Un Focus su Stefano Rodotà, il suo magistero e la sua eredità, tra il «terribile diritto», la materia giuridica come azione di «guerriglia» e i beni comuni.
Il terribile maestro
Nel suo discorso inaugurale all’Anno Accademico 1966/1967 dell’Università di Macerata, dove allora insegnava, un giovanissimo Stefano Rodotà aveva modo di affermare come il Codice civile del 1942 avesse ormai prolungato oltre il suo normale ciclo fisiologico «… la prevalenza nella cultura giuridica italiana di un metodo che accompagnava ad un indubbio rigore una chiusura formalistica pressoché totale, escludendo ogni momento problematico ed ogni valutazione effettuale dalla riflessione giuridica, ritenendo estranea all’orizzonte del giurista ogni considerazione attinente alla politica legislativa»1.
Iniziava così quello che sarebbe stato il suo programma di studioso «impegnato» a rinnovare il linguaggio dei diritti e della politica, un programma che avrebbe coerentemente sviluppato e perseguito nel corso del mezzo secolo successivo, improntando tutta la sua attività di giurista e attivista a tre direttive fondamentali: a) una profonda consapevolezza della storicità dei concetti giuridici; b) la denuncia del tramonto della valenza costituzionale del Codice civile, inteso ancora in quegli anni come «Costituzione borghese»; c) la particolare rilevanza assunta dagli elementi pubblicistici e dagli interessi sociali nell’ordinamento giuridico, in ragione dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.
Per Rodotà, il diritto non è più riducibile alla somma delle leggi dell’ordinamento o degli articoli che compongono il Codice civile e il ruolo del giurista non consiste più nel raccogliere a «sistema» le leggi del Parlamento, ma nell’orientare questa caotica produzione normativa alla luce di quei princìpi generali, ricchi di contenuto assiologico, che stanno nella Costituzione. In questa prospettiva, ideologia e tecnica giuridica devono ricongiungersi, perché soltanto in questo modo il giurista può riacquistare il senso profondo della propria funzione, sapendone cogliere anche i limiti intrinseci: «… se il diritto non è soltanto un umile strumento di retroguardia, infatti, neppure può ritenersi che le strutture giuridiche siano in grado di sottrarre una società alle vicende della storia o al quotidiano accrescimento che solo può venirle da una fervida e rigorosa lotta politica»2.
Perché, a scorno dei suoi (in realtà non molti) detrattori, questa è stata la cifra di tutta la luminosa parabola di Rodotà, la stella polare della sua azione di studioso militante: la consapevolezza – che si direbbe istintiva, se non fosse anche così lucidamente riflettuta e argomentata – dell’incompletezza del diritto, della necessità per il giurista di sporgersi incessantemente sul fuori dell’ordinamento. Un fuori che però – paradosso topologico – è strutturalmente interno alla Legge, attraversata com’è in lungo e in largo dalle fessure del reale: «Il sistema giuridico […] non deve essere riguardato come un insieme compatto di norme, ma come un’entità discontinua, percorsa da fratture, in cui trova espressione la logica antagonistica delle forze produttive»3.
Di qui il senso profondo del suo realismo, del rifiuto netto di ogni formalismo dogmatico, di ogni pretesa autonomia del giuridico, nella convinzione che «la legittimità della presenza del diritto discende così anche dalla sua capacità di negare se stesso»4. Di qui il suo posizionamento eccentrico, la sua scelta di abitare con ostinata coerenza quello spazio «tra diritto e non diritto» che si apre solo a chi è in grado di spingersi oltre le tecnicalità e i bizantinismi accademici. Dalle sue pagine affiora sempre una tensione costante verso quei territori di frontiera – la libertà, la vita, l’amore, la politica – che altri giuristi meno coraggiosi avevano preferito lasciare all’hic sunt leones delle cartografie giuridiche, come se il diritto non fosse per lui un hortus conclusus in cui prendere dimora ma un avamposto da cui partire per esplorare il mondo. No, non per esplorarlo: per cambiarlo.
Perché Rodotà non ha mai inteso la sua decennale frequentazione della materia giuridica come un prolungato pranzo di gala, ma come una serie successiva di azioni di «guerriglia». Anche la sua grande passione per i diritti (civili, innanzitutto, ma anche sociali) non è stata mai fine a se stessa, residuo magari di una visione illuministica della trasformazione politica. Tutt’al contrario: i diritti sono per lui il grimaldello – meglio, uno dei grimaldelli – con cui tentare di incrinare il modello culturale capitalistico e il suo assetto di poteri: «È quindi necessario non mettere indiscriminatamente l’accento su tutti i temi che la tradizione ci ha consegnato come parti integranti delle dichiarazioni dei diritti, ma insistere su quelli in cui è possibile riconoscere la capacità di rottura di quell’assetto e di quel modello»5.
In tal senso, il precipitato forse più significativo di questo appassionato corpo a corpo con la norma giuridica è stato il suo incontro/scontro col diritto di proprietà, per lui non più riconducibile alla dicotomia ottocentesca «Pubblico/Privato», ma completamente da riconsiderare in ragione della sua «funzione sociale», così come stabilito nell’articolo 42 della Costituzione. Con l’entrata in vigore della Carta repubblicana, infatti, «… la dimensione collettiva penetra ormai nelle stesse aree pubblica e privata, imponendo di riesaminare pure i criteri di distribuzione e, soprattutto, di gestione delle risorse attribuite a tali aree. […] Inoltre, l’emergere di soggetti collettivi incide sulla posizione dei tradizionali soggetti pubblici e privati, nel senso che ai primi dev’esser data voce nei processi di decisione sull’uso delle risorse formalmente imputabili a questi ultimi»6.
La categoria giuridica dei «beni comuni» – a cui ha avuto, in pratica, da solo la forza di dare dignità scientifica – altro non è che la logica conseguenza di questo lungo percorso teorico, anche se non il suo approdo ultimo e definitivo, come qualcuno oggi pretenderebbe. Anzi, per Rodotà non c’era nulla di rivoluzionario in questo nuovo outil che aveva saputo trovare, nascosto tra le pieghe della Costituzione e del Codice civile, perché per lui parlare di «beni comuni» era semplicemente un altro modo di declinare la parola «democrazia», di risignificare il linguaggio dei diritti, di criticare le pratiche predatorie di un sistema economico il cui obiettivo principale resta quello di spogliare le persone della loro dignità. Soprattutto, di restituire alle collettività poteri da usare in vista di una gestione diretta dei loro spazi e tempi di vita.
In breve, i «beni comuni» altro non erano (e sono) che un pretesto per provare a rafforzare quell’antropologia giuridica positiva che innervava, a suo avviso, l’intera impalcatura teorica del diritto, l’antropologia dell’homo dignus che con ostinazione e testardaggine Rodotà contrapponeva al cieco egoismo di quell’homo oeconomicus di cui non smetteva mai di mostrarci i limiti teorici e i disastri sociali. Un pretesto, insomma, per nuove pratiche di soggettivazione: «Ma, come i beni comuni non sono un dato a priori da registrare naturalisticamente, così anche le soggettività sono l’effetto di una costruzione consapevole generata appunto dalla relazione concreta con i dati reali nei quali si riconoscono i soggetti storici di una possibile trasformazione»7.
Rodotà, in breve, è stato per tutti questi anni, con i suoi scritti e le sue prese di posizione pubbliche, uno dei protagonisti della scena culturale e politica di questo sfortunato (a volte triste) Paese: ma nel saper cogliere prima di altri i fermenti progressisti che, nonostante tutto, si muovevano e si muovono all’interno della società italiana, Rodotà ha saputo anche provocare un’accelerazione nello svecchiamento dell’armamentario dogmatico tradizionale della Scienza civilistica e costituzionalistica, orientandone così la futura ricerca all’interno di un mutato contesto politico-istituzionale. È forse qui, in questa sua abilità di intercettare con anticipo le forze vive del cambiamento sociale, che va ricercato il segreto della capacità di questo grande vecchio di entrare in relazioni feconde con le traiettorie individuali e collettive di tanti e tante giovani. La sua parola riusciva ad attraversare il fossato generazionale scavato da decenni di regressione dei diritti, di precarizzazione delle vite, di attacco allo Stato sociale, simile in questo ad altre figure incanutite che sempre meno timidamente cominciano a (ri)affacciarsi sul proscenio della politica.
L’ormai celebre coro Ro-do-tà, Ro-do-tà – che anche noi che scriviamo abbiamo intonato, insieme a molti nostri più o meno coetanei, nei giorni in cui sembrava che l’impossibile potesse davvero farsi possibile – ha la stessa cadenza e lo stesso sapore di quello che giorni fa ha accolto il sessantottenne Corbyn al suo ingresso sul palco del Glastonbury Festival. Nachleben di una sinistra degna di questo nome, che non ha bisogno di resyling giovanilistici per ricucire i rapporti tra le generazioni.
Alla morte di John Lennon, in un suo appassionato ricordo, Gabriel Garcia Marquez ebbe modo di definire il grande cantautore inglese come «il visionario di un mondo migliore», un uomo che aveva detto forte e chiaro che i vecchi non sono quelli che hanno molti anni, ma semplicemente quelli che non sono saliti per tempo sul treno dei loro figli. Su quel treno Stefano Rodotà viaggiava in prima classe.
Note
↩1 | Si veda S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Rivista del Diritto commerciale, 1967, p. 85. Scriverà poi, a quarant’anni di distanza da quell’intervento: «La decisione di intitolare la prolusione alle ideologie ed alle tecniche era certamente figlia dell’epoca, che manifestava forte il bisogno di guardare non al di là del diritto, ma più profondamente nel diritto medesimo, per coglierne un senso che sembrava perduto, nessi scomparsi o ignorati, risvegliando così la cultura giuridica dal «sonno dogmatico» e uscendo da un isolamento che precludeva un dialogo vero con le altre discipline, con la società e con la politica, condannandosi ad una evidente marginalizzazione ed alla sterilità scientifica». Così S. Rodotà, Quarant’anni dopo, in Rivista critica del Diritto privato, 2009, pp. 171-172. |
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↩2 | Così, a conclusione della sua prolusione, S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma, op. cit., p. 99. |
↩3 | S. Rodotà, Funzione politica del diritto dell’economia e valutazione degli interessi realizzati dall’intervento pubblico, in P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto, vol. I, Laterza, 1973, p. 234. |
↩4 | S. Rodotà, Diritto d’amore, Laterza, 2015, p. 16. |
↩5 | Così S. Rodotà, Alla ricerca delle libertà, Il Mulino, 1978, p. 38. La parte prima del volume, in cui si trova il saggio da cui la citazione è tratta, porta appunto il titolo de «I guerriglieri dei diritti civili». |
↩6 | Così S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, II ed., Il Mulino, 1990, pp. 44-45. |
↩7 | S. Rodotà, Prefazione a P. Dardot e C. Laval, Del Comune, o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, 2015, p. 10. |
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