Diserzioni

Marta Roberti, Paradise Lust 2018 - Foto di Giorgio Benni ok
Marta Roberti, Paradise Lust 2018 - Foto di Giorgio Benni.

Che fare, ora che siamo dinanzi a un nuovo antico regime di un’aristocrazia tecno-feudale divenuta governo statale, per colonizzare definitivamente la nostra psiche, il mondo terracqueo e lo spazio intero? Non rimane che disertare, malinconicamente, il futuristico presente per tornare a quel passaggio alla modernità, nelle pieghe delle stratificate lotte rivoluzionarie contro l’antico regime monarchico e feudale, il primo? Quando l’atto della diserzione, come postura individuale nel magma delle tensioni collettive, diviene per certi versi paradigmatico di un doppio, potente, rifiuto: da un lato di continuare ad accettare l’iniquo ordine costituito del passato, dall’altro di integrarsi, individualmente, in quello che si vorrebbe nascente.

Rivolta dentro la rivoluzione, contro il primo antico regime

È nella rivolta all’interno della rivoluzione, della English Civil War, in quegli anni in cui, dal «1645 al 1653 circa, in Inghilterra tutto viene rovesciato, messo in discussione e ripensato» (Hill, 1981, p. 4), che si assiste a questo doppio movimento. Sono gli «uomini senza padrone», in perenne movimento tra città e campagne, nel conflittuale binomio di «mobilità e libertà» (Ivi, pp. 30-46). Dai vagabondi, giocolieri, artisti, artefici, perdigiorno, oziosi e mendicanti, a tutta la forza lavoro occasionale di artigiani, edili, contadini, ambulanti e girovaghi che dall’Inghilterra rurale si avvicina a Londra e alle altre grandi città. Rifiutando, spesso singolarmente, l’obbedienza al signore e incontrando, nelle strade, nelle osterie, nelle piazze, agitatori, pensatori indipendenti, intellettuali disoccupati e quindi gli ufficiali della New Model Army (Ivi, pp. 47-62), che godevano di una certa libertà e autonomia, tutti pronti a innescare la scintilla della rivoluzione. Sono i «cospiratori della libertà e dell’uguaglianza», detestano e disertano le servitù (in)volontarie dell’antico regime, attraverseranno il Settecento rivoluzionario francese ed europeo, delle Repubbliche sorelle del 1796-1799, fino al lungo 1848 europeo, alla Repubblica Romana del 1849, insieme con «il cenobita, il filadelfo e il quintario»: insubordinati alle servitù e ai comandi del lavoro sotto padrone (Allegri, Ciccarelli, 2013, pp- 119-162).

Gente «senza legami e pronta a rompere con la tradizione» (Hill, 1981, p. 191), per rompere con i rapporti sociali esistenti e dare vita ai vari movimenti di Levellers e Diggers, quindi Seekers, Ranters e Quakers, che nella pluralità di idee e posizioni tenteranno il comune assalto alla monarchia inglese e all’ordine feudale, ma in una posizione ancora più radicale, di rivolta dentro la rivoluzione, appunto.

Tra loro troviamo Joseph Salmon (1606-1697, in Hill, 1981, pp. 203-204, dove sono ripresi i passi successivi), un personaggio di cui si sa pochissimo, salvo che appartiene ai Ranters. Si tratta di una setta religiosa dissidente, radicale, panteista, che in realtà non avrà mai una propria organizzazione e il cui termine (coloro che inveiscono) era un insulto coniato dai reazionari per descrivere persone ritenute dedite a stili di vita volutamente provocatori nei confronti della morale dominante e perciò accusate di blasfemia, promiscuità, ubriachezza, ma in realtà accomunate da un libero credo, affrancato dalla tradizione e in aperta contestazione di qualsiasi proprietà privata. Orgiastici comunisti nel cuore ascendente della modernità?

Joseph Salmon militava nel New Model Army contro cui si scaglia con il suo A rout, a rout (1649), rivolgendosi ai suoi «camerati soldati, quelli di rango e nascita inferiori», spronandoli a disertare l’esercito come fa egli stesso, perché chi teme «di deporre la spada per paura di perdere la propria libertà è chiuso in un’oscurità; […] voi temete il mondo, ed esso vi teme». Così Salmon abbandona l’esercito per schierarsi dalla parte del radicalismo religioso e politico, con i rivoltosi più estremi dentro la rivoluzione, finendo incarcerato nella retata dei Ranters del 1650.

Pietre contro il vento, da malinconiche altezze e solitarie profondità

Salmon tornerà libero solo in cambio dell’abiura, redatta nel 1651 con il titolo Heights in Depths and Depths in Heights. Qui non solo abdica ai princìpi rivoluzionari, dapprima da lui sostenuti e ora rifiutati, ma rivendica una diserzione assoluta nei confronti dell’intera società inglese, ancora in rivoluzionaria ebollizione. Si tratta di una fuga solitaria, per dimenticare tutto, per essere dimenticato da tutti. Ma non è una fuga da fermo.

«Sono ora nella pace delle silenti profondità dell’eternità, sprofondato nell’abisso del silenzio […] Il mio maggior desiderio (e quello da cui io ricavo il maggiore piacere), è di non vedere e non dire nulla».

È il quietismo assoluto cui Salmon giunge, l’isolazionismo dalla società che lo porterà a fuggire, in un esilio definitivo, nel mar delle Antille, nell’isola di Barbados, divenuta solo da un ventennio colonia inglese. Di lui non si saprà più nulla, morirà novantenne, quasi mezzo secolo dopo questi eventi, senza dare alcuna notizia di sé.

Ecco il doppio, probabilmente triplo, passo da melanconico disertore di Joseph Salmon. Abbandona l’esercito invitando gli altri alla diserzione. Si schiera dalla parte dei rivoluzionari radicali, rifiutando l’ordine morale, sociale e istituzionale esistente per una condotta di vita licenziosa e provocatoria. Quindi, da vittima della repressione, abbandona tutto, a partire dai suoi nuovi compagni, diserta la vita sociale, poi lo stesso spazio geografico della città, del Paese, del Continente: preferisce l’esilio in un’isola delle Antille. Perché «sotto il cielo c’è un tempo stabilito per ogni cosa; anche la vanità ha il suo tempo. […] Forse ora non sto facendo altro che gettare pietre contro il vento (e non è che vanità). […] Io ho vissuto per vedere la fine di tutte le perfezioni». Ecco il tono melanconico che pervade questi frammenti, nel mentre si evoca il passaggio dell’Ecclesiaste 3, 1-15, del Qoelet: Per ogni cosa c’è il suo momento.

Farsi malinconicamente beffe

Di Anatomia della malinconia (1621) parlava un immenso libro in tre volumi, di oltre mille pagine, che molta fortuna ebbe nei decenni precedenti gli eventi rivoluzionari inglesi, anche per la portata politica del suo argomentare. Si tratta di un’opera di grande erudizione e vertiginoso citazionismo barocco del saggista, pastore anglicano e bibliotecario Robert Burton (1577-1640) che già nell’introduzione chiarisce il suo intento di radicale critica del mesto e inebetito affaccendarsi nelle quotidiane follie della vita (Burton, 1983). E lo fa prendendo in prestito lo pseudonimo di Democritus junior, evocando il Democrito celebre per il suo riso perpetuo, il quale, sicuramente saggio, ma anche malinconico e ritenuto folle dai suoi concittadini, quindi oramai «solitario e libero, […] si fa beffe di coloro che perseguono un guadagno quale che sia» (Starobinski, 1983, p. 27). Perché «il luogo che Democrito occupa – fuori della città, lontano da coloro che danno la caccia a ricchezze e onori – è il medesimo in cui si sente confinato [Burton NdA]; [per] fare di Democrito il portavoce della sua stessa critica contro gli scandali del mondo contemporaneo: diatribe religiose, guerre, eccessi, arricchimenti scandalosi, abusi e ingiustizie di ogni tipo» (Ivi, p. 34). La stessa condizione esistenziale che vivrà qualche decennio dopo il disertore Salmon – oramai in rotta con la città, lontano dai conflitti dopo averli attraversati e vissuti personalmente – si riversa qui in Burton e nel suo alter ego democriteo che, in più, fa leva sul riso e sull’indignazione come strumenti satirici di una sfrenata demolizione dei tempi presenti.

Auto-terapeutica utopia malinconica, contro il nuovo antico regime tecno-feudale?

«Il riso solitario di Democrito è un riso offensivo e distruttore» (Ivi, p. 31), che però permette allo stesso Burton di proporre una sua Utopia per trasformare le istituzioni, le città, il mondo e, al contempo, provare a guarire se stessi dagli aspetti dannosi della malinconia. «L’utopia non sarà solamente un progetto destinato a cambiare la faccia del mondo, essa costituisce un’impresa auto-terapeutica» (Ivi, p. 37).

Così il riso malinconico del disertore permette di pensare la melancholia (la bile nera, la laina Cholè descritta da Ippocrate) non tanto come ripiegamento in sé stessi, ma come possibilità, partendo da sé stessi, di mettere in tensione produttiva passioni, immaginazione e attività pratica. Ora che il malinconico disertore è uno e trino: quello in fuga dalla rivolta nella rivoluzione, come Salmon; saggio, irridente e folle, lontano dalla città, come Democrito; affabulatore, enciclopedico e utopista, come Burton. Accettando questa volta la scommessa su quella nascosta «potenza che gli esseri viventi hanno di tornare in gioco, nonostante tutto».

Dall’artista itinerante – nato sotto Saturno1 all’attivismo sociale e culturale, per «modificare le forme della vita umana, rovesciare istituzioni e trasformare rapporti di potere» (Mazzeo 2010). Perché la malinconia, come attitudine distonica rispetto al contesto sociale e istituzionale nel quale si vive, «è una delle incarnazioni emotive dello squilibrio pulsionale di chi non è incastrato in un ambiente biologico o istituzionale. […] È dis-aderenza ai dintorni: distacco dalla regola, dall’ambiente biologico, dalla condizione culturale. […] È azione e innovazione, tentativo ed errore, rivolta e caduta, produzione agrodolce e continua di qualcosa di nuovo e amaro» (Ibidem).

Si tratta allora di tornare a produrre ancora una volta il passo da ironici e malinconici ballerini e ballerine della rivolta, dentro e contro l’attuale rivoluzione nera globale, di quell’aristocrazia tecno-imperiale che ci ripropone il nuovo antico regime feudale digitale, condito in salsa futuristico fascio-nazista. Del resto, da sopravvissuti darkoni neogotici nei tecno-liberisti anni Ottanta europei abbiamo almeno postura e abiti migliori per affrontare l’oscura notte infinita dello stregone con cappellino nero del dark&gothic MAGA. Dogs’ Blood Rising!

Alcune di queste riflessioni sono riprese da un precedente intervento, molto più articolato e lungo, pubblicato qualche anno fa: G. Allegri, «Diserzione», in F. Castelli, F. Giardini, F. Raparelli (a cura di), Conflitti. Filosofia e politica, Mondadori – Le Monnier Università, 2020.

Letture citate

Giuseppe Allegri, Roberto Ciccarelli, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società, Ponte alle Grazie (2013).

Robert Burton (1983), Anatomia della malinconia (1621), a cura di Jean Starobinski, Marsilio Editori (1983).

Ilaria Bussoni, Quel che resta del mondo è sempre abbastanza, in OperaViva Magazine (04.02. 2025) https://operavivamagazine.org/quel-che-resta-del-mondo-e-sempre-abbastanza/

Christopher Hill , Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, Einaudi (1981).

Marco Mazzeo, Malinconia. Antropologia di una passione: melanconia e rivolta, in Aa. Vv., Le passioni della crisi, manifestolibri (2010), pp. 143-159.

Jean Starobinski, Democrito parla (L’Utopia malinconica di Robert Burton), in Burton (1983), pp. 7-43.

Note

Note
1Per riprendere il titolo del celebre, indimenticabile, libro di Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese, Einaudi (1963), specialmente pp. 112-147, dedicate a «genio, pazzia e melanconia», dove è citato anche lo studio di Robert Burton Anatomia della malinconia, la cui terza edizione (del 1628) ha un frontespizio nel quale «il segno astrologico di Saturno domina in piena evidenza il cartouche superiore», con l’immagine di Democrito «che sperimenta e ragiona sulla bile nera, ma sul quale ricade la terribile influenza di Saturno. Lo stesso pianeta, lo sappiamo, può favorire le grandi imprese dello spirito, o i suoi peggiori guasti: il sapere e la follia» (Starobinski, 1983, p. 9).

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