Il posto di tutto il possibile

Un dialogo con Nacera Belaza

L'envol © Laurent Philippe ok
Immagine dello spettacolo «L'Envol» con Nacera Belaza (2022). Foto di Laurent Philippe.

Stasera 15 settembre e domani 16 la coreografa, danzatrice e performer Nacera Belaza sarà a Short Theatre con lo spettacolo L’Envol (al Teatro India, sala A). Per l’occasione proponiamo una sua conversazione con Giulia Crisci.

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Dal tuo lavoro coreografico emerge chiaramente l’idea di una scrittura politica del corpo, in cui lo spazio è innanzitutto costruzione del tempo. La lentezza, ad esempio, è uno dei tuoi espedienti più riconoscibili. Quali altri nodi e nuclei riconosci come fondanti nella tua ricerca artistica?

Il lavoro sul tempo è per me centrale, cerco di precipitarmi in uno spazio atemporale, dilatato, tendo a un’espansione dell’essere verso una forma d’infinito. Mi interessa questa trasformazione della percezione, soprattutto in rapporto alle nostre vite e società frenetiche. Penso alla coreografia come il luogo ideale di questo rallentare. Un altro aspetto fondamentale nella mia ricerca è la tensione al superamento di sé, ciò che potremmo chiamare trascendenza o in altre parole la possibilità di oltrepassare i limiti mentali e fisici. In questo senso l’espansione avviene oltre ciò che ci confina. Cerco una scrittura che incarni questo valico. Ogni volta parto da un gesto, un movimento che pian piano diviene soglia di questa dimensione atemporale, infinita, trascendente.

«Volevo che il mio corpo fosse il posto di tutto il possibile», hai detto in un’intervista.

Sin dall’inizio mi è stato chiaro che potevo sviluppare un metodo, una sapienza corporea da trasmettere all’infinito o invece, al contrario, avrei potuto pensare il mio corpo come uno strumento d’esplorazione che mi portasse verso forme di ignoto. Mi sono orientata verso un certo tipo di ricerca, verso il corpo come pagina bianca, come supporto appunto di tutto ciò che è possibile. In questo i nostri immaginari giocano un ruolo fondamentale, fanno da traino per andare oltre le nostre proiezioni, i nostri confini, le nostre resistenze. Per questa ragione tutte le mie scritture coreografiche cercano la coesistenza di elementi vincolanti e ad un tempo liberatori, verso ciò che non pensavamo possibile.

Ci sono delle ricorrenze nel tuo operare, ad esempio, la creazione del vuoto, la tensione tra controllo e lasciare andare e ancora lo spazio oscuro e l’apertura all’invisibile. Mi dici di più su queste forme-concetto?

Parto dal vuoto, che è strettamente legato all’ignoto di cui parlavo prima. Ho capito ben presto che non volevo che la scena fosse uno spazio d’informazione, di trasmissione di idee per il pubblico. Ho l’impressione che ci sia sempre l’aspettativa che sul palco debba prodursi qualcosa, io provo a materializzare questo desiderio attraverso l’accesso ad una forma di vuoto, dove tutti gli opposti si riconciliano. I miei lavori non parlano di, non sono tematici, quanto piuttosto tendono a rendere sensibile questo vuoto completo. Da qui il bisogno di lasciare andare, mollare le redini per accedere a una forma di coscienza che ha come supporto l’immaginario e che ci accompagna nell’esplorazione dell’ignoto. Ciò avviene solo accettando di perdere il controllo e di lasciare accadere ciò che non immaginavamo possibile. È questo abbandonarsi, sversarsi fisicamente nell’incontrollato lo strumento per eccellenza dell’espansione del sé. Tutto questo avviene nei miei lavori in uno spazio quasi sempre buio. L’oscurità è per me il miglior modo di sperimentare ciò che ci sfugge, mentre siamo impegnate nella trazione a comprendere, vedere, padroneggiare le cose. Lì possiamo indagare la controparte della luce, l’immersione nell’invisibile e nello sconosciuto. Spesso questo spaventa il pubblico tanto quanto i performer, è l’angoscia di ciò che non riusciamo a possedere con lo sguardo. Per me è importante riconciliarsi con questa invisibilità, perché la realtà non è solo ciò che riusciamo a toccare guardando.

Trovo molto interessante questo movimento di messa in discussione delle dinamiche di dominio dello sguardo, in relazione ad un teatro soprattutto pensato come architettura panottica per la visione. Il tuo è un invito invece ad attivare altre sensorialità, altri modi di stare.

Comunemente si dice infatti «andiamo a vedere uno spettacolo». Vogliamo che ciò a cui assistiamo sia fruttuoso, vogliamo che produca in noi delle idee. Contrariamente a questa concezione, per me la scena è lo spazio dell’esperienza, nel quale poter rinunciare a tutte le aspettative, a tutte le proiezioni, per accogliere qualcosa forse di più significativo. Il paradosso è ricercare l’infinito nello spazio limitatissimo dei dieci metriquadrati di un palcoscenico. Vorrei che potesse accadere, anche a teatro, la stessa pacificazione di quando siamo in contatto con la natura.

Nell’Envol, spettacolo che presenti a Short Theatre, la riflessione sulla caduta, sul lasciare andare, sul crollo, si fa materica. Mi racconti come hai lavorato e cosa questo pezzo aggiunge al tuo percorso?

A differenza di altri progetti in cui avevo già attraversato le stesse questioni, nell’Envol il cadere diventa la grammatica stessa della scrittura coreografica. Sto nella domanda aperta: il mio corpo immerso nell’esperienza del cedimento è pronto ad accogliere ciò che accade o tenta di opporsi, cercando di manovrare e di riprenderne il controllo? La caduta è il maggior timore per ogni danzatrice, come se fosse lo svelamento di un momento di defaillance, di vulnerabillità. Questo lavoro ci mette di fronte alle nostre paure, all’attaccabilità del corpo, al contrario di uno spettacolo la sua drammaturgia si produce attraverso la cancellazione e il crollo. È per tutti noi che lo performiamo piuttosto vertiginoso, come stare sul bordo di un precipizio piombando ripetutamente. Mi è sembrato di poter sentire gli stessi timori arrivare fino al pubblico, ad ogni replica. L’ho scritto, tra l’altro, in un momento di acuta fragilità personale, appena dopo la morte di mio fratello. Sentivo di dover reggere il colpo e allo stesso tempo ogni volta che entravo in sala mi dicevo «non ce la fai, non puoi farcela, stai per crollare». Ho vissuto nella contraddizione di cercare a tutto i costi di restare in piedi e allo stesso tempo la chiara coscienza che non potevo non cedere al dolore. Tutto ciò ha lasciato un’impronta sul lavoro, qualcosa di quel momento esistenziale in cui ci chiediamo: e se ora cedo, che succede?

Ascoltandoti penso all’atto paradossale di esorcizzare gli stati più estremi della fragilità umana, abbandonandosi ad essi. Mi sembra un’altra delle tue tattiche di avvicinamento all’invisibile, nel tentativo di svelare ciò che di norma si cela, per apparire performanti nella vita quotidiana, dentro ai ruoli, sulla scena.

Sì è vero, non ci autorizziamo ad essere vulnerabili, tanto nella vita quanto nell’arte esserlo sembra inaccettabile. È molto raro vedere artist* che rinunciano all’immagine, alla grazia, al controllo. È appassionante disfare tutto ciò, parlavi di esorcismo ed effettivamente per me lo è stato in qualche forma. Siamo programmat* per restare sempre in piedi, per tenere in qualsiasi situazione. È sfinente, io non credo che la vita sia fatta per questo.

Anche in risonanza con quanto mi dici vorrei chiederti come articoli il tempo della tua pratica e ricerca artistica, come trovi un’ecologia che ti permetta – come scrivi sul tuo sito – di alternare tournée e spazi per la co-ricerca e formazione. Come intendi questi momenti pedagogici?

La trasmissione è centrale per me, dare accesso all’altr* mi permette di articolare gli strumenti e le forme del mio lavoro. Solo così riesco ad avanzare nella riflessione. Non riesco a provare in studio da sola, per poi ritrasmettere, ho bisogno del contatto con l’altra, che mi lasci vedere come il suo corpo si appropri delle cose che penso, come vi risuonano. Per questo gli scambi pedagogici sono parte integrante del mio processo di creazione, per cui alterno un anno di lavoro in studio con i performer per testare delle visioni, delle intuizioni, dalle quali emergono dei motivi più forti che sviluppo in un anno successivo di creazione, magari scegliendo di proseguire con le persone che ho sentito in grado accedere agli immaginari che propongo, di accogliere la mia scrittura.

Questo accesso agli immaginari del tuo lavoro mi rimanda alle tensioni di accordo, sintonizzazione o de-sintonizzazione tra i corpi in scena. È interessante pensarle come forze in atto nei processi di formazione e ricerca, da cui nasce effettivamente la possibilità di co-creazione.

Accordarsi o cercare la giusta accordatura può essere una questione molto formale nella danza. Durante i primi anni di formazione ci insegnavano a contare per andare a tempo insieme. Questa sincronia numerica mi è sempre sembrata un’aberrazione per la sua superficialità. Quello che mi interessa è cercare un’accordatura interiore, per farlo propongo spesso delle immagini, dei motivi, dei segni e chiedo alle persone con cui lavoro una pratica interiore da cui generare poi i movimenti. Così sento anche chi è ricettiv*, chi attiva delle resistenze, quali corpi o quali menti possono abitare certi immaginari. Mi rendo conto che spesso non è un problema legato ad una danzatrice o un danzatore, è piuttosto un problema degli adulti. Ovvero, lasciarsi condurre in un mondo immaginario, pensare che sia possibile, credervi fortemente è una dote solo dell’infanzia. Riconosco una parte di me che reagisce ancora come una bambina, ma non è sempre semplice trovare interpreti che si sintonizzino con questa dimensione, è più comune che si sentano a rischio, in pericolo.

Sono curiosa di sapere se hai mai lavorato con i bambini e le bambine.

Si lavoro regolarmente con bambin*. Ad esempio, sto rimontando un mio pezzo, Sur le fil, di cui la prima parte sarà danzata da loro e la seconda da noi. È un lavoro che ha richiesto più di un anno e mezzo di scrittura con adult* e solo quattro giorni con le bambine. Mi è bastato descrivere un immaginario, senza dovermi perdere nelle raccomandazioni di ciò che non andava fatto, senza dover convincere nessuno, senza togliere ciò che è ingombrato dal mentale.

Vorrei ancora chiederti dei contesti e delle geografie del tuo lavoro. La tua compagnia ha base sia in Francia che in Algeria, dove sei nata. Nei miei attraversamenti e collaborazioni algerine sono rimasta colpita dalla sapienza di alcuni corpi, ad esempio nello spazio pubblico e durante le manifestazioni di protesta del 2019-20. Ci sono gesti, elementi, che fanno parte del tuo archivio somatico che riconduci all’Algeria?

Ho voluto mantenere un legame con l’Algeria lavorandoci e tornado regolarmente. Prima della pandemia ho diretto un festival per tre anni, che essendo itinerante mi ha permesso di incontrare gente molto diversa. Direi che lo spettacolo dal vivo lì è messo a dura prova dalla sua insita natura pubblica, che diventa immediatamente politica e quindi finisce per essere estremamente controllato. Una forma di censura che non si lascia facilmente nominare. C’è sempre un forte sospetto nei confronti della danza, non considerata come un’arte, soffre della mancanza di formazione, in questo senso cerco di agire come posso. Una delle difficoltà del contesto, per quanto stia cambiando, è il funzionamento piramidale, gerarchico, in una gestione esclusiva da parte delle famiglie degli anziani combattenti, dei mujahidin, del fronte di liberazione nazionale. Aggiungiamo poi la questione franco-algerina sempre aperta e delicata. È sempre un procedere camminando sulle uova. Questo però non mi ha impedito di incontrare ciò che trovo più interessante in assoluto, ovvero le danze tradizionali. Un ricco patrimonio riconosciuto, sostenuto anche dal ministero, che trova un certo tipo di circolazione anche in televisione. Le altre forme di danza restano piuttosto invisibili, persino l’hip hop, che negli ultimi anni dava l’impressione di potersi liberare dalle costrizioni imposte. Si tratta per me di una falsa libertà perché non riguarda l’emancipazione dei corpi.

La danza tradizionale ha in qualche modo informato la tua creazione coreografica?

Sì. Ho voluto studiarla accedendo ai centri di ricerca e agli archivi, sentendo subito una vibrazione molto forte a contatto con l’aspetto del rituale, non tanto con la dimensione folklorica, mi attrae piuttosto la ripetizione del gesto, come avviene, perché, cosa genera nel contatto con il pubblico. Ad esempio, il lavoro Le cri (Il grido) del 2008, nasce grazie ad un gruppo che ho visto nel sud dell’Algeria – che ho invitato a ottobre a Chaillot (teatro nazionale della danza) a Parigi – il cui gesto coreografico si sostanzia in un ondeggiare e cantare perpetuo, che trovo il più bello e commovente a cui abbia mai assistito. In questa materia trova ancoraggio la mia ricerca, qui sono le sue fondamenta, nella disposizione fisica e mentale in cui si genera questa scrittura e un certo tipo di relazionalità, che si allontana finalmente dalla rappresentazione verso una forma di comunione, in cui il mentale è bandito. Molte delle danze tradizionali hanno denominatori comuni, li ho ritrovati ad esempio anche in quelle amerindiane degli Stati Uniti, un certo stato di armonizzazione, di unione e abbandono, nella loro funzione terapeutica, di guarigione, di preghiera. Mi interessa particolarmente ritrovare questa dimensione quasi sacra conferita alla danza, che abbiamo perso a favore dell’artificio.

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