È morto Dada, evviva Dada!

Che cosa c'entra Lenin con Tzara?

Claire Fontaine Untitled (Rattle) 2012
Claire Fontaine, Untitled (Rattle), 2012.

«Dichiaro che Tristan Tzara ha inventato la parola DADA l’8 febbraio 1916 alle ore 6 di sera; io ero presente coi miei dodici figli allorché Tzara ha pronunciato per la prima volta questa parola che ha scatenato in noi un legittimo entusiasmo. Questo avveniva al Café Terrasse di Zurigo e io avevo una brioche nella narice sinistra»1. Lo stravagante racconto fatto qui da Hans Jean Arp è, evidentemente, un dada joke, come lo chiamò molti anni dopo Robert Motherwell: si è molto discettato sulle diverse versioni fornite dai suoi stessi esponenti circa la nascita della parola che definisce il movimento più radicale e ironico mai esistito, ma a nessuna sembra di poter dare credito particolare, perché ironico Dada lo fu proprio nel senso etimologico del termine, con la sua vocazione a contraddirsi e a celarsi mentre spudoratamente rivela i meccanismi dell’arte, comportandosi come una critica d’arte e del linguaggio e come puro pensiero. Perché Dada pensa innanzitutto, continuamente, se stesso.

Nacque una parola, non si sa come: DADA, DADA…2 Ero in piedi dietro a Ball a guardare il dizionario. Il dito di Ball mostrava la prima lettera di ogni parola discendendo per la pagina. All’improvviso gridai: ferma. Ero stato colpito da una parola che non avevo mai sentito, la parola dada. Ball lesse: «Dada: parola infantile che significa cavallo». In quel momento, compresi i vantaggi che il termine aveva per noi. «Prendi la parola dada –dissi,- è proprio adatta al nostro scopo, il primo grido infantile esprime la primitività, la partenza da zero, la novità che caratterizza la nostra arte. Non potremo trovare niente di meglio. Da! Da!

Puro suono, non sense, vezzeggiativo («sei il mio dadà»), cavalluccio a dondolo, oppure logoclasta regresso alla pura lallazione. Parola che si identifica direttamente con l’espressione stessa al suo stato originale, così come il ready-made proclama l’indifferenziazione tra l’arte e l’oggetto nella sua reità. Nella sua misologia Dada gioca, distrugge e rinnega, tutto, fino al terrorismo.

Essendo dada l’espressione più diretta e la più viva del suo tempo, si rivolta contro tutto ciò che gli appare antiquato, mummificato, bloccato. Aspira a un radicalismo, geme, insulta e colpisce, si cristallizza su un punto e si estende sull’immensa superficie…

Il 2017 sta per arrivare, cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, mostrando il suo volto di Giano all’anno che si conclude, centenario dell’epifania di Dada su questa terra (si potrebbe anche parlare delle epoche chiamandole avanti Dada e dopo Dada se Dada non fosse, nella sua qualità di dionisiaco antagonista del Logos, coetaneo del Caos primigenio). Nel 1916, mentre la Grande Guerra imperversa sull’Europa mietendo milioni di morti, la Svizzera somiglia a una gabbia di uccelli circondata da leoni ruggenti, e molti artisti e intellettuali tra cui Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter e Jean Arp si avvicendano a Zurigo trovandovi temporaneo rifugio. C’è anche, sotto falso nome, Vladimir Il’ič Ul’janov, che con Nadežda Krupskaja il 20 o il 21 febbraio prende in affitto l’appartamento al numero 14 di Spiegelgasse, a pochi passi dal Cabaret Voltaire inaugurato pochi giorni prima: in esilio, molto meglio per la coppia rivoluzionaria restarsene a Zurigo, dove la vita almeno è «molto più animata»3.

Al Café Terrasse, in quel periodo, Tzara e il russo passano qualche ora giocando a scacchi o discutendo con i loro compagni, e ogni tanto si scambiano forse un indifferente cenno di saluto da un tavolo all’altro. Del resto, anche la città neutrale, e financo il Cabaret Voltaire, pullula dell’umanità più varia: «C’erano orecchie ad ogni angolo della strada, tipi loschi prendevano furtivamente delle note, tutte le voci provenienti dall’estero erano registrate e riprodotte. Il paese neutrale era l’unica finestra aperta sul territorio tedesco. Non un solo millimetro quadrato di quell’apertura rimaneva libero», ricorderà Marcel Janco4.

Di sera, per le strade buie illuminate da lanterne gialle e rosse, si incontrano pittori, studenti, esuli, imbroglioni internazionali, psichiatri, gente equivoca, scultori e cortesi spie a corto di informazioni. Zurigo dà riparo a profughi di specie diverse, rivoluzionari perseguitati, disertori e obiettori di coscienza che si mescolano a doppiogiochisti e turisti.

Maschere che animano le serate dadaiste di musica e parole in libertà, i teatri di marionette, le notti a tema russo e orientale: nel locale fumoso, una folla gioiosa di francesi, tedeschi, russi, rumeni e danesi danza, beve, canta, gesticola, ride tra le ombre e i giochi di luce proiettati nella sala. Come in una voliera tutti questi uccellini ribelli, furbi, liberi e sognatori, dimentichi ma non troppo degli infuocati leoni della morte che incendiano città e campi di battaglia in giro per l’Europa, si avvicendano al bancone del bar, inneggiano ai loro amici che si esibiscono sul palco, si riconoscono, si chiamano e si incoraggiano. Qualcuno, un russo sotto falso nome con occhi vividi e penetranti e i tratti orientali, che di giorno è facile incontrare al caffé o in biblioteca, si lascia andare al buon tempo e all’allegria: anche lui esulta nella sua lingua e incoraggia sì! sì! da! da!

Da! da! I dadaisti sono tipi che hanno lottato con la vita e che son capaci di vivere delle esperienze, individui dallo spirito penetrante che capiscono di trovarsi ad una svolta della loro epoca. Da lì alla politica non è che un passo. Domani ministri o martiri…

Autentico spirito rivoluzionario, il terribile bambino Dada è immaginifico e assolutista. Produce enunciati che si impossessano dell’immediato e ambiscono a rovesciare il sensibile comune. Non è possibile pensare alcuna rivoluzione, alcun sovvertimento del reale senza essere dadaisti, perché Dada è la sovversione, è l’arbitrario spostamento dell’idea dal mondo dell’immaginario a quello del possibile. Ciò che tre anni prima, nel 1913, Duchamp ha fatto con il ready-made, ossia scardinare una delle tradizionali attribuzioni di campo del reale dissipando il velo che lo separa dall’arte, è l’autentico principio di ogni atto rivoluzionario. Perché la rivoluzione politica è anzitutto rivoluzione estetica, del sensibile, a partire dai segni con cui il mondo della società e della politica si rendono visibili, dalle concatenazioni di pensieri e azioni che determinano ciò che fino a un momento prima era logico.

Strappiamo, quale vento furioso, il bucato delle nubi e delle preghiere! Distruggiamo i cassetti del cervello e quelli dell’organizzazione sociale: demoralizzare ovunque e spostare le mani dal cielo all’inferno, gli occhi dall’inferno al cielo!

Proposito per l’anno che viene: Dada e rivoluzione!

Note

Note
1 La dichiarazione di Arp è riferita da diverse fonti, tra cui Georges Hugnet, Dictionnaire du dadaïsme 1916-1922, ed. Jean-Claude Simoen 1976, p. 84
2I corsivi nel testo sono libere citazioni delle dichiarazioni di Tristan Tzara, Hans Jean Arp, Richard Huelsenbeck, Hugo Ball, Marcel Janco da diverse fonti, citati in Dominique Noguez, Lenin Dada, Éditions Robert Laffont 1989, trad. it. Lenin dada, Edizioni l’Affranchi, 1991
3Nadežda Krupskaja, Ma vie avec Lénine, ed. Payot 1933, p. 246
4 cit. it. in Dominique Noguez, 1991, p. 44

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