nella corrente principale della vita americana potrebbe provenire di fatto una sparizione della letteratura negra come tale… e perciò che i negri sono negri solo perché sono trattati come negri”. In effetti la domanda da porre è ai bianchi se possono smettere di segregare e discriminare. La risposta continua a essere, a settant’anni di distanza, e nonostante la fiducia che permea quelle pagine: No.”

Queste ultime parole sull’espressione letteraria, la segregazione o la sparizione mi risuonano nella testa nel salotto di Lina Issa. Ci incontriamo nella sua casa di Palermo, nella stanza a fianco dorme sua figlia, a basso volume ascoltiamo insieme la voce di Toni. Dopo pochi secondi, lei la mette in pausa, per commentare:

Mi colpisce quando dice che quella domanda: “Pensi di poter scrivere un romanzo che non sia centrato sulla razza?” non è inerente alla letteratura, ma è piuttosto una domanda sociologica. La capisco perfettamente, non ha a che fare con le sue qualità artistiche, con il modo in cui scrive, ma cerca di usare un’identità per posizionarla da qualche parte, come se lei non potesse muoversi da quella rappresentazione andando oltre. Allo stesso tempo però mi chiedo se possiamo separare il piano politico dalle questioni letterarie ed estetiche. Possiamo discutere della sua scrittura separandola dall’estetica, dal sapere incorporato, dal linguaggio, dal ritmo che possono essere anche neri? Lo spazio, il tempo, il modo di organizzarli, penso che tutti questi aspetti siano legati anche alla “razza” in qualche modo e al linguaggio, alle parole che usiamo.

Mi viene da dire che è vero che la letteratura di Morrison è stata una lotta costante per l’affermazione di uno sguardo nero, femminile, minoritario ed emancipato, ma è pur vero che ciò che ha scritto è talmente importante che trascende questa dimensione, diventa anche altro, parla a tutti. Forse è anche questo che ancora riesce a fare lo sguardo dominante: dividere, etichettare, oggettificare?

Sì – riprende Lina – ma può essere diverso quando anche lo stile, la lingua sono considerati una qualità dell’essere neri, di questa eredità? Penso a Christina Sharpe, Fred Moten, Eduard Glissant, la loro scrittura è poesia e usano il linguaggio in maniera così preziosa per parlare di questioni molto complesse. Penso che ci possa essere una differenza nel rapporto con il vocabolario, con certe scelte, una differenza nel modo di vivere le mancanze, i vuoti nel testo. Dove metti le virgole, dove ti fermi, quando dai al soggetto una posizione più rilevante e dove invece non è così importante: è questo che crea letteratura. Come crei un personaggio, come lo lasci svilupparsi, quanto tempo e spazio e corpo e odore e consistenze impieghi, tutto questo è anche ereditato e appartiene a certe culture, a certe storie, non è limitato solo ad alcune ma penso che esista un’unicità. Credo che si parli troppo poco di queste qualità della letteratura nera.

Capisco davvero la reazione di Toni Morrison e mi sono sentita nella stessa posizione molte volte. In ogni genere di incontro, di testo, di brochure c’è sempre una specifica per dire da dove vengono gli artisti e questo dirige lo sguardo degli spettatori, le loro aspettative su quei lavori e anche se la relazione con quei luoghi non è necessariamente presente, la si cerca perché è così che è stata etichettata. Mi ricordo una delle primissime esperienze che ho avuto arrivando nei Paesi Bassi con un curatore che venne nel mio studio, avevo circa vent’anni ed ero per la prima volta in Europa, mi chiese: ti consideri un’artista libanese?

Ero totalmente confusa. Ho pensato che magari mi stesse chiedendo qualcosa di davvero ovvio che io non sapevo e sottovoce gli ho rigirato la domanda: cosa intende esattamente? Mi rispose: Che il tuo lavoro ha a che fare con la discriminazione delle donne, con i diritti, con la guerra… e ha continuato con la lista dei cliché e io ero ancora più confusa di prima. Questo episodio ha davvero avuto un impatto su di me, non ho lavorato per circa un anno, ero bloccata dalla paura di finire dentro quest’etichetta. Solo dopo tre anni sono riuscita a rivendicare e reintegrare questo mio essere (anche) libanese, in un progetto sullo spostamento, sul prendere il posto dell’altro, in cui ho chiesto ad un’altra donna di andare in Libano, in un momento a cui a me non era permesso, e vivere come se fosse me, al mio posto. Da questo progetto è nato un romanzo: “Where we are not”.

Quindi sono totalmente d’accordo che esista questa problematica, ma vorrei ribaltarla e pensare ad un altro aspetto. Quando saremo pronti a spostare queste conversazioni verso direzioni più complesse e intense, senza che un’artista si debba difendere, giustificando la sua qualità artistica? Quando potremo concederci questo spazio, fuori dello sguardo etnografico e coloniale? È lì la liberazione. È anche un atto di decolonizzazione, penso infatti che molti corpi e menti colonizzate nella lotta per liberarsi tendono a non rivendicare ciò che è loro, ciò che è unico e peculiare. Forse perché quando celebri quest’unicità torna la paura che venga nuovamente risucchiata, strumentalizzata. “I libanesi che fanno le cose alla libanese”, questo tipo di letture…

Toni ad un certo punto dice che ha speso la sua intera vita letteraria cercando di essere sicura che lo sguardo bianco non fosse quello dominante nelle sue narrazioni. Mi interessa questo processo di autoanalisi e di autodecostruzione per cui si prende atto che nessuno di noi ne è immune, indipendentemente dall’essere nere, donne, razzializzate possiamo essere “portatrici sane” di questo sguardo. Dico, dopo averla ascoltata.

Frantz Fanon dice che i colonizzati hanno vissuto incorporando e impersonando totalmente l’immagine che il bianco o il colonizzatore aveva di lui-lei. È così difficile lasciarla svanire, lasciare andare quel corpo. Siamo una combinazione complessa di tutte queste cose. È così complicato spostare il centro dall’occidente, che è spesso il riferimento per la cultura, per il welfare. Il processo di colonizzazione ci ha separato dalle nostre risorse, alcune cose non ci sono nemmeno potute arrivare ben documentate, ad esempio la scrittura della storia è stata totalmente influenzata, manipolata attraverso un unico sguardo, ignorando le diverse prospettive. Molte risorse sono state perse, non documentate o archiviate, penso anche a molta letteratura. Molti scrittori neri non sono ampiamente pubblicati o distribuiti, non sono tradotti, non ne abbiamo accesso quindi, non li conosciamo. Citiamo sempre autori e intellettuali bianchi in qualsiasi campo del sapere. Quando cerchiamo di decolonizzarci, tentiamo di ridefinire il nostro centro e uscire da questo dicotomico “noi” e “loro”, anche perché prende così tante energie…

Mi chiedo ancora come si faccia a posizionare la propria scrittura oltre la storia coloniale. Quando penso, molto modestamente, all’esperienza della scrittura del mio libro mi tornano in mente alcune domande che mi ponevo: e se un libanese lo leggesse, lo scriverei diversamente? A volte ne rileggo dei pezzi e mi chiedo: Qui sto romantizzando troppo l’immagine del Libano? In altri passaggi ne sono molto consapevole, ad esempio quando parlo di come noi libanesi vogliamo rappresentarci nella nostra capacità di parlare più lingue, così è come vogliamo che gli altri ci vedano.

In che lingua hai scritto il romanzo Where we are not?

L’ho scritto in inglese, ma doveva essere tradotto in olandese. C’è per me una relazione tra lo sguardo dominante e questa necessità della traduzione che abbiamo interiorizzato, per creare connessioni tra noi e gli altri. Ci sentiamo costantemente dislocati in questa creazione di significati, anche usando l’inglese, portando i nostri corpi e ciò che contengono in altri posti, in altre lingue. Ci sentiamo alienati da questi sguardi, ci sentiamo fuori dai nostri corpi: siamo obbligati a diventare l’altro. Come se esistessimo solo per riempire lo sguardo e le aspettative altrui.

Un’altra voce, quella di Ubah Cristina Ali Farah, mi porta a riflettere sulla lingua. La vedo attraverso uno schermo, mentre è in Sudafrica, in una bella casa da dove sta scrivendo il suo romanzo, a molti chilometri di distanza i nostri orologi segnano la stessa ora.

La lingua per me è stata fondamentale per mettere radici. Questo mio italiano senza accento faceva strano, una persona nera non poteva parlare così. Erano gli anni 90 ed ero tornata nella città di mia mamma, Verona, in cui anche io ero nata ma che ho lasciato a soli due anni per andare in Somalia, la terra di mio padre.

Ubah entra nella conversazione attraverso la sua biografia, quella storia che lei sente di dover raccontare perché espressione di una letteratura minore, unica e irripetibile, come dice, per quel suo legame con la storia coloniale, per le poche voci che dalla sua generazione sono riuscite a parlarne.

Era il momento peggiore per tornare a Verona, erano gli anni in cui stava montando la Lega Nord, in cui ho cominciato a sentire diffidenza verso di me. Mi sentivo delusa, dopo il tradimento della guerra in Somalia da cui ero dovuta andare via piccola appena diventata madre, un altro tradimento quello dell’Italia che non mi accettava. Quando mi sono trasferita a Roma ho cominciato a scoprire la mia passione per la letteratura e studiare autori che ponevano al centro la questione dell’identità, prima scrittori brasiliani e poi anche Bassie Head, Toni Morison, Chinua Achebe…

Ancora non sapevo di voler scrivere finché andai in Olanda a trovare mio padre, rifugiato politico. Quel momento è stato per me il folgorante incontro con il mondo della diaspora. Tornata a casa mi dissi: questa cosa l’Italia la deve sapere! Deve sapere come vive mio padre, un intellettuale esiliato che ha studiato in l’Italia, la sua seconda madrepatria, da cui è stato espulso e ora vive miseramente in un posto che non gli appartiene. Ho scritto quel mio primo testo in due ore. Poco dopo è arrivata la mia collaborazione con Migranews, un progetto per raccontare dal di dentro la questione migratoria che stava cominciando a riguardare fortemente l’Italia, provando a contrastare lo sguardo egemonico dei mass media.

Il mio primo romanzo Madre piccola2, l’ho scritto sulla diaspora. Ho provato a creare un caleidoscopio di voci in cui diversi personaggi raccontano a diversi interlocutori la loro esperienza. Ti viene sempre chiesto di raccontare la tua storia e tu la racconti sempre in modo diverso in base a chi hai davanti. E mi vengono in mente tante di quelle domande scomode, come quella fatta a Toni.

Giulia, a noi viene costantemente chiesto: ma la smetterete di parlare di migrazioni? La smetterai di scrivere su questa roba qua? E bisogna continuare a fare quello che fai lei, ribaltare il punto di vista, perché nessuno chiede ad uno scrittore uomo quando la smetterà di parlare solo di uomini? Perché a noi viene costantemente chiesto se vogliamo scrivere solo di donne? Tutto è su quello che noi siamo. Ogni scrittore segue la sua urgenza. E quando ci viene chiesto se riusciremo a parlare di altro, mi viene da rispondere che noi stiamo già parlando di altro! Stiamo parlando di sentimenti universali.

Quello che sento in quelle domande a Toni e a te è già tutta l’essenza della razzializzazione, per cui l’essere nero è il tema, è l’oggetto del racconto, non il soggetto.

Ma infatti – incalza lei – voglio riprendere una cosa che Toni dice molto delicatamente: che noi abbiamo una responsabilità come scrittori. Io la sento, anche grazie al privilegio di avere ricevuto sia l’educazione italiana che quella somala. Sento che la nostra responsabilità è tenere la lucidità, tenere presente che stiamo parlando a tutti, stiamo scrivendo di questioni umane e che abbiamo il dovere di raccontare cosa è successo. Per me lo sforzo che dobbiamo fare è andare oltre la rabbia, trasformarla.

Questo è un momento di forte rabbia che si impone come modalità per riprendersi spazi di parola, che sono monopolizzati sempre dalle stesse voci. Mi riferisco al movimento partito dagli Usa, dal Black Lives Matters, che ha creato un’eco e un riverbero in varie parti d’Europa e anche in Italia. Trovo legittima questa rabbia, la capisco e vedendo quelle statue che cadono o che vengono imbrattate, mi sembra che finalmente quelle mostruosità trovino un senso. È importante aver visto scendere in piazza così tanti afrodiscendenti, neri italiani. Credo non basti, ma che bisogna continuare a fare pressione perché anche queste voci trovino il loro spazio.

Io sono molto contenta che tutto questo stia emergendo e capisco anche profondamente questa rabbia. Ho dei dubbi su tutta questa energia che si sta mettendo nella rivendicazione, paura che faccia perdere di vista cose importanti, banalizzando. Avrei voluto che ci dedicassimo ad un passaggio culturale, ad esempio, tra queste generazioni e la mia, perché non si abbia l’illusione di partire da una pagina bianca. Da anni persone come Igiaba Scego, come me parlano e scrivono, anche se la scena culturale italiana ha deciso di ignorarci. Le nostre vite e le nostre storie contano perché tengono un legame con il colonialismo italiano che è fondamentale non dimenticare.

Hai ragione, è molto importante per capire le forme di razzismo contemporanee.

Conosci il libro La madrepatria è una terra straniera3? È di una storica, Valeria Deplano, che spiega le ragioni per le quali oggi la società italiana è ancora a maggioranza bianca. Ricostruisce come l’Italia da sempre sia riuscita a respingere giuridicamente, negando qualsiasi status e cittadinanza, gli ex coloni. Ecco perché non sono potuti arrivare gli eritrei, i somali, i libici, si è fatto in modo di espellere sistematicamente il corpo nero dalla nazione. Francia e Inghilterra, invece pur avendo avuto un colonialismo feroce, hanno assimilato le persone delle colonie.

Ci sono risonanze tra queste conversazioni, tra letterature, diaspore, minoranze, tra l’essere guardati e il non essere visti. L’importanza della critica e della rilettura per decolonizzare e decolonizzarci e ancora lo spazio angusto della traduzione. Tornano questi fili ad intrecciarsi tra le lettere che mi scrivo con Maya, che ho incontrato ad Algeri quattro mesi fa, poco prima che ognuna avesse una stanza tutta per sé, dove passare la quarantena.

Cara Giulia,

Guardando il video dell’intervista mi sono tornati in mente subito due aneddoti della scena letteraria algerina. Il primo è molto noto, una storia che ha segnato il grande autore Kateb Yacine, all’uscita del suo libro più importante “Nedjma”. Un lettore commentò: “Quest’opera è davvero troppo complicata. Avete delle belle pecore in Algeria, perché non parlare di quelle?”

Il secondo è più vicino invece, una storia accaduta ad un amico scrittore che ha proposto il suo romanzo ad una casa editrice francese. Tra i commenti dell’editrice c’era una nota su una scena d’amore. Gli veniva rimproverata una mancanza di “realismo”. I personaggi erano arabi e secondo lei la scena non aveva nulla di peculiare, gli arabi evidentemente nel suo immaginario non potevano fare l’amore come tutti gli altri. Di che materia siamo fatti allora? Per me è questo lo sguardo dominante, avere il privilegio di non vedere i problemi, sentirsi legittimati a commentare, suggerire, chiedere conto e ragione a persone che si considerano, magari anche inconsciamente, inferiori.

Ho l’impressione che fosse doloroso per Morrison il fatto che non si parlasse della sua letteratura, del suo stile e temo che sia quello che succede agli autori algerini che non trovano uno spazio di critica per il loro lavoro nel loro paese e che fa sì che si aspettino il riconoscimento dello straniero (non possiamo certo biasimarli), ma le aspettative dell’altro, del dominante, sono chiare e le sue certezze tenaci. Per questo le testimonianze di persone come Toni Morrison e Kateb Yacine sono molto importanti.

Mohammed Dib, un altro scrittore algerino che mi è molto caro, ha fatto altrettanto nel suo libro “Simorgh”, dove ha parlato della ricezione delle sue opere da parte di certa critica francese. Ha raccontato di un’intervista in cui gli si chiedeva d’essere riconoscente di poter scrivere in francese. Dib si domandava anche se fosse la stessa cosa per gli anglofoni. Abbiamo bisogno di forza per permetterci di prendere altre strade, di non limitarci semplicemente a nutrire i clichés, è così difficile che spesso manca la consapevolezza persino agli stessi scrittori o ai cineasti.

Per me quello che ci serve è fare emergere più critica dall’interno, dallo stesso contesto, più critiche dei neri negli Stati Uniti, più critiche dei paesi africani, arabi, ma anche una critica bianca, europea meno arroccata sulle proprie certezze, più aperta, che possa oltrepassare l’identità dell’autore, per ancorarsi alle opere in quanto tali. Questo ci permetterebbe anche di far emergere narrazioni divergenti, diverse. Perché il cambiamento avvenga non possiamo dimenticare che serve che anche i dominati prendano coscienza e che a partire da questo non lascino più spazio a nessun commento, nessuna nota fuori posto o alcuna domanda assurda, fare esattamente l’esercizio di Morrison nell’intervista: invertire i ruoli e verificare allora se la situazione è ancora concepita come normale.

Riguardo a quello che mi dici sull’essere donna, sì sicuramente la sofferenza è doppia e lo sguardo dominante oltre ad essere bianco è maschile. L’uomo bianco occupa lo spazio, il tempo di parola, l’espressione, il denaro… Personalmente questa presa di coscienza sulla dominazione maschile è arrivata relativamente tardi. Ho sempre visto chiaramente come gli uomini avessero molti più diritti nella mia società e questo m’ha sempre dato rabbia, ma ho dovuto affinare il mio sguardo per essere sempre più attenta a tutti i comportamenti problematici. All’inizio della mia carriera d’editrice ero molto turbata leggendo dei manoscritti di autori uomini dove il rapporto uomo-donna era descritto solo dal punto di vista maschile. Le scene d’amore ovviamente riportavano espressioni e impressioni di donne che mi sembravano totalmente di fantasia, false e che non potevano che essere causate da una misoginia globale, un patriarcato ben radicato nella nostra società e che mi rendo conto toccano tutti gli ambiti, tutte le classi, poiché persino l’immaginario degli scrittori, degli intellettuali ne è impastato. Nei romanzi algerini che ho letto, ho visto più narrazioni maschili sulle mestruazioni, che femminili. Gli uomini si sono sentiti capaci di parlare di questa esperienza che non hanno mai vissuto, mentre le donne no, o poco. Mi sono davvero posta la domanda sul perché. C’è un’evidenza da un punto di vista quantitativo, le donne che scrivono in Algeria sono molto meno numerose, molte meno ad essere pubblicate. Torniamo alla necessità di prenderci questo spazio per poter essere di più a scrivere, per creare narrazioni differenti. Così anche a noi editori sta essere più curiosi e attenti alla scrittura delle donne.

Ti racconto un’ultima storia sconvolgente che mi è accaduta nel 2016 legata alla scrittrice Assia Djebar. Un anno dopo la sua morte, insieme ad altre due donne, decidiamo di dedicarle un incontro per omaggiarla durante un festival letterario. Tra il pubblico c’era un poeta algerino che l’aveva conosciuta e che alla fine della discussione prese la parola per dire che di fatto le opere più importanti di Djebar erano quelle che aveva scritto durante il matrimonio con Malek Alloula, poiché era lui a correggerle le bozze, una volta separati si poteva notare – ha aggiunto – un netto calo nella qualità dei suoi lavori.

Sono stata malissimo! Come si può affermare una cosa così degradante nei confronti di una scrittrice che ha avuto una carriera incredibile? Forse quello è stato uno dei momenti più importanti per prendere coscienza che non fosse possibile lasciare tutto lo spazio a queste persone, bisogna riprenderselo, crearlo, occuparlo. Tutto quello che faccio con le mie edizioni, o nella mia vita professionale in generale, è legato a questa consapevolezza e questa voglia di prendersi il posto, di posizionarsi al centro e non ai margini. Ecco questo, a dire il vero, è anche il tema del prossimo numero della mia rivista Fassl!

Cara Maya,

ti ringrazio e riprendo come un bandolo della matassa questa ultima frase “posizionarsi al centro e non ai margini” mi fa pensare a bell hooks che ha scritto molto sui margini come luogo di riscatto e resistenza. Ti ricopio qualche parola da Femminist Theory, form the margin to the center4, per pensarci insieme a te:

Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Per noi, americani neri, abitanti di una piccola città del Kentucky, i binari della ferrovia sono stati il segno tangibile e quotidiano della nostra marginalità. Al di là di quei binari c’erano strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo mangiare e persone che non potevamo guardare dritto in faccia. Al di là di quei binari c’era un mondo in cui potevamo lavorare come domestiche, custodi, prostitute, fintanto che eravamo in grado di servire. Ci era concesso di accedere a quel mondo, ma non di viverci. Ogni sera dovevamo fare ritorno al margine, attraversare la ferrovia per raggiungere baracche e case abbandonate al limite estremo della città.

C’erano leggi a governare i nostri movimenti sul territorio, non tornare significava correre il rischio di essere puniti, vivendo in questo modo – all’estremità – abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo. Guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, abbiamo concentrato la nostra attenzione tanto sul centro quanto sul margine. Li capivamo entrambi. Questo modo di osservare ci impediva di dimenticare che l’universo è una cosa sola, un corpo unico fatto di margine e centro. La nostra sopravvivenza dipendeva da una crescente consapevolezza pubblica della separazione fra i due luoghi e da un sempre più diffuso riconoscersi degli individui come parte necessaria e vitale di un insieme. Questo senso di appartenenza, impresso nelle nostre coscienze della struttura della vita quotidiana, ci ha dato una visione positiva del mondo, un modo di vedere sconosciuto a gran parte dei nostri oppressori. Esso ci ha sostenuti e aiutati nella lotta contro la povertà e la disperazione, rafforzando il nostro senso di identità e di solidarietà.

Rispetto alle donne e al loro spazio letterario, ho appena letto delle pagine di Hélène Cixous, che mi piace trascriverti, perché così vicine alle tue. Ne Il riso della Medusa5 dice:

Bisogna che la donna scriva sé stessa: che la donna scriva della donna e che avvicini le donne alla scrittura, da cui sono state allontanate con la stessa violenza con la quale sono state allontanate dal loro corpo; per gli stessi motivi, dalla stessa legge e con lo stesso scopo mortale. La donna deve mettersi nel testo – come nel mondo e nella storia – di sua iniziativa.

Credo che tu conosca Cixous meglio di me, la ricordavo per il suo lavoro a Parigi, per la creazione del primo Centro di studi femminili e di genere in Europa, proprio oggi riguardando la sua biografia ho scoperto che è nata ad Orano, in Algeria! Mi torna in mente il passaggio di Mohammed Dib, che mi hai mandato, dove provocatoriamente rigira la domanda dei critici francesi agli scrittori algerini sulla loro gratitudine verso la lingua francese e si chiede se mai si interrogheranno su quanto gli algerini (e le algerine!) hanno dato a questa lingua.

Qualche giorno dopo queste lettere ho chiamato Jesal, in uno spazio di mezzo tra il suo fuso orario e il mio. Per lei era mattina nel suo appartamento di New York, con le finestre che danno su grandi alberi, un uovo che bolliva nel tegamino per la colazione. Per me un pomeriggio caldo, nell’unica stanza un po’ più fresca della casa che si affaccia su uno scorcio del centro storico di Palermo, tra macerie che nessuno sa datare e qualsiasi genere di rumore e suono che siamo in grado di immaginare. Parliamo anche di questa corrispondenza con Maya, della rivista che cura, di come sta affrontando la questione della critica locale e del bilinguismo per riuscire ad oltrepassare la dicotomia francese-arabo e riconoscere che entrambe le lingue ormai appartengono all’Algeria o forse nessuna delle due.

Mi viene da pensare che si parta sempre dalla lingua. La più antica idea dell’alterità, della differenza per me è legata alla lingua. Io parlo un dialetto indiano che considero la mia lingua madre, altre tre lingue indiane, ma dalla mia infanzia la lingua formale della mia educazione è stata l’inglese. Per me il confine è spesso questo, inglese e non inglese.

Lotto con la lingua, come potere che mi appartiene. Le storie che cerco di raccontare attraverso il mio lavoro sono spesso di persone che non usano l’inglese o che magari riescono ad usarlo per comunicare, ma non pensano in quella lingua. Per me quello è ancora il potere coloniale.

Cerco un uso non violento e non coloniale della lingua. Non è una questione di soggettività non voglio che la lingua diventi la mia identità. È molto bello quando la lingua diventa uno strumento e noi riusciamo ad essere consapevoli della natura dello strumento e dei suoi ingranaggi e riusciamo a cambiarne l’assemblaggio e il meccanismo, producendo lingue rotte, spezzate. Nessuna lingua è pura, persino l’indi, proposto come la lingua dell’unificazione, della decolonizzazione, ha in sé gli stessi meccanismi di dominazione che distruggono le differenze.

Non ho niente altro se non quello che so. Quindi la mia esperienza. In uno dei miei lavori video “The laughing club” racconto la storia di un gruppo di persone che si incontra un parco semplicemente per ridere, senza usare le parole. Queste risate sono la loro connessione. Quello che mi orienta è cercare queste cose nascoste, che spesso sfuggono allo sguardo dominante. È un atto di rivelazione, ma ciò che viene svelato è di fatto l’impossibilità di vedere. Per me tutto ciò che è anche solo un po’ distante, un po’ fuori, ciò che viene appunto ignorato e dimenticato è interessante. Mi piace sfiorarlo e provare a comunicare che sono così tante le cose che non possiamo vedere!

Sto molto attenta che non sia un’esposizione troppo forte, cerco di rispettare questa invisibilità in qualche modo, perché non venga subito cooptata. L’atto della traduzione è centrale nella mia pratica artistica, mi permette di rendere visibile ciò è era invisibile nella stessa logica di avere a che fare con l’impossibilità. Ogni traduzione è un atto impossibile, ci si può solo avvicinare quanto più possibile. Penso sia importante che si capisca che può esserci violenza anche nell’atto di assumere lo sguardo dominante dell’artista. Conosci il concetto di maroon?

Si, l’ho imparato da Jeanne, una donna dell’isola de La Riunione. Pare che sia il modo in cui venivano definiti gli schiavi fuggiaschi nelle Americhe, ma anche nelle Antille e nell’arcipelago delle Mascarene di cui fa parte anche la Riunione. In francese si usa l’espressione maronage per indicare il tentativo di sfuggire, fuggire appunto, non percorrere sentieri battuti ma inventare nuovi cammini possibili.

Sì, queste sono parole importanti per il mio lavoro. Marooning, Commoning… e da Agamben destituzione, potere destituente. Anche prima di leggere Agamben, mi era capitato di pensare ai monaci in Asia. Sono mendicanti di giorno e monaci di notte. Vanno di casa in casa di giorno e vivono da quello che la gente dona loro. Attraverso questa pratica sviluppano la loro filosofia e la loro meditazione, ma c’è molto in questo loro vivere rispetto al potere di destituire il genere, il corpo, gli apparati sociali.

Il tuo discorso sulla prossimità con ciò che non possiamo vedere mi fa pensare a come possiamo espandere la nostra attenzione, recuperare le nostre abilità sensoriali, la corporalità dei nostri sensi, non limitandoci appunto alla vista come unico accesso al reale. Infatti, credo sia anche una sfida delle arti non rimanere monopolio dello sguardo, ma attivare una sensorialità più ampia, interrogandoci sulla sovraesposizione violenta, pornografica delle immagini degli altri. Come riappropriarci del sensibile comune, che sta anche nella radice etimologica della parola comunicare? È una lunga ricerca di un’espressione non violenta.

Ti devo mostrare una cosa. Una scrittrice meravigliosa, la nipote di Gandhi, Leela Gandhi. Ho letto il suo lavoro per più di dieci anni. In una sua lezione ho sentito il concetto di “Non injourious lifes”. L’ho usato nello scorso semestre per ripensare il mio ruolo di insegnante. Lei è ripartita dal concetto di non violenza, ma è un concetto così tanto usato e deformato… Come lo tradurresti non-injurious life?

Direi vite, pratiche non lesive, non dannose per altri, che non creano sofferenza

È difficile da tradurre vedi? Perché alienata dal suo contesto anche questa idea diventa difficile da capire, in questo caso l’eredità ricevuta dalla cultura indiana e dalla sua famiglia sulla riflessione sulla non-violenza. Leela si pone in dialogo con tutto questo e se non riusciamo a far risuonare quel dialogo, in effetti non riusciamo a veicolare la potenza del suo concetto davvero militante.

È molto interessante questo spostamento del concetto di non violenza. Spesso mi capita di pensare all’impossibilità di eliminare completamente la violenza dalle nostre vite, dalle nostre azioni. Se ripenso anche a questi processi di cui stiamo parlando, ovvero al decolonizzarci, al disimparare lo sguardo dominante, sono essi stessi a volte processi violenti perché ci lasciano in balia delle nostre vulnerabilità.

È quando diventiamo reciprocamente vulnerabili che impariamo. Si può arrivare a uno sguardo che non crea sofferenza. Si può guardare con amore. Spivak diceva spesso, “read without suspicious” e aggiungeva “meet me on the way, on the middle, somewhere”.

Leggi senza sospetto. Incontriamoci lungo la strada, al centro, da qualche parte.

Note

Note
1Gianni Menarini (a cura di), Negri U.S.A., nuove poesie e canti della contestazione negro-americana, Sansoni, 1969
2Cristina Ubah Ali Farah, Madre piccola, Frassinelli, 2007
3Valeria Deplano, La madrepatria è una terra straniera: libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra (1945-1960), Le Monnier università-Mondadori education, 2017
4Bell Hooks, L’elogio del margine, Feltrinelli, 1998, p.68
5Hélène Cixous, Il riso della Medusa, in R. Baccolini (a cura di), Critiche femministe e teorie letterarie, CLUEB, 1997, p 221

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