Bertolt Brecht in Cina
Un'intervista a Marco Scotini sulla Biennale di Anren
Sabato 28 ottobre inaugura la Biannale di Anren, per l’occasione pubblichiamo un’intervista a Marco Scotini, curatore di una delle sezioni.
A breve inaugurerà Today’s Yesterday, la prima Biennale di Anren di cui stai curando una sezione. Come si inserisce questa manifestazione artistica, e la tua partecipazione a essa, all’interno del processo di biennalizzazione che hai esaminato anche in Artecrazia? Credi sia possibile creare spazi di contestazione all’interno di questo sistema in espansione?
Quello che in Occidente si è cercato (e si cerca ancora) di occultare, in Cina non ha avuto veli fin dall’inizio. Fin da quando, cioè, la cosiddetta arte contemporanea si è imposta nel sistema culturale cinese con la transizione all’economia di mercato di Deng Xiaoping. Le prime biennali degli anni Novanta (che si trovassero a Guangzhou o a Shanghai) non era chiaro quanto fossero mostre o fiere commerciali. Quello che i cinesi riuscivano a leggere nel sistema occidentale (e dunque a importare) era piuttosto lo stretto e proficuo legame tra arte ed economia. Ci hanno messo un bel po’ per capire che c’era anche dell’altro. Eppure la mostra China-Avantgarde del fatidico 1989 era rimasta aperta solo due settimane, poi fatta chiudere per i temi che la nuova arte cinese toccava. Dunque la stessa censura ideologica e politica non faceva (e non fa altro) che favorire un’arte di natura meramente commerciale. Il processo della biennalizzazione qui, dunque, ha un altro corso. Essere dentro e contro qua non significa immediatamente smascherare la fantasmagoria del capitale perché il suo volto è nudo, evidente. All’opposto, mi è sembrata più efficacemente discorde l’operazione di mascherare la realtà, di lavorare con il teatro, con la metafora e la fiction.
In questi giorni si sta tenendo il diciannovesimo Congresso del Partito Comunista Cinese in un Paese che ha un rapporto particolare con il comunismo in quanto ha integrato, nella sua politica e nella sua economia, gli elementi più radicali del capitalismo. Oltre a essere un altro passo verso l’occidentalizzazione culturale (e quindi economica) del Paese, da dove nasce, secondo te, la necessità di questa Biennale a Anren?
Il cosiddetto sogno cinese troverà una definitiva consacrazione dopo il 19° Congresso con una sempre maggiore repressione dell’opposizione. Non so ancora se qualcuna delle mie sale sarà fatta chiudere oppure no. Comunque, sperando bene, apriremo il 28-29 ottobre Anren biennale che vedrà la rimessa a punto di un’intera vecchia e bella cittadina del Sichuan. Anche in questo caso non ci discostiamo dal modello del super potere immobiliarista; solo che invece dell’ennesimo quartiere/foresta a trenta piani, c’è il restauro conservativo e la riattivazione di Anren come città museo e polo turistico. Forse la biennale qui potrà essere piuttosto un modo per ripensare e rifocalizzare l’attenzione sulla tanto temuta (e perciò rimossa) storia moderna della Cina.
La riscoperta di storie dimenticate, nascoste e cancellate dalle grandi narrazioni ufficiali, i meccanismi attraverso cui viene raccolta e trasmessa la memoria, sono tratti distintivi della tua ricerca critica e curatoriale. Rapportando questo interesse al titolo che hai scelto per la tua sezione, The Szechwan Tale. Teatro e Storia, emerge una reciproca influenza che credo sia importante approfondire: il teatro come racconto di una storia e la Storia come messa in scena.
Brecht è stato veramente un forte aiuto, non solo una fonte d’ispirazione per costruire la narrativa di questa biennale. Il fatto di seguire le tracce della sua opera in Cina non era programmato ma è diventato un percorso obbligato dopo che ho scoperto, in una casa da tè in Anren, il libro di Wei Minglun, La donna buona, la donna cattiva del 2002. Si trattava di un processo di appropriazione e di indigenizzazione del suo testo L’anima buona del Sezuan, che veniva realmente riambientato in situ e fuori dalla proiezione che Brecht ne aveva fatto da lontano. Alcune coincidenze come il cambio di maschera, nello stesso personaggio, da donna a uomo, da Shen Te a Shui Ta e la tecnica teatrale del Bian Lian hanno ulteriormente sviluppato la ricerca, fino a risalire indietro nel tempo e incontrare lo straordinario Mei Lanfang a cui Brecht attribuiva l’origine del suo effetto di straniamento. Così ho pensato di realizzare l’esposizione come una sorta di meta-teatro in cui gli spettatori si trasformano in attori sulla scena della storia. Non trovano la sintesi di una rappresentazione ma i suoi pezzi frammentati, disseminati nello spazio. Penso al grande sipario autonomo di Ulla von Brandenburg e all’opera Theatre Pieces di Celine Condorelli che sono frammenti di palco che possono essere re-assemblati e de-assemblati continuamente. Allo stesso modo vi risultano trattati i frammenti della storia: se penso a Mao Tongqiang e alle sue centinaia di foto segnaletiche degli anni Cinquanta e Sessanta dove le persone sono ritenute colpevoli perché di estrazione borghese: un gioco di scena (e un cambio di maschera) anche qui visto il ruolo che l’attuale alta borghesia ha assunto all’interno del partito comunista cinese…
Trovo molto interessante il rapporto che c’è fra i due punti di partenza della tua sezione, L’anima buona del Sezuan e la Rent Collection Courtyard. Gli autori di entrambe le opere, per rendere più potente il messaggio che intendevano comunicare, hanno lavorato in un luogo guardando alla tradizione di un altro: Brecht alla Cina e al suo teatro, gli scultori cinesi al Realismo occidentale. Come si esprime questo rapporto nella tua mostra?
Diciamo che quello che Brecht cercava in Cina ero l’opposto di quello che gli autori dell’opera collettiva The Rent Collection Courtyard cercavano in Occidente. La loro ricerca dello psicologismo e illusionismo scultoreo era quello che Brecht rifiutava attraverso il ricorso alla drammaturgia tradizionale cinese. Ma in entrambe le opere la teatralità è il centro nevralgico sia per condannare il nazismo da parte del drammaturgo tedesco, sia per condannare il feudalesimo prima di Mao da parte degli scultori dell’Accademia del Sichuan. La loro reciproca proiezione su una alterità che non conoscono mi sembra che possa ulteriormente accumunare i due grandi lavori.
Pensando a Brecht e al suo interesse per la Cina, mi viene in mente Il romanzo dei tui, un’opera incompiuta e frammentaria ambientata in Cima (Cina) per raccontare la Germania. Si tratta di una denuncia dell’ignavia degli intellettuali e della loro condiscendenza nei confronti del potere, sia esso economico o politico. Nel primo caso perché trattano le proprie idee come una merce, nel secondo perché accecati dall’ideologia. Pensi sia possibile, con l’arte, affrontare questo tema in un Paese in cui è difficile comprendere quale tra le due entità sia preponderante?
Pensa che in mostra c’è anche l’Antigone di Brecht filmata da Straub-Huillet nel 1992 dove il ruolo del dissenso in rapporto al vecchio e al nuovo regime è centrale. Come misurare lo scarto tra l’ideologico e l’economico se non mettendolo in scena? Come diceva Brecht il mondo può ancora divenire l’oggetto di una rappresentazione, a partire dall’esibizione del gap tra realtà e recitazione, tra nudità e travestimento. A patto però di essere presentato come un mondo plastico, che può essere trasformato.
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