Spazzolare la storia contropelo

Utopian Display. Geopolitiche curatoriali

Ravi Agarwal, Alien Waters (2004-2006).
Ravi Agarwal, Alien Waters (2004-2006).

Gli ultimi trent’anni hanno visto la proliferazione di musei, biennali, fiere, gallerie e programmi di residenza, di pari passo alla progressiva finanziarizzazione della cultura, alla privatizzazione di musei e all’aziendalizzazione dei processi di formazione. C’è da chiedersi quale possa essere un nuovo paradigma per le istituzioni di arte contemporanea che vogliano porsi come terreno di contestazione dell’ordine egemonico (Mouffe).

Utopian display. Geopolitiche curatoriali, (Quodlibet, 2019) tenta di fornire delle risposte a questo interrogativo. L’edizione, curata da Marco Scotini per la nuova collana NABA Insights, è una raccolta di casi studio raccontati dalle voci più autorevoli dello scenario curatoriale contemporaneo, attive in contesti geopolitici diversi Africa, India, Palestina, America Latina, Sud-est asiatico, Cina, Est Europa. L’antologia ha il valore di una fenomenologia di pratiche curatoriali e modelli museali, esemplari perché capaci di superare la retorica dell’inclusività e l’ingenuità della globalizzazione, con un processo di radicale decostruzione delle istituzioni.

Utopian display è un contributo prezioso a una letteratura critica del sistema dell’arte contemporanea, che negli ultimi trent’anni si è assunta il compito di ridefinire il ruolo delle istituzioni, in uno scenario globale che col disgelo del 1989 ha visto decadere l’egemonia culturale europea e che con la crisi finanziaria del 2008 ha visto imporsi quella neoliberista, e ora deve procedere nella direzione di una decolonizzazione dello sguardo. L’istituzione così come viene decostruita e riconfigurata nei contributi di Anselm Franke, Ute Meta Bauer, Hou Hanru, Vasif Kortun e Pierre Bal Blanc deve rinunciare ad avere un punto di vista neutro, e privilegiato nella codificazione culturale, e diventare terreno di costruzione di una storia che, lontana dall’essere pacificata, è sempre incarnata in uno specifico contesto sociopolitico e fa i conti con l’irrisolto e il rimosso. Unica possibilità di coltivare futuri possibili.

In questo senso la potenzialità del display inteso come la totalità di strategie di produzione di conoscenza e modalità di ricerca risiede nella messa in discussione del modello neoliberista e globalizzato di produzione, diffusione e fruizione dell’arte contemporanea. Nel solco della critica al tardo capitalismo, un display che voglia opporsi a un modello di produzione sempre più brandizzato, e appiattito dall’univocità della modernità, deve opporsi al modello colonialista, e volgersi verso la costruzione di soggetti resistenti. Che si tratti di curare mostre, pubblicazioni, public program, l’istituzione intesa come dispositivo epistemico, deve porsi oltre il progressivo livellamento delle differenze, e la ricerca di un oggettivismo di matrice positivista. Abbandonando ogni tentativo di rintracciare un canone che abbia pretese di omogeneità, l’istituzione decostruita assume un carattere organico, capace di mutare in base al contesto politico, sociale e culturale, e farsi essa stessa catalizzatrice di trasformazione.

Un’organicità che deve confrontarsi con la nevrosi identitaria come l’ha definita Gerardo Mosquera riferendosi al contesto dell’America Latina ovvero con la spinta essenzialistica e tradizionalista a riconoscersi in pochi caratteri cogenti e ricondurre ad essi l’intera sfera della produzione, circolazione e fruizione artistica. Un processo che ha portato all’invenzione del non-Occidente, dell’esotico, dell’auto-esotico e di un modello safari. Il neologismo coniato da Tina Sherwell per spiegare la produzione artistica nel contesto palestinese si riferisce all’atteggiamento curatoriale che davanti a un contesto inedito, proietta su di esso un bisogno di autenticità, macchiata di primitivismo, per ricondurlo come elemento di alterità al proprio paradigma di riferimento.

Rispetto a queste spinte la ridefinizione della propria identità, per emanciparsi completamente dall’invenzione occidentale, non può che essere endogena, con il rischio, ben chiaro a Simon Njami che si diventi attori della propria nevrosi identitaria rischio arginabile se la ricostruzione viene affidata ai singoli, che dovranno imparare a riconoscersi attraverso il proprio sguardo e disimparare a vedersi irrevocabilmente costruiti dallo sguardo altrui. Rasha Salti farà ricadere sui singoli, oltre alla configurazione di un’identità inedita, la responsabilità di costruire una storiografia a partire dalle memorie collettive e da archivi privati, dissidenti e non allineati.

L’istituzione, così spogliata delle sue istanze moderniste e storiografiche, riscopre la sua specificità nel forgiare nuove narrazioni e nel raccontare molteplici storie dell’arte, rendendo chiaro a questo punto che l’utopia evocata dal titolo deve essere quella di spazzolare la storia contropelo, di far emergere una un passato irrisolto, una contro-storia, frammentata e discontinua, e dare voce a corpi indisciplinati, politicizzati, vitali e liberati dall’estetica modernista e dal discorso patriarcale. Andrea Giunta e Miguel A. López consegnano l’itinerario di Utopian display ai corpi non normati che risolvono la questione identitaria e quella storiografica nella prospettiva queer, la cui eccentricità antinormativa riesce a far naufragare l’egemonia eterosessuale dominante.

Se è vero che la responsabilità dell’arte contemporanea è quella di preparare alla rivoluzione per accogliere un nuovo assetto mondiale possibile, una cartografia virtuosa dell’immagine che potrebbe avere si trova in Utopian Display, per quanto si tratti di un’immagine ancora tutta da costruire.

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