Esplorare i confini dell’avanguardia

Una conversazione di Marco Scotini con Radomir Damnjanović Damnjan

Radomir Damnjanović Damnjan, In Honour of Avant-Garde, 1973, Marinko Sudac Collection
Radomir Damnjanović Damnjan, In Honour of Avant-Garde, 1973 - Marinko Sudac Collection.

Marco Scotini: Sei emerso come uno dei maggiori rappresentanti della generazione degli anni ’60 della scuola di Belgrado. A quel tempo hai dato prove importanti come pittore astrattista tanto da meritare il premio della Biennale di São Paulo (1963) e l’invito a documenta 3 (1964). Poi sei passato all’arte concettuale. Com’è cambiato il clima culturale in Jugoslavia tra gli anni ’60 e ’70? C’è stata – intendo dire – una trasformazione oltre che linguistica anche ideologica e culturale? Come vedi questo tuo spostamento da un’arte astratta di tipo minimalista all’uso del video e della foto di matrice concettuale? Ješa Denegri aveva scritto sul volume «The New Art Practice» un paragrafo dal titolo «Damnjan after 1970»…

Radomir Damnjanović Damnjan: È una domanda molto complessa che ha bisogno di una risposta altrettanto articolata. In questo senso, mi piace sottolineare che sono l’unico artista di Belgrado che è passato da un estremo minimalismo a una pratica estetica di altra forma e contenuto, tanto ideologico che artistico. Il mio minimalismo si è trasformato grazie a un processo naturale che mi ha condotto a queste forme che potremmo definire post-astratte o post-oggettive. Sono entrato nell’arte concettuale spontaneamente e non ho sentito nessun problema in questa trasformazione. La nuova atmosfera coincideva, molto opportunamente, con il mio naturale processo di lavoro. Solo dopo mi sono ritrovato con critici e altri artisti che si sono chiesti dove questa tendenza potesse andare, come potesse condurre alla costruzione di una nuova estetica, come fosse una nuova possibilità per un sistema che aveva già accettato un’arte modernista, astratta, post-astratta, ecc. Poi ho incontrato anche dei giovani che avevano voglia di lavorare e di esprimersi in un’altra maniera rispetto alla tendenza precedente che, in un certo modo, non accettavano più ma con cui neppure volevano avere una relazione di tipo conflittuale.

In questo periodo l’università ha ottenuto un edificio dismesso della polizia segreta del Maresciallo Tito che, una volta liberato, è stato dato dalla commissione ideologica della cultura di Belgrado agli studenti. Si diceva «sono rivoluzionari e al centro di un’atmosfera rivoluzionaria. Vediamo cosa faranno». Così è nato il Centro Culturale Studentesco di Belgrado*. Io ne ero molto contento e collaboravo con questi giovani ma sempre in seconda linea per non infastidirli. Ero più grande e con maggiore esperienza. Poi si sono creati i programmi culturali. Tanti lavori sono stati subito presentati al Centro: non solo le performance di Marina Abramovič, ma anche i lavori di Braco Dmitrievič che veniva da Zagabria e di altri artisti provenienti dalla Slovenia. E così è andata. All’inizio la situazione è stata molto seria e c’è stata una petizione degli studenti, che hanno organizzato un programma senza denaro, dopo averlo richiesto alla città di Belgrado e al Ministero della Cultura fino ad arrivare ad una situazione di scontro: ad un certo momento l’Università di Belgrado ha chiamato qualcuno, tra cui me ed altri più grandi di me, chiedendo che cosa avrebbero potuto fare per non entrare in una condizione di rottura. Il Ministero della Cultura, attraverso il rettorato di Belgrado, si è così deciso ad aiutare il Centro per i primi tre, quattro anni, in rapporto a tutto quello che era necessario. Così, nel 1970, venne lanciato il Centro Culturale Studentesco SKC di Belgrado.

MS: Dunque si potrebbe affermare che l’arte concettuale trova nel Centro Studentesco un suo luogo di produzione e legittimazione. Sembra che tanto la nuova tendenza artistica che l’istituzione nascano assieme.

RDD: Sì, l’arte concettuale esisteva già, qua e là. I giovani che stavano uscendo dall’accademia e che non volevano più continuare con «i colori e i pennelli», o non volevano più dipingere per diverse ragioni, si ritrovavano al Centro. Così si forma questo gruppo che comincia a lavorare; inizia una nuova modalità di body art e di performance art, di letteratura, di musica, di tutto ciò che si può definire come manifestazione culturale. È andato tutto molto bene ma purtroppo dopo i primi due o tre anni qualcosa ha iniziato a scricchiolare e in città ci si è cominciato a chiedere che cosa è questo, che cosa è quello. Tutto ciò non si poteva proiettare in un’estetica di autogestione di matrice socialista. Dunque sono arrivati al punto di un litigio molto duro e fatale: Dunja Blazevič ha avviato una corrispondenza che è durata quasi un anno per difendere il centro studentesco dalle minacce della compagna Lepa Perovič che aveva dichiarato «chiudiamo i rubinetti», facciamo rapporto al Rettorato dell’Università che non devono cercare fondi per aiutare la struttura. E così è finita. Dopo un pò di anni si è decentralizzato il centro studentesco, fino a scomparire. L’unica traccia è la galleria che funzionava come spazio espositivo con due tipologie: una per la vendita, una per la divulgazione di modalità economiche di sostenibilità e autogestione. C’è stato anche un incendio, il terzo anno di attività e in una data non casuale, il 26 aprile, la giornata della gioventù studentesca. Prima di questo incendio avevamo ospitato anche Joseph Beuys che, nell’aprile del ’74, aveva fatto una lecture con delle lavagne nere dove scriveva e discuteva con il pubblico, animato di studenti. Erano opere arrivate dall’Italia, con Lucio Amelio da Napoli. L’incendio ha bruciato anche queste lavagne di Beuys. Poi il Centro studentesco si è trasformato in una struttura di gallerie. Ha perso il proprio ruolo, la freschezza, l’attitudine a conoscere cose nuove. È difficile parlare di Avanguardia, senza pensare all’attività autogestita del centro.

MS: Nel 1973 tu presenti al Centro Studentesco di Belgrado il ciclo pittorico Disinformazione assieme a In Onore dell’Avanguardia, dedicato ai protagonisti del suprematismo e costruttivismo sovietico e dove, per la prima volta, ricorri alla fotografia. Vorrei conoscere meglio anche un altro aspetto del tuo lavoro che, parallelamente, sviluppi insieme ad altre opere più dichiaratamente concettuali e dove decostruisci certi elementi ideologici: penso appunto alle registrazioni delle letture in pubblico di Marx, di Hegel e della Bibbia dove impieghi la performance e il video. Dopo aver distrutto questi stessi libri in un’azione diretta nel contesto di Trigon, a Graz nel ’75, passi poi alla loro lettura alla luce dei fiammiferi.

RDD: Prima leggevo uno stesso testo con due altre persone in una lingua straniera, poi sono passato alla lettura di questi libri di Marx, di Hegel e della Bibbia, accendendo di volta in volta un fiammifero. Il contesto era molto semplice, una tavola con una trentina di fiammiferi e quattro libri, una persona che parlava tedesco, io che parlavo serbo. Per questa azione ho usato diversi testi, dalla Bibbia alla Critica all’Economia Politica di Marx, o anche l’Estetica di Hegel: e tutti erano stampati in lingua tedesca. Poi usavamo una candela e dei fiammiferi. Davanti a noi c’era un pubblico che funzionava come cornice, una ventina di persone, tutte comodamente sedute. Io non parlo tedesco, ma una signora madrelingua leggeva in tedesco. Quando iniziava la lettura della Bibbia il testo si trasformava in una poesia bellissima, con la sua voce e la fiamma. Invece io recitavo la critica al capitalismo di Marx in tedesco ma pronunciavo le parole così male perché il mio accento era sbagliato e la conoscenza linguistica scarsa. Tuttavia l’intenzione era di concepire questo lavoro come qualcosa in cui avviene una comunicazione tra Marx e Damnjan ma questa equivale, nei fatti e nell’ascolto, anche a una non-comunicazione rispetto alla drammatica situazione che c’era per cui questa lettura diventava una metafora. Di fatto, dopo il ’45 pochi paesi applicavano il marxismo, con il soprannome di socialismo reale (o socialismo democratico come in Jugoslavia). È stato un lavoro concentrato, molto intenso ma anche funzionale: il problema è sempre stato come interpretarlo e come presentarlo. Molti centri d’arte e molte gallerie, in questo periodo, hanno accettato di esibire questa lettura performativa ma in modo schivo, restio: «Va bene, fallo, ma poi non chiederci nulla».

MS: E invece qual è la natura metaforica, se ce n’è una, dell’omaggio all’avanguardia sovietica del ’73 con parti del tuo corpo, dalla mano alla fronte, segnate da una traccia apparentemente indelebile del nome degli artisti rivoluzionari russi?

RDD: In questa opera incidere qualcosa sulla fronte significava cercare di rappresentare un processo di pensiero permanente, perché io, come qualunque altro uomo, tutti i giorni lavoro, penso e sogno sempre anche prima di addormentarmi. Poi mi è venuta l’idea di creare un’opera in onore di certi artisti dell’avanguardia sovietica – da Ivan Puni, El Lissitzky, Tatlin – che penso sottolineino come anche da altri campi della cultura sarebbe stato necessario osservare questi processi di pensiero non solo sul volto o sulla carta di identità o nelle discussioni, ma anche chiaramente sulla fronte. O sulla mano… Per esempio, Vladimir Khlebnikov è stato il più grande poeta di pensiero, al pari di Breton. Ma Breton è una falsificazione, arriva dopo Khlebnikov, che per primo ha nominato tale modo di fare poesia, della «lingua sotto al cervello». Anch’io avevo una sua pubblicazione stampata durante il monarchismo jugoslavo, e poi molti russi sono stati uno stimolo importante per la mia formazione artistica e culturale.

MS: Invece nel bellissimo video Flag del 1974 che abbiamo esposto all’interno della mostra Non-Aligned Modernity da FM, quello con la bandiera americana e poi il sacrificio del volatile, la critica non riguarda tanto la realtà del post-socialismo ma piuttosto i due sistemi della bipolarità nella Guerra Fredda?

RDD: Noi che abbiamo vissuto in paesi che hanno fatto parte del socialismo reale, allargato all’Europa Orientale, avevamo solo certe informazioni sulla democrazia americana e occidentale, e conoscevamo direttamente anche le dittature prima della Seconda Guerra Mondiale. Poi abbiamo sperimentato anche il socialismo liberale che controllava tutto, ma in modo invisibile. Un altro aspetto è che in America, come in Europa, tutte le rivolte sono nate a partire dai movimenti studenteschi. Così sono arrivato a girare un super8, dove riprendo una bandiera USA a stelle e strisce, ma guardando il film inizia a formarsi un disegno con la falce e il martello. Poi appare un animale bianco che vola con le proprie ali: è una gallina impiccata che morirà in sessantanove secondi. È la fine della mia risposta al bipolarismo Russo-Americano che ha disciplinato l’Europa, e con questa feroce disciplina ha condizionato il mondo; dopo il suo dissolvimento però sono iniziate le guerre, e durano sino ad oggi e sono vicine a noi: oggi la Siria è bombardata dai russi e dagli americani, provocando migliaia di vittime.

Questi due sistemi, sono arrivati sino a far tremare l’Europa! Non c’è stata democrazia, anche se formalmente si dice che sia esistita, ma democrazie controllate come quella della Germania Occidentale, a cui sono seguite le rivolte studentesche prima in Italia, poi in Francia, in Germania. Insomma non è per caso che questa massiccia protesta e mobilitazione di giovani abbia avuto inizio. Così è saltata l’Europa. Poi, d’altra parte, l’America ha avuto la sua valvola di sfogo con le guerre in Corea, Vietnam, Cambogia, poi c’è stato il Kosovo, ora il Medio Oriente. Ed il Medio Oriente è alle soglie dell’Europa. Mi ricordo che quando avevo partecipato a una manifestazione studentesca a Belgrado in favore dei vietnamiti, ho conosciuto un segretario americano che diceva ai giovani: «È vero quello che voi dite, ma come facciamo noi? Chiudiamo la guerra in Vietnam e l’apriamo in Medio Oriente»?. E così è successo.

MS: Che significato ha avuto per te rivedere, a distanza di anni, raccolte assieme tutte le opere dell’arte jugoslava e una parte dell’arte del dissenso del Centro Europa presenti nella Collezione Marinko Sudac? Come era allora percepita l’idea di modernità? Abbiamo infatti parlato di modernità non-allineata. Perché quest’arte non era integrata né ad Est né ad Ovest! Dall’altro lato questa modernità è rimasta e rimane fuori dai libri di storia dell’arte, nel senso che nonostante molti fossero i contatti con il mondo occidentale poi nessuno degli artisti (a parte i nomi di Marina Abramovič e Roman Opalka) è stato integrato nel contesto dell’arte moderna. Mi sembrava interessante capire come era percepita quest’idea di modernità dentro quel sistema sociale e vedere come si aspirava ad un inserimento possibile nell’Occidente: un Occidente che, in via ufficiale ed egemonica, aveva chiuso al contrario tutte le porte agli artisti del cosiddetto Est. Di fatto nei nostri libri non c’è Gorgona o Fluxus East, così come manca tutto il resto di questa ricca e importante produzione, spesso addirittura in anticipo sulle posizioni occidentali.

RDD: Mah, non si tratta solo di libri o manuali di storia dell’arte occidentale, penso alla comunicazione diretta tra le persone o a quella politica. Lo stesso fatto di unire in mostra paesi così diversi come quelli della ex-Jugoslavia è stato un grande lavoro di restituzione. Certo che bisognerebbe avere più «casi» come Roman Opalka o Marina Abramovič, e basti pensare che noi abbiamo avuto anche Julije Knifer a Zagabria che è stato davvero un grande artista: sono questioni molto complesse, anche di educazione, quelle di aprirsi senza paura a questa intera scena. Sono molto contento di parlarti questa sera, come sono contento per la mostra che hai aperto a Milano, perché soprattutto è un gesto forte che un’istituzione finalmente è riuscita a fare. Costruire ed esporre una mostra come Non-Aligned Modernity è come realizzare un monumento, qualcosa che non si può dimenticare. Certo noi abbiamo un Museo di Arte Contemporanea a Belgrado. L’autogestione non è stata presa in esame da certe arti come funzionamento: per esempio l’industria cinematografica senza le sovvenzioni di Stato non esisterebbe, perché è molto grande, ci sono i macchinari, gli assistenti, gli attori e il teatro. Poi anche i letterati! Non si tratta di due quaderni e di un pò di inchiostro… Poi per la pittura, la scultura e soprattutto per l’architettura il problema è ancora più complesso: Belgrado è un deserto di forme minimaliste, senza niente, se non fosse per la crescita degli alberi che l’ha resa più umana.

Mi ricordo anche Vittorio Fagone che, visitando Belgrado, mi disse: «Ma Damnjan, voi avete un museo formidabile»! E non capiva come mai. Conosco bene Modrag B. Protić, il primo direttore del Museo di Arte Contemporanea, una generazione molto più vecchia della mia, non è stato un membro del Partito ma un uomo umile e con una cultura raffinata: allievo alla Sorbona, parlava due o tre lingue, avvocato di professione, ha poi organizzato e realizzato la sua idea di aprire un’istituzione museale, non della Serbia ma della Jugoslavia. E oggi esiste questo museo a Belgrado con una bellissima architettura; è stato bombardato e restaurato completamente solo alla fine di quest’anno; ha ospitato numerose mostre di artisti internazionali, oltre a una grande esposizione che ha presentato l’arte jugoslava senza divisioni etniche tra serbi, croati, sloveni, bosniaci o macedoni.

Traduzione Annalisa Moschini

*Attorno al Centro Culturale per Studenti di Belgrado (SKC) negli anni Settanta si riunisce un gruppo di artisti non ufficiale composto da Marina Abramović, Zoran Popović, Neša Paripović, Gergelj Urkom, Raša Todosijević ed Era Milivojević. Questo collettivo informale, in un ambiente culturale ancora dominato da un modernismo moderato, radicalizzò ed espanse la nozione di arte, enfatizzando gli aspetti performativi e la possibilità di dematerializzazione dell’opera, respingendo la nozione di arte come valore estetico. Il centro SKC di Belgrado fu anche il luogo dove si tennero gli Incontri d’Aprile (Aprilski susreti), che davano agli artisti locali emergenti la possibilità di esporre e performare e ospitarono anche diversi artisti internazionali affermati, tra cui Joseph Beuys.

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