Arte, politica, femminismo

Un dialogo tra Veronica Montanino e Anna Simone

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Lucia Marcucci, Marx (1977) - Dettaglio; Courtesy Galleria Frittelli (Firenze).

Venendo a sapere di Arte, pratica di resistenza. Dialoghi tra una sociologa ed un’artista (Meltemi, 2024), la mia mente è corsa inevitabilmente ad un libro centrale per la mia prima formazione, Libre-échange, parimenti scritto a quattro mani da un sociologo, Pierre Bourdieu, e da un artista, Hans Haacke, esattamente trent’anni fa (1994), tradotto praticamente in tutte le principali lingue del mondo ma non – ancora? – in italiano. Tra ora ed allora vi sono naturalmente enormi differenze, per epoca, per generazione, per sesso e per genere, nonché, naturalmente, per le specifiche poetiche che dividono sul piano della creazione artistica e le specifiche teorie che dividono sul piano della elaborazione sociologica.

Per quanto sia sempre stato assai freddo rispetto a questa definizione, Haacke è considerato, almeno per un certo periodo, l’artista politico per eccellenza. La cattura dei linguaggi e delle immagini della sfera politico-economica è una sua cifra caratterizzante. Veronica Montanino denota spesso e volentieri un piglio decorativo e gioioso, non disdegnando di aprirsi alla dimensione ambientale ed anche laboratoriale. Se alcuni di tali tratti – non tutti suggeriscono già di per sé una distanza siderale dall’artista tedesco, che al confronto appare in tutta la sua austerità concettuale, ma sia detto questo senza alcuna accezione negativa, essi indicano evidentemente altre vie per essere politici. Montanino rivendica «nonostante tutto, la libertà di dare corpo alla propria fantasia e di dare sostanza al proprio mondo» come qualcosa di «radicalmente politico». Contrappone inoltre tutto ciò «ad una tendenza molto diffusa nel panorama contemporaneo, quella dell’arte impegnata militante. […] È un territorio dai confini ben definiti che risponde, certamente, a un bisogno della critica e del sistema socio-culturale (non solo dell’arte), nonché economico di categorizzare, di ordinare, tassonomizzare, in cui rientrano tutta una serie di artisti che incarnano un ruolo eminentemente civico e sociale. Quindi per arte e politica si intende un’arte ibridata con l’attivismo (Artivismo è il titolo del libro di Vincenzo Trione che parla proprio di questo) e che in qualche modo critica, denuncia e si dichiara «contro» tutta una serie di temi: dalle diseguaglianze sociali al razzismo, dalla negazione dei diritti alle discriminazioni di genere, dalle questioni ecologiche ad altri tipi di emergenze. Al tempo stesso, quest’arte è inserita e si fa legittimare da quel sistema stesso che critica, come una sorta di tautologia. Infatti, spesso è accolta dalle istituzioni che attacca, ma che tuttavia la celebrano rendendola visibile; è sostenuta da realtà sia pubbliche che private, comuni, amministrazioni, fondazioni che le garantiscono accesso a fondi, spazi pubblici e così via».

In controluce rispetto a tale dichiarazione credo vada letta anche la felice esperienza del MAAM di Roma, in quanto «contro-istituzione», museo alternativo «legato ai movimenti per il diritto all’abitare»: «Il MAAM ha inaugurato con un mio intervento, un’opera per la ludoteca destinata ai piccoli abitanti della fabbrica occupata, ma poi sono stata molto attiva in tutta la prima fase anche invitando altri artisti […] La cosa davvero sorprendente è stata che moltissimi hanno aderito, non so quale sia il numero allo stato attuale, ma a un certo punto si parlava di circa cinquecento artisti […] Le conclusioni cui sono arrivata […] è che l’arte […] è sempre e solo politica. […] Infatti nasce come rifiuto e come riformulazione della realtà data […]».

Per quanto il suo contributo non sia esclusivamente riducibile ad una sociologia dell’arte e della letteratura, la riflessione su di esse, sulle logiche di potere che si instaurano nei loro campi, è senz’altro una delle linee di ricerca più celebri di Bourdieu. Anna Simone condivide con quest’ultimo l’analisi dei campi come spazi di conflittualità, ma fin ora si volge innanzi tutto a quelli della devianza, delle migrazioni o del genere. Così ella racconta la sua relativamente recente scoperta della potenza dell’arte, come va ad innestarsi sulla sua coscienza politica, nutrita peraltro da una lunga militanza, da ricondursi probabilmente agli impulsi più profondi di tutto il suo percorso di ricerca scientifica: «Nella mia vita ho fatto tanta politica, ma sino a qualche anno fa non avevo mai associato questa esperienza all’arte, almeno fintantoché non sono accadute delle cose nella storia di Roma e del Paese come, per esempio, la nascita di alcuni movimenti di artisti. Mi viene in mente, in particolare, l’esperienza del Teatro Valle e quindi anche tutta quella stagione di vertenze aperte dai lavoratori dello spettacolo e dagli artisti, ma anche l’esperienza del Cinema Palazzo a San Lorenzo e altri movimenti simili. È stato a partire da qui che ho cominciato a pensare al rapporto che intercorre tra arte e politica, a pensarlo come qualcosa di inscindibile. Credo sia anche accaduto perché non ho mai pensato la politica come qualcosa che non avesse a che fare con la dimensione dei sentimenti, delle emozioni, quindi dell’esperienza intera della vita».

Non di meno vi è per lei anche un non insignificante prima, l’arte e la critica femminista degli anni Settanta, legata a nomi come Carla Lonzi, Carla Accardi o Mirella Bentivoglio, la «guerriglia verbo-visiva» del Gruppo 70 e, trascendendo lo specifico delle arti visive, i fenomeni legati all’ala creativa dei movimenti politici di quel medesimo decennio, nonché un dopo potenzialmente assai fecondo, nell’ambito degli «studi che ho fatto con Federico Chicchi […] abbiamo immaginato l’arte come una pratica in grado di aprire all’aspetto sensibile dell’esistenza. […] la possibilità di accedere ad un immaginario che potesse rimettere al centro tutta la dinamica delle emozioni e della poetica intesa sia come resistenza all’alienazione che come cura di sé e degli altri». E chissà che qui non sia lecito rinvenire un’eco della riflessione estetica francofortese e in particolare marcusiana.

Una differenza sul piano strutturale tra il libro di Bourdieu ed Haacke e quello in esame è poi data dal fatto che il primo è scandito da numerose illustrazioni di opere di quest’ultimo, operazione in sé senz’altro legittima, visto che un artista parlerebbe innanzi tutto con le immagini. Arte, pratica di resistenza è però il volume inaugurale della sezione «Posizionamenti» della collana ideata dalla rete «Sociologia di posizione»; si configura dunque innanzi tutto come uno spazio per la ricerca sociologica, senza nulla togliere naturalmente al principio dell’interdisciplinarietà e nemmeno alla non dissimulata philia che lega le due autrici. Così Montanino accenna verbalmente a qualche sua opera, ma persino per l’immagine di copertina si lascia spazio ad un’altra artista, la storica esponente della poesia visiva Lucia Marcucci, la cui opera ad acrilico su cartoncino con impronte di collage del 1977 si intitola laconicamente Marx, ma, attraverso l’immagine di un corpo evidentemente femminile sul quale si stagliano le quattro lettere del cognome del filosofo di Treviri dipinte di rosso senza curarsi delle vistose colature, sembra alludere al rapporto di alleanza, ma probabilmente, più ancora, di conflittualità che sussiste tra marxismo e femminismo proprio nel periodo cruciale in cui l’opera è datata, non meno peraltro che tra marxismo e ragioni dell’arte. Un passaggio del celebre articolo (1970) con il quale Carla Lonzi annuncia le sue dimissioni dall’attività critica per dedicarsi alla militanza femminista sembra manifestare molto eloquentemente le difficoltà di una triangolazione perfetta marxismo-femminismo-arte: «Che il marxismo neghi validità e resti repressivo di fronte agli artisti non è il minore degli indizi che ci fa ritenere ipotetica la rivoluzione che esso propone».

Oltre cinquant’anni dopo, né il declino del marxismo né l’innegabile crescita della presenza femminile in tutti gli ambiti della sfera pubblica, compresi quelli della cultura e delle arti visive, rende obsoleta la questione del femminile, del femminismo ̶ del femminino –, per quanto si ponga necessariamente in termini diversi. Essa non può dunque che divenire un altro argomento cruciale nella conversazione tra una sociologa ed un’artista, tanto più all’indomani di una Biennale di Venezia come quella curata da Cecilia Alemani, ove, ricorda Montanino, «su 213 artisti 191 erano donne […] moltissime erano anche di colore. Inoltre, i premi assegnati hanno sancito un vero e proprio trionfo dell’arte africana, indigena».

Una svolta di cui senz’altro prendere atto, ma le due autrici si trovano d’accordo anche nel non accogliere tutto ciò con eccessivi trionfalismi. Assai eloquente a tal proposito mi pare la nozione di «donnismo» proposta da Simone, persuasa che «l’essere incluse solo perché donne non cambia il mondo, semmai aiuta molte donne a diventare uguali agli uomini pagando l’alto prezzo di pensare di cambiare tutto per poi finire con la frustrazione del non poter cambiare niente. Una donna che pratica la sua autorevolezza e la sua libertà, se davvero differente, dovrebbe anche lavorare affinché cambi alla radice il modo in cui sono strutturati i poteri. E questo vale anche per il mondo dell’arte, non solo per la politica, il diritto, l’economia e la società». E Montanino le fa eco: «la polarizzazione e la messa a valore della «parte offesa» è davvero un gesto politico? Qualcosa che davvero cambia l’ordine delle cose o è piuttosto l’espressione, come qualcuno ha detto, di un politically correct di stampo statunitense – vista anche la provenienza della curatrice – paradossalmente segnato da retoriche postcolonialiste e glamour avente come finalità l’apertura di una nuova fetta di mercato?».

La questione del mercato e della mercificazione è un altro motivo ricorrente, benché una opposizione totale al sistema mercantile dell’arte, sul modello di pensatori critici di qualche decennio fa, che pure probabilmente Simone e Montanino non disdegnerebbero di prendere come riferimenti, è categoricamente esclusa. La seconda distingue infatti tra il «Lavorare solo per il mercato o solo affinché quelle opere siano vendibili, (che) comporterebbe la perdita dell’identità stessa dell’artista» e la circostanza per cui «l’opera d’arte è anche un oggetto di mercato, da possedere, collezionare eccetera, e non c’è nulla di strano perché le società in cui viviamo funzionano così», né il possesso inficerebbe la fruizione ché i due concetti restano separati – e quindi neanche quella dimensione di spazio aperto che l’opera istituirebbe, incoraggiando l’altro a «entrare e a produrre a sua volta il senso di ciò che sta osservando», e ciò in virtù del fatto che l’arte rientrerebbe in quella categoria che Simone chiama efficacemente «non tutto».

La critica della mercificazione è così condotta più sul piano dello svuotamento dell’immagine riprodotta ai fini di marketing, dunque, del livello iperbolico cui giunge ormai quella che quasi un secolo fa Walter Benjamin chiama «riproducibilità tecnica»e in seguito viene analizzata nei suoi effetti depotenzianti da numerosissimi autori, sia pure da diverse angolazioni: da Peter Bürger a Jean Baudrillard, da Arthur Danto a Franco Berardi Bifo. Interessante in tal senso la tesi di César Aira, secondo il quale «l’arte contemporanea si può definire proprio a partire dalla sua resistenza ad essere riprodotta», che Montanino riconduce alla sua stessa poetica, «pur non riuscendo a rintracciare una volontà cosciente di rifuggire la sua riproducibilità».

Inevitabilmente il discorso lambisce anche le minacce della virtualizzazione sempre più spinta, esplicitamente additati da Simone: «La cultura dematerializzata, priva di eros, a me fa paura ad esempio. E non perché sia reazionaria, ma perché ritengo che la tecnica – peraltro è già accaduto con i social – agevola ulteriormente il percorso di «deculturazione» di massa nel quale siamo già abbondantemente immersi. È chiaro che non potremo arrestare questi processi, ma come potremo co-abitare con questa grande metamorfosi del mondo in cui l’immateriale prende progressivamente piede? Che ne sarà della cultura per come noi la intendiamo? La tecnica si sostituirà alla natura o la natura si rivolterà contro di essa, forse definitivamente?». Domande pronunciate al netto di una convinta opposizione a qualunque visione implichi una troppo nitida linea di separazione tra natura e cultura, di cui l’opera Colture di Montanino costituisce una mirabile confutazione per immagini.

Certo, sulla questione di come l’arte può essere politica ci si imbatte in proposte di grande senso e fascino, ma il richiamo in negativo al recente libro di Trione di Montanino, come anche quello al realismo socialista sovietico di Simone, finiscono per evocare solo le forme più deteriori di ciò che rifiutano, tralasciando una fenomenologia ben più complessa. A tal proposito vale ricordare quanto osservato da Elvira Vannini all’indomani dell’uscita di Artivismo, denunciando come il suo autore si impadronisca «di una radicalità che non gli appartiene e che ha ignorato per vent’anni», non riesca «proprio a distinguere tra gli artisti compiacenti e asserviti allo star system e le esperienze estetico-politiche che hanno fatto dell’arte un campo di soggettivazione», né sia capace «di andare oltre le tradizionali categorie discorsive sul rapporto arte e politica, per far emergere, piuttosto, le molteplici aspirazioni sociali, femministe, ecologiche che sono passate (e che passano) per l’estetico». L’operazione di Trione, condotta, come evidenzia Vannini, sulla deliberata espunzione di «tutta la letteratura internazionale (e già ampiamente storicizzata) in tema di arte/politica/attivismo», ha in definitiva successo solo con la complicità di un vuoto da vertigine tutto italiano intorno a certi studi.

Certo, la questione del mercato dell’arte è affrontata in conformità alla visione sostanzialmente anti-telologica che accomuna ampiamente le due autrici e le pone, loro malgrado, comunque nell’alveo della condizione postmoderna, ma nulla viene detto sulla differenza radicale tra il mercato dell’arte come può essere strutturato ancora fino ad una cinquantina d’anni fa, ove l’opera incontra il destino della mercificazione, ma non nasce già merce, e il mercato nell’era del neoliberismo, ché, come notano opportunamente Emiliano e Renato Brancaccio, in passato «non esisteva un mercato speculativo dell’arte, e non si vedevano i prezzi delle opere del più illustre sconosciuto schizzare in alto del trecento per cento in pochi mesi per poi piombare di nuovo verso lo zero non appena la bolla speculativa si fosse sgonfiata».

Nell’introduzione si chiarisce «che non abbiamo voluto avere nessuna pretesa di esaustività, ci interessava lanciare un piccolo sassolino in un dibattito pubblico che ci sembra troppo paludato e troppo spesso inchinato acriticamente dinanzi alle mode dello spirito del tempo». Dal canto mio, non mi è parso di poter fare uso migliore del loro prezioso sassolino – tanto più nel legame di stima intellettuale e morale, nonché nelle ampie affinità di sentire politico che, credo di poter dire, mi accomunano alle autrici – che sommare ai loro molteplici stimoli, qui sintetizzati come meglio non avrei saputo fare, qualche mia sollecitazione ad interrogarsi ulteriormente su certi punti.

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