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Esperimento radiofonico - Parte #2

Marco Fusinato, Double Infinitive 2009 (1000x666)
Marco Fusinato, Double Infinitive 5 (2009) - From the series Double infintives. Art Gallery of New South Wales Contemporary Collection Benefactors (2013) © Marco Fusinato, courtesy the artist and Anna Schwartz Gallery.

La povertà non è sinonimo di delinquenza – dicono i moralizzanti
Quindi se i poveri saccheggiano non è delinquenza – dice il sillogismo

La normalità, nonostante tutto, continua a pretendere il suo tributo di vite, e, ad un mese dall’inizio di «questa cosa» chiamata eccezione, tocca pagare una nuova tassa. Se finora questo proseguo del tutto eccezionale dello stato di cose esistenti sembrava aver toccato giusto la psiche e le abitudini di un unico popolo (quello italiano, nel nostro caso), gli eventi degli ultimi giorni hanno contribuito a dare un’ulteriore scossa a questo preconcetto, a questa unità, a questa «comunità di individui» che dovevano salvarsi insieme e da soli. Sembrava bastare una settimana di canti e inni dai balconi per riattivare e costringere un’idea ad esistere, e neppure la scomparsa di questi lugubri canti («siam pronti alla morte») e stimolanti motti («andrà tutto bene») ha suscitato un briciolo di incertezza su come e a chi si stessero rivolgendo. O quale sarebbe dovuta essere la loro funzione. «Stringiamci a coorte» (ma ad un metro di distanza) e troveremo un modo per uscirne: ma da cosa?

La mancata accettazione dell’inesistenza di un popolo, la retorica post-ideologica della dissoluzione delle classi ci1 faceva ben sperare nel ritorno alla normalità, quella in cui comunque tutti avevamo disponibilità, possibilità di vita. «Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema» , sembra uno slogan tirato fuori da uno dei tanti scritti di Foucault, eppure, oltre la voglia sconfinata di indicare il nemico normalizzante può indicare ben altro: la normalità era costituita su un falso ideologico, sulla non accettazione del fatto che qualcuno moriva già di fame e di malattia; che, anche con una «sanità pubblica fra le migliori del mondo» l’accesso e la voglia di accedere a tali cure non era ugualmente distribuita tra ogni soggetto facente parte di questa ridente nazione di santi e poeti, ciascuno di noi sapeva che esistevano persone che «se entro in ospedale non posso lavorare». E per quanto l’ospedale sia gratuito, non lo è la vita.

Abbiamo già avuto avvisaglie del crollo di questo sistema idealistico dall’inizio di tutto questo, quando abbiamo puntato il dito sui «terroni» che tornavano di corsa a casa dalla Lombardia, spargendo il virus, colpevoli di noncuranza nei confronti del resto della popolazione, dell’Italia e degli italiani, del SSN, degli affetti, della logica, di tutto. Colpevoli di tutto. Colpevoli di «vivere alla giornata» e di non potersi permettere un affitto, colpevoli di vivere in case affollate, colpevoli di lavorare in nero, colpevoli di non star bene dove stavano, il ricco nord, e di voler tornare «da mamma», da classiche persone del sud.

Nessuno ha chiesto come mai quelle persone fossero lì, in quelle condizioni.
L’assenza di una cartografia della popolazione ha permesso un unico, universale, totalizzante discorso pubblico, rivolto a gli italiani. E chi non lo rispettava era nemico del popolo e, da zotico ignorante, faceva un danno anche a se stesso, portando a spasso il virus per tutta la penisola. Le misure d’emergenza sono così arrivate, per tutte e tutti, da nord a sud, territorializzando definitivamente gli italiani: saremo italiani fin dove rispetteremo le stesse misure2. La frattura (o le fratture?) già esistenti non sono però state contenute, quanto piuttosto portate alla superficie, e negli «interstizi di potere» in cui molti rivoluzionari da scrivania sognavano di infilarsi è stata piuttosto inserita la macchina di stato più evidente e violenta a disposizione: le volanti della polizia hanno finalmente la legittimità a stare in strada, in qualunque strada, per il bene nostro e di tutta la sua santa nazione. Nelle zone di «confine» è stato anche schierato l’esercito, come la sana dottrina militare impone.

Un nuovo slogan è apparso nell’orizzonte discorsivo: «siamo in guerra», e anche qui i corifei della rivoluzione si sono affrettati a smentire3, senza mai metter in discussione il presupposto a tutto questo fiorir di slogan e spinte alla comunione e solidarietà, sembra che il punto sia poter tracciare una politica per noi, noi tutti. E chi siamo «noi tutti»? Quelli che decidono e quelli che sono decisi, tutti nella più immediata delle sue apparizioni: ogni persona, al di là della propria appartenenza territoriale, di classe, di religione, al di là di ogni posizione, tocca pensare a tutti. Mediati dalle parole, sapremo cosa fare, il soggetto parlante ci indicherà la strada, e l’unica contestazione possibile (accettata) è sui modi, l’importante è che si agisca insieme. Ma, come dicevamo, un evento appare all’orizzonte, la frattura (le fratture) arrivano in superficie e le contraddizioni che pretendevamo di aver risolto con l’avvento del presente astorico della libertà esplodono nella loro più necessaria violenza: possiamo anche rifiutarci di mettere sul piatto della bilancia chi cade (e cadrà) a causa dell’isolamento, sole e soli nel lento suicidio che già prima chiamavamo vita4, ma l’emergenza di un bisogno e di una necessità di solitudini comuni si gettano sul reale influenzando e colpendo quella comunità presupposta su cui abbiamo basato tutte le nostre politiche: iniziano i saccheggi.

Ed è proprio quella comunità di mercanti, isolati e isolante, in cui ognuno faceva il proprio che riceve le scosse più forti da questi eventi, è quella comunità morale che finora fungeva da contraltare all’egoismo privato del commercio a subire questi eventi in maniera destituente: chi non ha nulla non può più accontentarsi dell’elemosina dei «buoni», dal momento che i buoni sono isolati da questa comunità tanto quanto chiunque altro. Quel contatto con «gli ultimi» che finora mettevamo al primo posto nella nostra scala morale, che ci permetteva di dire che «un altro mondo è possibile» (a patto, ovviamente, che il mondo rimanga lo stesso), è interrotto, e non servirà più rifarsi a questa tanto acclamata «umanità» per evitare le ripercussioni del terremoto in arrivo.

«Il popolo» si scuote, e finalmente lo vediamo nella sua più evidente manifestazione: il popolo non siamo noi, ma sono loro, «i poveri» che aiutavamo e che adesso ci si rivolta contro, assaltando i nostri negozi, aggredendo i portantini dei nostri lussi, che da casa ordiniamo ancora e ancora chiediamo a qualcuno di esporsi per noi. La contraddizione di essere un unico popolo di sfruttati e sfruttatori vien fuori quando questa unicità viene pretesa5 non da chi l’ha imposta, ma da chi l’ha subita; e la risposta a questa pretesa si materializza nelle nostre parole: «la povertà non è sinonimo di delinquenza» diciamo, invocando ed evocando qualcosa, qualcuno che controlli, sorvegli, punisca chi osa mischiare i due concetti. A questa invocazione rispondiamo con lo schieramento della polizia davanti ai supermercati, a difesa di quei luoghi che ritenevamo ancora immuni alla chiusura, di quelle cose che non erano ancora affette dal virus: le merci devono essere difese, non sono loro a spargere il virus e loro devono rimanere immuni da tutto ciò.

Senza saperlo indichiamo dove è presente quella frattura che tutto ciò ha fatto nascere e che la perpetua, quel momento in cui ci si divide tra chi può e chi non può: è proprio la merce, che a noi appare come un mero oggetto di consumo, di cui viviamo, a tracciare il confine, la merce è6 corpo e vita, la merce è pretesa da corpi e vite, non per «riappropriarsi di una dimensione perduta dall’alienazione» (come vanno poeticamente cianciando i profeti del futuro comunista) e finalmente far pace col mondo in un «godimento comune», ma come dichiarazione di guerra. Una guerra necessaria, una guerra già esistente prima della «novità eccezionale», una guerra che ora diventa evidente, territoriale, popolare nel suo senso più divisivo e violento possibile. Non chiamiamolo saccheggio, chiamiamolo comunismo.

 

 

Note

Note
1A noi, italiani, borghesi, occidentali, bravi lavoratori che con fatica e impegno riescono, nonostante tutto, a tirare avanti. L’Italia, intanto, come nazione e unità, faceva e fa parte dell’élite mondiale, quella tanto invisa e sempre indicata come «nemica» del «nostro popolo».
2Il «caso» ha voluto che la regione più colpita sia la regione che, da anni, detta il ritmo al resto della nazione: è dalla Lombardia, da Milano, che tutto si propaga, virus e misure di contenimento.
3«Non siamo in guerra» «nessuno ci attacca» «serve solidarietà», slogan che soltanto persone che in guerra non sono mai state riescono a concepire: la guerra è proprio un fatto tra nazioni, e ogni guerra crea un «ci» – già Kant ricordava come proprio la guerra sia quantomeno un’esperienza sublime dove il singolo può riconoscersi in un popolo – ; la guerra crea un «ci», così come la Guerra Mondiale ha creato l’italico «ci» a cui mirava l’unificazione territoriale già dal 1860.
4Perdite già messe nel conto del «realismo capitalista».
5Circolano sulla rete dei messaggi, persone che sanno che «pasqua si avvicina» e «i bambini vogliono le uova».
6E lo sarà fintanto che il modo di produzione di tale merce rimane identico, nel perpetrarsi dello sfruttamento della vita umana (altrui) per la continuazione della vita umana (nostra).

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