Sotto la maschera

Camouflage e sussunzione

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Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito, 2017 - veduta dell'installazione, Museo Madre (Napoli) - Courtesy l'artista e Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee. Foto: Amedeo Benestante.

Ci si lamenta spesso in incontri come questo – qui riuniti in uno spazio istituzionale, quello della Galleria Nazionale, ci sono oggi gli spazi d’eccezione – di come le buone pratiche o le parole nuove vengano sussunte, riutilizzate, svuotate di senso e addirittura messe a profitto dal Capitale. Ne facciamo esperienza tutti i giorni. Ma quello che vorrei dire, tanto più che ci troviamo in un museo, è che questa pratica predatoria e assimilante non la si deve pensare necessariamente a senso unico, come cioè un percorso che muove inesorabilmente dal buono al cattivo, che trasforma il puro in corrotto. Né che questo gioco della mimesi, del camoufflage, del mascheramento (a fini difensivi come pure offensivi) sia appannaggio solo del sistema.

Prima di me, qualcuno degli intervenuti, presentando la varietà delle forme di resistenza qui chiamate a confrontarsi, ma anche la compattezza delle politiche culturali di questi nostri spazi antagonisti, ha detto che la lotta la si può combattere anche in un modo più tradizionale come fa il MAAM. Immagino che l’attributo tradizionale il MAAM se lo sia guadagnato in ragione del suo essersi voluto chiamare museo, parola dell’istituzione (sussunta a nostra volta potrei aggiungere) e nel fatto che ospita anche artisti di sistema, che non disdegnano le gallerie e le biennali. Con benevolenza siamo stati accolti tra i convenuti, anche se indicati, tra gli spazi indipendenti, come i meno radicali. Dico questo non per il piacere della querelle, ma perché nella sua emblematicità questo fraintendimento mi dà l’occasione di riflettere con voi su quello che dicevo in apertura. Fraintendimento, perché è indubbio che chi ha visto il MAAM come un luogo o una prassi tradizionale sia stato ingannato e confuso dal travestimento, sia caduto nella trappola.

Il MAAM, infatti, credo sia tutt’altro che tradizionale, e sotto numerosi punti di vista: non si avvale di denaro, ma utilizza il valore di mercato delle opere come barricata a difesa di una occupazione abitativa illegale; cerca un cortocircuito tra il punto più alto della città contemporanea, il museo, affidato alle archistar e fiore all’occhiello delle metropoli globali in competizione, e quello più basso, lo slum, mettendo la periferia al centro; non combatte frontalmente l’istituzione ma si fa istituzione autonominandosi e ripensando le regole del gioco; supera l’opposizione individuale/collettivo realizzando un’opera corale che è la somma di tutti gli interventi singoli; libera la politica (il MAAM è un museo politico, chiunque vi partecipi firma di fatto una petizione contro la precarizzazione della vita, per il diritto alla casa, alla liberta di movimento, alla bellezza, all’arte e alla cultura per tutt*) dall’obbligo di accogliere solo una dimensione estetica identitaria, dunque omologante (caratterizzata spesso dall’ipovisività, dalla smaterializzazione, dalla necessità di farsi cronaca e denuncia), per riconoscere pienamente all’arte, nella sua proliferante molteplicità di espressioni, una congenita capacità di resistenza, di vitalità, di mutazione nei confronti dello status quo1.

Immaginazione. Non ci sono buone pratiche replicabili. Se sono replicabili non sono buone 

Ha ragione Veronica Montanino quando si chiede: «Quanta fantasia ci vuole per legare l’abitare dell’essere umano al proliferare delle immagini come condizione dell’esistere… come se le pareti del Metropoliz fossero delle contemporanee grotte preistoriche in cui riparo e immagini diventano una cosa sola?». Fantasia, ecco credo sia questa la parola giusta. Immaginazione. Non ci sono buone pratiche replicabili. Se sono replicabili non sono buone. Come in qualche modo abbiamo tentato di dire con Exploit. Come rovesciare il mondo ad arte. D-istruzioni per l’uso, la ricetta è che non ci sono ricette, ma al tempo stesso che di ricette bisogna continuare a inventarne tutti i giorni.

Faccio un breve cenno ad altri due dispositivi museali nati in qualche modo dall’esperienza del MAAM, ma anche caratterizzati da regole proprie. Uno è il DIF, il museo diffuso di Formello2, un museo dovunque, che non ha bisogno di guardiania e ditta delle pulizie, perché sono i cittadini a scegliere dove collocare le opere della collezione (una collezione pubblica, comunale!), ospitandole in ufficio, a negozio, a scuola o in casa (ve ne sono anche al cimitero) e impegnandosi a renderle fruibili a tutti. L’altro è rimasto sulla carta, il Corviale-Capitolino, una succursale dei musei capitolini da collocare sul tetto dell’edificio di Mario Fiorentino, un innesto che avrebbe lavorato come un dispositivo d’incontro e che avrebbe simbolicamente risarcito la progenie di Remo (Romolo, fondatore di Roma ma anche fratricida, traccia il solco e definisce i confini della città, delimitando il centro e separandolo dal fuori, oggi la periferia), restituendole parte del patrimonio di famiglia che le spettava di diritto3.

Note

Note
1L’antropologo Marc Augé che di recente ha definito il MAAM un super-luogo, riconosce agli artisti un carattere vivificante, all’arte una istanza rivoluzionaria e democratica, la capacità di evocare, contro l’apparente immutabilità delle cose, uno stato nascente. Ha, l’arte, il potere di donare «a tutti e a ciascuno l’occasione di vivere un inizio» (cfr. M. Augé, L’antropologo e il mondo globale, Raffaello Cortina editore, Milano, 2014), snidando – proprio come l’antropologo – «il culturale e l’artificiale sotto la maschera della natura».
2Di recente pubblicazione il volume G. de Finis (a cura di), DIF/ il museo dovunque, Inside art autori, Roma, 2017.
3Cfr. G. de Finis (a cura di), Atlantide, Bordeaux edizioni, Roma, 2016.

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