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Il terreno del comune: o del piacere, insieme

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Cesare Pietroiusti, Sul punto della lingua - Performance Teatro Cristallo Bolzano, 18 Marzo 2016 - Foto di Ivo Corra.

Il terreno del comune è necessariamente un terreno di incontri, di compresenze, di contraddizioni, anche, ma non di identità definite, di sostanze individuate o di teorie compiute. Il terreno del comune è un terreno intermedio, fra. Nella possibile costruzione di un tale terreno, e dello spazio corrispondente in cui potersi muovere, vanno messe in gioco, innanzitutto, le singolarità soggettive, i concetti che riteniamo significativi, il modo in cui articoliamo le percezioni, e le parole che usiamo. Limitiamoci a queste ultime.

Prendiamo la parola «senso». In italiano «fare senso» significa fare un’impressione forte e sgradevole, praticamente «fare schifo»; in altre lingue, fra cui il francese e l’inglese, «ça fait du sens» e «it makes sense» significano invece «è giusto, è corretto», qualcosa su cui è bene essere d’accordo. Ecco individuato un primo terreno intermedio, posto fra il «giusto» e lo «schifo», e fra due usi – ben distinti – di un’unica parola.

La stessa parola, «senso», traccia, stavolta tutta all’interno della lingua italiana, un’altra dicotomia, più generale, fra concetto astratto e sensazione fisica: fra, da una parte, l’intelletto, l’intelligenza, il senno (il senso della ragione) e, dall’altra, il desiderio, la sensualità, il sentire irrazionale (i sensi del corpo). E così, alle radici, notoriamente poetiche, dell’italiano, c’è sia «Vergine d’alti sensi, tu vedi il tutto» (Petrarca, Canzoniere, 49, 8) che «Regnano i sensi, e la ragione è morta» (Petrarca, Sonetto 176).

Ogni volta che si dice «senso» per dire «senno, ragione, correttezza», pensare anche un po’ a «schifo, disgusto, eccesso» e provare a lasciar agire, in qualche modo, questi significati nel contesto della frase che si sta formulando. E viceversa 

Per costruire un praticabile terreno del comune propongo di partire da qui, da una specie di esercizio che è reso possibile dalla vertiginosa ricchezza di questa parola, «senso». L’esercizio sta nell’usarla, all’interno delle frasi in cui compare, non come un «termine», ma come una «posizione mobile»; cioè non operando una scissione per identificare un certo significato, evitando integralmente l’altro ma, in ogni caso, procedere a una contaminazione con quello che, ai fini del concetto che si vuole esprimere in quel momento, «non serve». Ogni volta che si dice «senso» per dire «senno, ragione, correttezza», pensare anche un po’ a «schifo, disgusto, eccesso» e provare a lasciar agire, in qualche modo, questi significati nel contesto della frase che si sta formulando. E viceversa. Così, se sto cercando di articolare – come in questo momento in cui scrivo questo testo – una frase che abbia senso, sarà un ottimo esercizio osservare, sentire, che in essa ci sono delle inevitabili componenti, delle espressioni, disgustose, assurde. Questa frase, in italiano, fa davvero senso.

D’altronde, nella parola i diversi ambiti di significato sono già compresenti, e in ogni nostra espressione il significato che non si vuole esprimere soggiace, come un rimosso, in un inconscio che non si può ritenere inattivo, indifferente, inutile. Allargandoci un po’ – ma senza fare uno sforzo eccessivo per liberarci dalle inevitabili pastoie ricorsive in cui si cade quando si parla de (si gioca con) il linguaggio come oggetto del discorso – si potrebbe anche, ogni volta che si pensa al senso-come-astrazione, provare a contaminarlo con il senso-come-sensazione.

Poiché i modi (i «come») del senso informano, sempre e comunque, il significato che si vuol dare alla parola, l’esercizio che sto proponendo è, ripeto, quello di provare a trattare la parola «senso» non come un termine a identità significante definita, ma come modo-di-dire e, per modo di dire, come tutti sanno, si dice una cosa intendendone, o sottendendone un’altra. L’italiano è ricchissimo di stupendi «modi di dire» (uno per tutti: «avere il dente avvelenato») e mi sembra che la competenza linguistica degli italiani contemporanei sia fondamentalmente basata proprio sui modi di dire, sui quali ci si intende indipendentemente da provenienze sociali, da appartenenze ideologiche, da ambiti disciplinari. Il problema è che questa competenza «comune» è stucchevolmente convenzionale e i modi-di-dire sono diventati un sistema di omologazione e appiattimento del pensiero e del linguaggio, e quindi delle capacità critiche. Eppure, anche solo penetrare un po’ più a fondo nei modi di dire già noti, può essere fonte di interessanti scoperte da fare insieme agli altri. Per esempio, si potrebbe affrancare il «dente avvelenato» dallo stereotipo significato dell’arrabbiatura duratura e restituirgli il senso molteplice, complesso, che sta in una «posizione» fra una letale capacità di mordere, il dolore della carie profonda, la puzza dell’amalgama del dentista, l’alito cattivo di qualcuno che stiamo per baciare o che temiamo di avere e chissà cos’altro che potrebbe venir fuori parlandone.

Se praticassimo l’esercizio di creare nuovi modi-di-dire, si creerebbero sorprendenti livelli di competenza linguistica comune, e tali sorprese sarebbero accompagnate sia da un sentimento gioioso di comunanza, un sentire-capire insieme, sia da una, seppure aurorale, consapevolezza di potenzialità espressive inesplorate, di possibilità di movimento e di azione in un terreno intermedio 

Se praticassimo con una certa costanza l’esercizio di creare nuovi modi-di-dire, se il nostro parlare fosse costellato di momenti in cui le parole vengano usate per scandagliare tutti i vari livelli (di senso-significato, di senso-sensazione, di senso-direzione, di senso-piacere e di senso-schifo) che già contengono, sono convinto che si creerebbero costantemente sorprendenti livelli di competenza linguistica comune, e che tali sorprese sarebbero accompagnate sia da un sentimento gioioso di comunanza, un sentire-capire insieme (chi non ha mai avuto profondi dolori dentali ed esperienze con l’alito cattivo?), sia da una, seppure aurorale, consapevolezza di potenzialità espressive inesplorate, di possibilità di movimento e di azione in un terreno, appunto, intermedio.

Provo a fare un altro esempio, e a proporre un altro esercizio. Prendiamo la lingua e, per non ricadere nelle ambivalenze… linguistiche, consideriamo solo l’organo anatomico muscolare mobile che è largamente responsabile dell’emissione sonora dei fonemi. Quando si parla, la lingua si muove con estrema precisione, si posiziona e si conforma in modi che determinano il tipo di suono che si produce: a tale produzione sonora chi ascolta rivolge la propria attenzione allo scopo di attribuire o riconoscere un certo significato. Parallelamente, salvo eccezioni, lo sforzo del parlante è quello di trovare le parole che esprimano al meglio il concetto che si vuole esprimere, articolandole nel modo più chiaro. Qualche volta, in circostanze legate a relazioni di seduzione, chi parla (o ascolta) può concentrarsi sulla sonorità della voce propria (o dell’altro), e produrvi (o coglierne) elementi eccitanti, o rivelatori di eccitazione. Mai, però, ci si concentra sul piacere tattile che si può sperimentare nel contatto fra la lingua e altre parti del cavo orale, contatto che, ovviamente, si verifica durante tutti gli atti di parola. L’esercizio che propongo è proprio questo: nel parlare, provare a spostare la propria attenzione dal significato delle parole, e poi anche dalla sonorità che le costituisce come parole dette (a voce); provare, invece, a spostare la propria attenzione sull’aspetto tattile di quel che sta accadendo nella bocca, sugli sfioramenti, le pressioni, le vibrazioni, gli strusciamenti, che si stabiliscono fra lingua da una parte e gengive, denti, palato, labbra, dall’altra. Analogamente, nell’ascoltare qualcun altro che parla, si può provare a «sganciarsi» prima dal significato e poi dal suono delle parole udite e invece «giocare» a ripeterle replicando, meglio se silenziosamente, i movimenti corrispondenti nella propria bocca.

La versione auto-erotica di questo esercizio è sempre possibile, ma sono convinto che il gioco sia molto più divertente, complesso e piacevole, se fatto con altri; se il terreno su cui si sta sperimentando è fra 

Sono abbastanza convinto che l’essere umano parli anche in virtù del piacere tattile auto-erotico legato alla produzione verbale: la lingua, del resto, è non soltanto l’organo (unico) dei recettori gustativi; essa è anche ricchissima di recettori tattili. E se molti sperimentano il piacere che si produce con il bacio «alla francese», tutti potremmo provare a scambiare piacere tattile linguale nel dialogo. La versione auto-erotica di questo esercizio è sempre possibile, ma sono convinto che il gioco sia molto più divertente, complesso e piacevole, se fatto con altri; se il terreno su cui si sta sperimentando è fra. Fra il polo del simbolico (poiché sempre di parole si tratta) e il polo del sensorio. Fra due o più parlanti.

Il primo è proprio l’intermedio che potremmo definire il terreno del sensibile. Si esercita la sensibilità, si diventa «sensibili», quando si riesce a muoversi in un piano in cui i due aspetti, quello della significazione e quello della sensazione siano sempre co-presenti, attivi, interferenti. Il secondo è, evidentemente, l’intermedio della relazione, il terreno del comune. Dove si può provare (a provare) piacere insieme.

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