Ignoranza ed emancipazione

Contro il carisma

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Bert Theis, Isola Art Centers. Some Hypotheses, serie di foto, Courtesy Federico Bianchi Contemporary Art 2008-2009.

Pubblichiamo qui un estratto del saggio «Contro il carisma. Insegnare l’emancipazione» pubblicato nel volume In cattedra. Il docente universitario in 8 autoritratti, a cura di Chiara Cappelletto (Raffaello Cortina Editore, 2019). Si tratta di un contributo che ci sembra particolarmente importante e in linea con le posizioni della nostra rivista. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.

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Mi sono chiesto a più riprese come posso leggere, e di conseguenza vivere, questa contraddizione interna alla mia vocazione. Una possibilità consiste senz’altro nel rinunciare allo spazio collettivo, più o meno istituzionalizzato, come luogo in cui sviluppare la riflessione umanistica; secondo Giulio Savelli, “la crisi delle discipline umanistiche ha il suo campo di conflitto decisivo nella soggettività di ciascuno, in cui si affrontano i problemi oggettivi posti dallo stato delle cose. La legittimità stessa dei saperi umanistici si fonda in interiore homine1.

Questa mi sembra tuttavia una soluzione molto parziale, e in ogni caso non voglio proporre soluzioni, né abbozzi di soluzione. Tengo però a sottolineare una pista di riflessione, a partire da un’assenza che mi sembra piuttosto lampante. Nelle immagini letterarie che ho evocato riscontro l’obliterazione pressoché totale di un elemento che pure è cruciale nella vita del docente: lo studente. Esso viene evocato solo quando emerge, in una massa indistinta e muta, come allievo, pupil: sia nella figura contrastiva di Eloisa (l’allieva per eccellenza, ma impossibile da considerare tale) sia in quella di Lomax; un giro d’orizzonte nella letteratura incentrata sui campus universitari – penso al penultimo romanzo di Michel Houellebecq Sottomissione2 e alla fiction in generale, basta far riferimento al bellissimo The Footnot di Joseph Cedar3 o all’alleniano Irrational Man4, – può servire da verifica a questa che è solo un’intuizione e un’ipotesi di lavoro.

Questa obliterazione non è solo letteraria, ma è presente, in maniera forte, nella percezione quotidiana del docente universitario. L’università, infatti, è rimasta totalmente insensibile alle innovazioni in campo pedagogico che hanno profondamente cambiato la scuola primaria e secondaria. Il Sessantotto, con la radicale messa sotto accusa del sistema dei voti e della figura del barone, ha lasciato tracce molto superficiali nel modo in cui oggi il docente va in aula e si percepisce come insegnante; al più, ne è diventato la bestia nera, il rischio da esorcizzare e che porta inevitabilmente al collasso e alla barbarie. Inoltre, il rapporto con la formazione del mondo degli insegnanti della scuola secondaria è concepito in maniera totalmente verticale, ed è afflitto da un contrasto tra pedagogisti e disciplinaristi che non permette il concreto sviluppo di un dibattito che metta finalmente al centro il modo in cui l’università e i saperi umanistici possono contribuire all’inserimento degli studenti nel mondo attuale. Non voglio dire che non esista una larga letteratura in merito; voglio ricordare che questa letteratura non scalfisce, o scalfisce molto poco, la vita, le discussioni, le pratiche di noi docenti nell’università di oggi.

Accade così che all’università si insegni senza sapere davvero come farlo, affidandosi a una propensione alla trasmissione basata sul miracolistico e sul carisma. Una volta incardinato in un ateneo, il nuovo ricercatore è invitato a insegnare senza nessuna preparazione o consapevolezza, ed è bizzarro che questo non costituisca materia di discussione, considerata la presa egemonica delle materie pedagogiche sulla formazione degli insegnanti del secondario5. La differenza è troppo lampante per non presuppore una certa idea di trasmissione di saperi “alti”, volutamente ed esplicitamente “distinti” da quelli degli insegnanti di scuola.

Eppure, il proprium della docenza universitaria, se vista come una professione (il secondo aspetto del Beruf), consiste nella trasmissione del sapere rivolta a una fascia generazionale – coloro che sono passati alla maggiore età – che fin dall’Illuminismo è inclusa tradizionalmente nel problema dell’emancipazione. Ammesso e non concesso che insegnare a una fascia d’età meno avanzata della propria esiga una maggiore verticalità6, mi sembra ancora più paradossale che il fatto di insegnare a giovani tra i 18 e i 23 anni non sia considerato nelle sue specifiche caratteristiche. Potrei qui richiamare le riflessioni di Lorenzo Milani e di Ivan Illich sul legame tra saperi e poteri, per insistere soprattutto sul fatto che un insegnamento gerarchico – e un insegnamento che si limita a trasmettere contenuti lo è per forza – non educa alla pluralità e alla critica, ma all’obbedienza e all’apprendimento passivo7. L’inserimento dello studente, che all’origine dell’università coincideva con l’esistenza stessa della missione del docente, nel circuito educativo del docente non è semplice né priva di conseguenze, ma io credo che valga la pena di riflettere un po’ di più su questo ruolo, perché ho l’impressione che l’inesistenza di questa riflessione derivi proprio da un’infondata auto-coscienza del docente come intellettuale-chierico e non come insegnante.

Lo studente come figura è un campo di approfondimento tutto da farsi, e non ho né le competenze né lo spazio per svilupparlo qui. Vorrei invece insistere sulla specificità della fascia d’età dei nostri studenti perché credo che dalla riflessione sul concetto di emancipazione possono risultare alcuni elementi di apertura rispetto alla situazione descritta. L’insistenza su questo concetto mi induce a richiamare il pensiero di Jacques Rancière, la cui ricezione in Italia è praticamente nulla. Eppure, il pensiero di Rancière, prima che politico ed estetico, è di natura squisitamente pedagogica; il suo punto di partenza, infatti, è, da una parte, l’esperienza di pensiero dei lavoratori nel momento fondativo del movimento operaio, intorno al 1830; dall’altra, la pratica didattica di Joseph Jacotot, rivoluzionario francese e insegnante di lettere esiliato nei Paesi Bassi: nel 1818, per poter insegnare la letteratura francese a un gruppo di studenti olandesi ignari della lingua usò un libro bilingue appena pubblicato, il Télémaque. Ignorando egli stesso l’olandese, il lavoro sulla traduzione francese del testo permise alla classe (docente e studenti) di accedere a un notevole livello di comprensione linguistica. Jacotot, uomo del secolo precedente, imbevuto di Illuminismo seppur radicalizzato per l’esperienza della rivoluzione fatta ventenne, comprese che l’idea del maestro explicateur, che “spiega”, partiva dall’assunto che vigesse un rapporto diseguale tra docente e discente, che induceva il primo a concepire l’insegnamento come una distribuzione di sapere dall’alto che avrebbe permesso allo studente di avanzare per gradi verso la conquista autonoma della scienza8.

Per rovesciare questo assunto, Rancière aggredisce il concetto di emancipazione proprio attraverso l’elaborazione che gli operai ventenni del 1830 avevano definito autonomamente. L’emancipazione, dunque, non coincide con il processo di identificazione per il quale lo studente – o qualsiasi soggetto implicato in un processo di uscita da una situazione di minorità – assumerebbe un’identità che gli pre-esiste in termini sociali e culturali, e diventa invece un processo di soggettivazione, cioè una vera e propria rottura nell’ordine delle cose che riconfigura un campo di esperienze e di pratiche grazie alle quali il discente acquisisce una capacità di enunciazione fino ad allora sconosciuta9.

Bene: è proprio l’emancipazione che mette in discussione la verticalità della trasmissione del sapere, perché essa non può realizzarsi integralmente con una facilitazione dall’alto, ma deve necessariamente prendere una strada autonoma, dispiegarsi da sola. Per permettere ciò, è importante smantellare l’idea radicata di una assoluta disuguaglianza tra l’emancipatore e l’emancipato, e dunque tra il docente e il discente. Per insegnare l’emancipazione in questo senso attivo e soggettivo, è importante, quindi, fare spazio cognitivo alla possibilità di una uguaglianza intellettuale tra i soggetti della docenza (studenti e insegnanti), e non rimandare la possibilità dell’uguaglianza a un momento successivo, quando il soggetto minore (lo studente) si sarà ormai identificato nel sapere tramandato dal docente.

È noto che una delle critiche all’ipotesi del “maestro ignorante” di Rancière sta nell’idea che risulterebbe utopistico insegnare ciò che non si sa. In realtà, la rinuncia all’explication non comporta questa conseguenza (che farebbe inorridire i vari Mastrocola e Galli Della Loggia, o comunque, in generale, i propagandisti della autorità della cattedra). L’esperienza di Jacotot partiva dalla condivisione di un sapere (il Tèlémaque bilingue); questa condivisione permette di sviluppare il rapporto di insegnamento sotto il presupposto dell’uguaglianza delle intelligenze, e quindi della possibilità di emanciparsi intellettualmente senza essere emancipati, di raggiungere una situazione di uguaglianza seppure in una società affetta dalla diseguaglianza10. È proprio a partire da questo obiettivo che si può, io credo, trasformare lo spazio di insegnamento del nostro Beruf in una delle possibili cure per quella lacerazione originaria, e nella salvezza da una nostalgia inutile e reazionaria. Una nostalgia che è tanto più pericolosa se produce quel feticismo dell’istituzione che è non solo di Stoner ma anche dei suoi ammiratori. Dal punto di vista dell’emancipazione infatti, ogni istituzione educativa, seppure orientata a principi democratici e progressisti, è una drammatizzazione e un’incarnazione della disuguaglianza.

Il docente universitario “ignorante” è in realtà in una posizione di privilegio, perché si indirizza a persone in una fase di maturazione intellettuale. Si tratta, com’è ovvio, di una grande potenzialità e di una delicata responsabilità. Questa condizione è ideale per attuare una relazione educativa che realizzi un rapporto tra intelligenze e tra saperi. Si può, cioè, più facilmente “capovolgere la classe” – per prendere in prestito una espressione della pedagogia – nel contesto della docenza universitaria, cercando di far interagire ricerca e conoscenze autonome degli studenti. La società digitale ci fornisce, su questo terreno, un’occasione straordinaria. L’accademia è spesso molto indietro nel campo delle Digital Humanities ed è molto difficile credere che questa situazione cambierà nel futuro. Ciò non toglie che i nostri studenti siano spessissimo immersi in questi nuovi saperi; per quanto sia importante innovare le tradizioni disciplinari, ed è un peccato che ciò avvenga spesso sotto goffe spinte esterne, penso sarebbe più produttivo sperimentare ibridazioni di conoscenze con i saperi diffusi fuori dall’università – e maneggiati con più capacità dai nostri studenti – che ci permettano di cambiare i nostri metodi e le nostre competenze.

Di conseguenza, non ci sono e non ci debbono essere programmi generalizzabili, ma un progetto complessivo che permetta al docente di rinunciare alla propria “aureola” e di percorrere un cammino finalmente comune con gli insegnanti della scuola secondaria. L’unico programma, tutto da fare, è quello di definire un nuovo paradigma di “docente ignorante”, capace di accompagnare e partecipare all’emancipazione intellettuale della società, e non di imporre una gerarchia di valori e saperi prestabilita e inestricabilmente legata a una società profondamente diseguale.

Note

Note
1G. Savelli, Invisibilità: una nota sulle discipline umanistiche, http://www.leparoleelecose.it/?p=34225
2M. Houellebecq, Sottomissione, tr. it. Bompiani, Milano 2015.
3J. Cedar, The Footnote, titolo originale Hearat Shulayim, Israele 2011.
4W. Allen, Irrational Man, USA 2015.
5Un caso a parte è costituito dalle pratiche didattiche innovative innescate dai wokes, affrontate in questo volume da Miriam Ronzoni.
6Come giustamente afferma Girolamo De Michele, autore di riflessioni indispensabili sul tema: “Sono convinto […] che il sistema scolastico, e più in generale quello degli apprendimenti, non abbia bisogno tanto di un elenco di materie e argomenti, quanto di una riflessione sugli strumenti con cui si agisce e si interagisce nel capo dell’apprendimento”, G. De Michele, “Come insegnare per insegnare cosa”, in Qualche idea sulle discipline umanistiche, a cura di A. Savoia, C. Giunta, IPRASE, Trento 2013, pp. 49-56.
7Sulle potenzialità di un insegnamento critico, incentrato sui classici ma con un approccio relazionale e complesso, si veda l’intervento di Manuele Gragnolati in questo volume
8Possiamo oggi dire che il metodo di Jacotot è ampiamente confermato dalle ricerche di ambito linguistico e neuroscientifico, e che l’idea che l’insegnamento si debba limitare a una trasmissione acritica del sapere è totalmente controproducente anche da un punto di vista cognitivo.
9Riassumo, un po’ brutalmente, i concetti veicolati in J. Rancière, La nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier, Fayard, 1981; J. Rancière, Le maître ignorant, Fayard, 1987.
10Le maître ignorant, cit., p. 221.

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