Cattelan e la banana attaccata al muro
Verso una «post-critica istituzionale»

La filosofia si limita, appunto, a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla. Poiché tutto è lì in mostra, non c’è neanche nulla da spiegare. Ciò che è nascosto non ci interessa
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1953
Il clamore mediatico che si è recentemente generato attorno alla vendita all’asta dell’opera Comedian (2019) di Maurizio Cattelan ha nuovamente portato l’artista al centro del dibattito critico, soprattutto in relazione alla riflessione che l’opera solleva riguardo al valore nell’arte contemporanea. In particolare, la presunta provocazione attribuita alla povertà dei materiali con cui l’opera è stata realizzata – una comune banana fissata al muro a 160 centimetri da terra tramite del nastro adesivo grigio1 – ha suscitato indignazione e sospetto persino tra le fila degli esponenti del sistema arte. Tale reazione appare quantomeno singolare se si considera che: a) è trascorso oltre un secolo dall’introduzione del primo ready-made duchampiano, che ha posto le basi per una radicale ridefinizione del concetto stesso di opera d’arte e dei fondamentali del suo valore; b) l’acquisizione di opere di artisti come Pablo Picasso a cifre simili potrebbe risultare in alcuni casi, «vantaggiosa» sotto il profilo meramente economico. A titolo esemplificativo: Comedian (6,24 milioni di dollari) è stata stimata in proporzione al 3,46% rispetto a Les Femmes d’Alger (Version ‘O’) di Pablo Picasso (179,4 milioni di dollari) e al 4,45% rispetto a Femme à la montre (139,4 milioni di dollari), senza considerare l’1,38% rispetto a un’opera come il Salvator Mundi di Leonardo da Vinci (450,3 milioni di dollari). Ciononostante, sebbene con un valore di mercato sensibilmente inferiore rispetto a quotazioni che, almeno per gli addetti ai lavori, avrebbero dovuto ormai rendere insonne lo sguardo critico, l’opera si è distinta per l’apparente – e, in parte, effettiva – esasperazione speculativa che ne caratterizza il contesto. Paradossalmente, sembrerebbe che le cifre stratosferiche raggiunte da opere che portano con sé un valore storicamente e dogmaticamente consolidato non suscitino più clamori, ma che, anzi, vengano ulteriormente legittimate da uno sguardo ortodosso, anche quando un’opera che ne mette in evidenza i meccanismi economici sottostanti viene battuta all’asta.
Eppure, a pensarci bene – facendo eco a un celebre aforisma di Maurice Denis – potrebbe risultare molto più conveniente pagare 6,2 milioni di dollari per una banana e del nastro adesivo che non per una «superficie piana, ricoperta di colori combinati in un certo ordine»2 venduta per 179,4 milioni. In tal modo, Comedian diventa un tentativo di evidenziare quanto e come il dogmatismo critico, nel suo insistere su un valore esterno all’opera, impedisca di riconoscere il gioco della transustanziazione artistica: un esercizio tutto sommato arbitrario, dalla forte valenza sociale, per cui una banana può trascendere la sua natura contingente, nella maniera in cui il vino si trasforma in sangue durante il rito eucaristico. A partire da queste constatazioni, il caso Comedian sollecita la necessità di discernere una categoria d’approccio analitico di natura descrittiva da quella legata al giudizio di valore. Distinzione che, almeno nelle intenzioni e nella rilettura proposta, mira a individuare nel valore relazionale, che affonda le sue radici in un contesto eminentemente materialistico, una chiave interpretativa che non può prescindere dal contesto socioeconomico in cui il dispositivo si inserisce e che, al contrario, risulta profondamente legato alle sue capacità di creare connessioni e dunque significati.
Già Antoine Watteau, in L’Insegna di Gersaint (1720), metteva in scena la natura relazionale del sistema socioeconomico dell’arte del tempo, rivelando come il mercato non fosse un elemento accessorio ma una parte sostanziale dell’opera stessa. Attraverso la riduzione e la miniaturizzazione dei quadri all’interno della bottega del mercante, Watteau formalizzava il processo di trasformazione dell’arte in oggetto d’affezione, celebrando il desiderio del consumatore-collezionista. La pittura, ormai inserita nel circuito mercantile, si presentava nella sua condizione assoluta di merce, anticipando, in qualche misura, quello che oggi è possibile riconoscere nel sistema fieristico – luogo in cui, non a caso, Comedian ha fatto la sua prima apparizione3.
Analogamente al processo di riduzione delle opere rappresentate nella bottega che, migrando dalla solennità allegorica delle loro rappresentazioni alla quotidianità prosaica, perdono la loro valenza simbolica trascendente per inserirsi in una dimensione sociale e relazionale diversa; la banana di Cattelan, già simbolo classico della Pop Art warholiana, ri-acquisisce significato solo all’interno del contesto socioeconomico e istituzionale in cui è collocata. Comedian, infatti – e qui vi è il fulcro della riflessione – non si presta a una funzione registica predefinita, ma si comprende nella maniera in cui attiva il circuito relazionale che la circonda. L’attenzione si sposta, pertanto, dall’oggetto in sé alla rete di significati e reazioni che si sviluppano intorno a esso. Come un postmoderno Watteau, Cattelan spoglia dunque il simbolo della sua funzione solenne per rivelare le dinamiche del sistema di cui è naturalmente parte, permettendo che il significato emerga attraverso la relazione tra l’opera, il desiderio del pubblico e il suo contesto.
L’oscenità4 prosaica è quindi da prendersi alla lettera, nel suo rimando etimologico a ciò che è fuori scena, pur strutturando un’ambigua forma drammaturgica finzionale: l’opera non esiste in abstracto; il suo significato si definisce fuori dalla scena, attraverso le relazioni con il pubblico, il mercato, le istituzioni e gli attori coinvolti. In tal proposito ritorna alla mente ciò che Giorgio Agamben ha scritto riguardo al concetto di «profanazione»5. Se per il diritto romano le cose «sacre o religiose […] erano sottratte al libero uso e al commercio degli uomini»6, sottintendendo un processo di sacralizzazione che in questo caso rivela chiare analogie con il dogmatismo legato al ruolo civilizzatore del valore artistico come norma teleologica; la restituzione dell’oggetto al suo scopo primario si configura come «profanazione», che lo trasforma in un «controdispositivo che restituisce all’uso comune ciò che il sacrificio aveva separato e diviso»7. Le pretese valoriali di cristallizzare l’opera attraverso una postura rigida e aprioristica decadono, giacché più che riferirsi a un significante legato a un significato trascendente, il valore si dissolve nel suo indice relazionale, scardinando il principio di sostanza. Non c’è valore da offrire, ma agenzialità performativa che coinvolge l’intera rete connettiva; così come non sussiste «ermeneutica», ma «un’erotica dell’arte»8.
La struttura a cui Cattelan fa riferimento, seppur indirettamente, non è limitata al simbolo, ma diventa un vettore performativo. Questo permette, ad esempio, a Justin Sun (l’acquirente) di divorare la banana, trasformando l’atto di consumo e distruzione in un gesto che dissolve l’opera stessa nella sua dimensione prosaica. Questo gesto, che va oltre la mera provocazione, si configura come un atto capace di espandere la rete di significati dell’opera, generando un nuovo «nodo», per usare il linguaggio di Bruno Latour, e innescando ulteriori dinamiche semantiche. L’opera non è più un oggetto da ammirare o collezionare, ma diventa un punto di connessione tra desiderio, consumo e critica. Questo processo risulta come un equivalente della dematerializzazione del valore di scambio, come nel caso delle criptovalute, di cui l’acquirente stesso rappresenta un esempio emblematico9.
Il presupposto che anima Comedian non risiede tanto in una contestazione arbitraria dei fondamenti ideologici alla base delle dinamiche del mercato dell’arte, quanto in una loro grottesca e innaturale dilatazione, il cui giudizio si arresta laddove si limita a evidenziarne l’energia strutturale. Per questo, agli occhi dello scrivente, l’opera sembrerebbe inserirsi nel solco tracciato da artisti che, attraverso la creazione di situazioni o dispositivi visivi, hanno cercato di decostruire l’identità arbitraria dello spazio espositivo, rivelandone le dinamiche politico-finanziarie celate dietro le quinte. In questo senso, la critica istituzionale in Comedian assume la forma di un’analisi dei sistemi di relazione con il pubblico, che, concretizzandosi nel momento espositivo, lascia emergere con forza la necessità di interrogarsi su cosa sia l’arte e su come essa prenda concretamente forma e valore. Cattelan ha, infatti, trasformato la vendita all’asta in una situazione dove le connessioni sono molteplici. L’atto della vendita, che normalmente segue una liturgia precisa, viene trasposto nel valore performativo dell’opera, smontandola e aprendo a molteplici interpretazioni. Dal punto di vista metodologico, si pone l’evento come un’operazione che fa ragionare metalinguisticamente sul funzionamento della macchina dell’arte. È un’operazione istituzionale, una messa in scena dei gangli vitali che compongono l’opera stessa, in cui l’artista, nel suo ruolo di «produttore»10, parla di un prodotto che avviene e lo rende esperibile.
Se una certa forma di dogmatismo interpreta questa dinamica come una chiara espressione dell’o-sceno binomio arte-mercato da condannare, uno sguardo più analitico consente, al contrario, di riconoscere una macchina relazionale e performativa che si inserisce nel circuito in cui si colloca. In questo contesto, il meccanismo del mercato diventa il carburante osceno che attiva processi di significazione in continuo divenire. In Comedian, la banana rappresenta l’origine, ma il suo significato è continuamente rinviato e sospeso, risiedendo, infine, nell’interazione con il sistema di rete. Non si può negare il livello di speculazione insito nella manovra finanziaria che la sostiene, ma questa diventa evidente nella misura in cui il dispositivo funge da meccanismo iperbolico e sociale. Se si analizza la questione con una lente dialetticamente ortodossa, la controversa pratica artistica di Cattelan non può che risultare complice tanto del mercato dello spettacolo quanto del mantenimento dello status quo. Tuttavia, se si parte dal presupposto di descriverne i processi e di intenderli al di là dell’ideologia, ma soprattutto di inserire l’artista nel «terreno concreto del proprio lavoro dentro il sistema di produzione»11, il caso Comedian potrebbe aprire la strada per una rilettura di ciò che storicamente è stato collocato sotto l’etichetta di critica istituzionale.
Tuttavia, è necessario fare alcune precisazioni. Se si pensa a opere come MoMA Poll (1970) di Hans Haacke, in cui si trasmette un contenuto politicamente forte attraverso la decrittazione di una verità scomoda a cui segue un rifiuto politicamente schierato, è chiaro che ci si allontana dal discorso che Cattelan pone in essere. D’altra parte, se consideriamo un’opera come Untitled (2001), in cui un mini-Cattelan spunta dal pavimento dello stesso spazio espositivo, come se colto in un comico tentativo di fuga fallito, emerge l’impressione che in questo caso l’artista evidenzi tanto l’impossibilità di vivere al di fuori della macchina produttiva, quanto una «presa d’atto di un’attrazione fatale per la profondità e i suoi effetti più nocivi, a dispetto delle buone intenzioni»12 . Una riflessione sulla macchina che in parte era già contenuta nelle considerazioni di Mario Tronti ne La fabbrica e la società (1966), riguardo al rapporto tra produzione e lavoro vivo, ma che qui va ripensata, edulcorata dalla sua prospettiva teleologica.
Sebbene i dispositivi messi a punto da Cattelan mostrino una chiara attitudine decostruttiva, o quanto meno tendano, nella loro natura relazionale, a mettere in evidenza i meccanismi sociali che contribuiscono alla costruzione del valore contestuale, è fondamentale notare come questa attitudine non cada mai nella logica del disvelamento né nella creazione di un principio positivo da contrapporre antiteticamente all’oggetto della critica, ovvero allo stato delle cose. Nonostante la trasparenza, tutto in Comedian resta sulla superficie. Ciò che emerge invece è l’assenza di telos, la volontà di non costituire un fondamento positivo che generi una comunità attorno all’oggetto di decostruzione. Piuttosto, l’intento è quello di creare un oggetto relazionale che fornisca gli strumenti per una possibile decostruzione, senza scivolare nella pedagogia positiva. Se nelle pratiche della critica istituzionale si assisteva al passaggio dal sancta sanctorum al disincanto contrappositivo, qui si fa un passo ulteriore, verso il desiderante. Comedian mette l’individuo di fronte al processo economico di cui è parte, piuttosto che a contenuti precostituiti.
Inoltre, emerge l’impossibilità di separare il contenuto dal contesto. Si può parlare di Comedian senza la vendita all’asta? Chiaramente no, perché l’asta è parte integrante della costruzione del suo valore drammaturgico. C’è una consapevolezza relativa al momento dell’esposizione come momento di mediazione, ma la trasparenza che si crea giocando con questi materiali non sfocia in una «ermeneutica del sospetto»13.
La scelta del materiale è cruciale: l’asta stessa che funge da veicolo per l’esperienza; al punto tale che il medium è il messaggio. Pertanto, risulta chiaro che il suo valore non può essere separato dalla rete relazionale in cui si inserisce e, di conseguenza, dal rapporto che l’individuo intrattiene oggi con la produzione artistica. Un rapporto che genera un valore intrinsecamente contestuale, che consente al fruitore di esperire direttamente la natura relazionale del significato. Questo aspetto deve essere inteso come un mero elemento «compositivo« di ciò che apparentemente si presenta come un oggetto chiuso in sé stesso, nella sua allure provocatoria. Non si tratta di una questione ontologica: chiaramente, chi acquista l’opera possiede una banana che è «contestualmente« diversa da quella che sarebbe se non fosse accompagnata da un certificato di autenticità. Ma è proprio quest’ultimo, insieme alla rete di attori che vanno dal collezionista al pubblico, dal battitore al valore costruito dalla dinamica di mercato – che è, tutto sommato, mera espressione culturale – fino all’artista stesso, a costituire il «quadro« da analizzare. In tal modo, mettendo da parte gli occhiali con cui si tenta di osservare ciò che ci si aspetta dalla forma storica, e soffermandosi sugli elementi che questa operazione fornisce all’analisi, si evince chiaramente che Comedian non tende affatto a esprimere un contenuto ideologico, tantomeno una poetica personale. Piuttosto, si configura come un dispositivo che consente di riflettere apertamente ed «enigmaticamente» sul senso sociale del fare arte, sul ruolo dell’artista e dell’opera nel contesto contemporaneo ma, non ultimo, sulla produzione del valore in senso lato. Alla base della distorsione iperbolica delle contraddizioni che coinvolgono le componenti istituzionali che determinano il senso di ciò che si percepisce, l’opera di Cattelan si limita a sospendere e amplificare, offrendo uno spazio di riflessione non risolutiva. Come segnalava già Elio Grazioli in Quell’enigma di Cattelan (2019), il potenziale della sua pratica risiede nella capacità di generare una condizione di «sospensione»:
non un rebus, non un indovinello di cui si debba cercare la soluzione, ma uno scatenatore di straniamento che induce domande, riflessioni mai chiuse, mai risolutive in senso analitico14.
La «sospensione» a cui allude Grazioli va ricercata nella modalità con cui l’artista, mettendo in luce le criticità che definiscono il suo ruolo, l’uso e il consumo dell’opera, evita di costruire un’alternativa ideologica. La mancanza di una referenza esplicita, contrapposta alla trasparenza dell’operazione dai connotati pseudo-truffaldini, non solo svela i meccanismi paradossali del mercato dell’arte – che, come detto, è un tratto tipico dell’attitudine della critica istituzionale –, ma sposta l’attenzione su di essi in modo decisamente post-dialettico e, per certi versi, post-critico.
L’artista, pienamente consapevole del controllo relativo che detiene sulla produzione delle sue immagini, riconosce e accetta l’autonomia dell’opera rispetto al suo autore. Tale consapevolezza si traduce nell’utilizzo deliberato dell’ambiguità semantica come strumento di creazione. In questo contesto, l’atto performativo di Comedian introduce un elemento «a-grammaticale»15, che non si manifesta come un azzeramento, ma come un’apertura. L’ambiguità insita nel non offrire un messaggio univoco crea uno spazio in cui molteplici interpretazioni e sguardi trovano margine di convivenza molteplice.
In linea con Grazioli, si potrebbe dire che questa apertura non è definita da una volontà autoritaria, ma si configura come un vuoto, una sospensione che è insieme enigmatica e provocatoria. Un precedente significativo di questa modalità operativa può essere rintracciato nell’installazione realizzata da Cattelan nel 2004 in Piazza XXIV Maggio a Milano. Qui, l’artista innesca un processo i cui esiti rimangono indefiniti, culminata poi in un’interpellanza al Comune di Milano e stimolando una pluralità di reazioni, dalle argomentazioni giornalistiche alle polemiche pubbliche. Questa strategia evidenzia come la comunicazione stessa diventi un materiale con cui lavorare, al pari di un colore o di un qualsiasi altro elemento della pratica artistica. Non si tratta di propaganda apodittica, bensì di un intervento che rende visibile il funzionamento della società contemporanea.
In questo senso, la critica istituzionale che emerge dal discorso di Cattelan è consapevole delle impossibilità della significanza e del momento dell’esposizione come momento di condivisione in cui l‘oggetto, nella sua «dirompenza»16 sfugge dalle mani dell’artista, può essere definita come una critica indebolita. A suo modo, rappresenta dunque un’opera che si discosta dalla concezione di arte come Geborgenheit, ovvero come momento di risoluzione o di conforto. L’opera non si impone come una risposta definitiva, ma come un dispositivo che destabilizza, amplifica e riapre continuamente il campo delle possibilità interpretative attraverso l’offerta di un’esperienza in atto.
In questo senso, non si preoccupa tanto della «melodia« in sé, intesa in termini tradizionali, quanto della modalità con cui essa, assimilabile a un’arpa eolica, viene inserita nel contesto per generare armonie imprevedibili le cui caratteristiche non sono note a priori17. In questa prospettiva, atti performativi come il gesto del collezionista-broker che mangia la banana consapevole di poterla successivamente sostituire rilanciando, e forse anche aumentando il prezzo, si configurano come una componente essenziale di questo processo: un «suono eolico» da cui emergono più interrogativi che risposte. L’opera diventa dunque una riflessione aperta sulla società stessa, un dispositivo che non cristallizza il significato ma lo lascia fluire; opera relazionale e celibe, mai compiuta né definitiva. Questi gli aspetti che rimandano ai caratteri salienti della postcritica, come delineati da Mariano Croce in un recente saggio edito da Quodlibet. Croce sottolinea, infatti, che la postcritica si esprime meno attraverso il «dire» e più attraverso il «fare»18. Una simile prospettiva, del resto, era già stata anticipata nel 1972 da Gilles Deleuze e Félix Guattari, quando scrivevano che:
leggere un testo […] non è mai un esercizio erudito alla ricerca dei significati, ancor meno un esercizio altamente testuale in cerca di un significante, ma un uso produttivo della macchina letteraria, un montaggio di macchine desideranti, esercizio schizoide che libera del testo la sua potenza rivoluzionaria19.
Se, dunque, l’autore si assume al massimo il ruolo «provvisorio del legatore», significa accettare che ci si trovi davanti a processi di significazione che sfuggono alla tentazione di catturarne l’«idea fissa»20. È attraverso la «maniera»21 in cui il segno emerge che, nell’ottica di Croce, non può sussistere creazione ma, al massimo, ricollocazione costante del significato. Questo il passo verso un avanti che non segue una direzionalità precisa, che non pone nuovi idoli da sostituire a quelli che si muovono nel sottotesto delle apparenze. Sebbene Comedian non si riferisca direttamente a quell’«apparato di sapere preposto allo scoprimento e allo studio accorto di quei meccanismi ritenuti in grado di portare alla luce la loro presa sulle coscienze e sulle azioni degli agenti nella vita di tutti i giorni»22 nel suo configurarsi come «macchina desiderante» traccia una nuova direzione verso una postcritica istituzionale. Questa prospettiva, in linea con ciò che Croce descrive come il passaggio «dalle mediazioni cognitive a quelle connettive»23, suggerisce un atteggiamento in cui il «sentire» anticipa e orienta il «capire», con una sensibilità estetica che funge da preludio all’intelletto24 . D’altronde, se «il bello è sempre bizzarro», forse sarebbe opportuno «parlare in nome del sentimento, della morale e del piacere»25 che non tentare, invano, di erigere dei monumenti alla sostanza.
Note
↩1 | Lo stesso impiegato dall’artista in A perfect day (1999), quando appese il gallerista Massimo De Carlo alla parete della sua galleria a Milano. |
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↩2 | Riporto qui l’aforisma per intero: «Un quadro – prima di essere un cavallo da battaglia, una donna nuda, un qualsiasi aneddoto – è essenzialmente una superficie piana, ricoperta di colori combinati in un certo ordine». |
↩3 | Esposta per la prima volta presso lo stand della Galleria Perrotin ad Art Basel Miami Beach nel dicembre 2019, con una quotazione di 120.000 dollari. |
↩4 | Si rimanda alla controversa radice etimologica del termine, derivante dal latino obscēnus o obscaenus, composto dal prefisso ob- (che indica opposizione, contrasto o lontananza) e da scaena (collegato al termine latino per «scena» o «palcoscenico»). L’etimologia suggerisce, quindi, l’idea di qualcosa che si trova «fuori scena» o «lontano dalla scena». |
↩5 | Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo (2006), p. 26. |
↩6 | Ivi p. 27. |
↩7 | Ivi p. 28. |
↩8 | Susan Sontag, Contro l’interpretazione (1964), in Id., Contro l’interpretazione e altri saggi, Nottetempo (2022). |
↩9 | Justin Sun è un imprenditore e dirigente d’azienda di origine cinese attivo nel settore delle criptovalute. Ha fondato TRON, una piattaforma blockchain con una criptovaluta associata e un ecosistema basato su una DAO (Organizzazione Autonoma Decentralizzata), oltre a USDD, una stablecoin gestita dalla TRON DAO Reserve. |
↩10 | Si veda Walter Benjamin, Autore come produttore (1934)., in Id., Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Einaudi (1973). |
↩11 | Nelle avvertenze alla prima edizione di Forme estetiche e società di massa (1973), Alberto Abruzzese scrive che «la critica all’operaio luddista deve valere anche per l’intellettuale. […] Troppo abituato all’ideologia, o alla negazione di essa, egli deve finalmente comprendere il terreno concreto del proprio lavoro dentro il sistema di produzione» (p. XVI). |
↩12 | Mariano Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet (2019), p. 15. |
↩13 | Ivi p. 13. |
↩14 | Elio Grazioli, Quell’enigma Cattelan, in Elio Grazioli e Bianca Trevisan (a cura di), Maurizio Cattelan, Quodlibet (2019), p. 218. |
↩15 | Gilles Deleuze, Bartleby o la formula, in Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, Bartleby, la formula della creazione, Quodlibet (1993). |
↩16 | Si veda Elio Grazioli, Quell’enigma Cattelan, op. cit. |
↩17 | Si veda anche cosa scrive Nicolas Martino a proposito del ruolo dell’autore come «compositore» in Mariano Croce e Andrea Salvatore (a cura di), La postcritica è solo un pretesto, Quodlibet (2023). |
↩18 | Mariano Croce, Postcritica., op. cit., p. 21. |
↩19 | Gilles Deleuze e Felix Guattari, L’Anti-Edipo, Capitalismo e schizofrenia (1972), in esergo. |
↩20 | Mariano Croce, Postcritica., op. cit., p. 12. |
↩21 | Ivi p. 10. |
↩22 | Ivi p. 14. |
↩23 | Ivi pp. 24-25. |
↩24 | Si veda Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (1932-33): «L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire» in Quaderno 11 (XVIII), § (67), Einaudi (2007). |
↩25 | Charles Baudelaire, Metodo di critica. Dell’idea moderna del progresso applicata alle belle arti. Spostamento della vitalità (1855), in Id., Scritti sull’arte, Einaudi (1981), pp. 183-189. |
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