Inavvertenza

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Marta Roberti, Natural assemblage 3 (2019). Foto di Giorgio Benni.

«Postcritica» è termine che porta con sé tutto il peso di una presenza scomoda: un suffisso abusato e un significante che ancor oggi vanta la qualità del numinoso. Il «post» indica il superamento di qualcosa, come la critica, la cui perdita si dice apra le porte a ogni male morale e civile. In un’epoca poi che registra l’inflazione dei «post», un prefisso così sospetto induce diffidenza, specie qualora volesse indicarsi una «critica della critica»: auto-sconfessione di un paradigma che professa l’abbandono della critica mentre invero, non senza ombre di autocompiacimento, vuol costituirne un ulteriore sviluppo. Si comincia male e finisce peggio, dunque; talché ci si chiede, non a torto, il senso di un’operazione pubblicistica che s’inguaina di tale scomoda mise intellettuale.

Ma non è questo l’intento dell’autrice e degli autori1 che si danno al consumando eccidio. Il fattore primario di eclatante dissenso con le amazzoni e gli alfieri della critica è senza dubbio l’idea, rigettata dalla postcritica, per cui la pratica ordinaria sarebbe portatrice di una conoscenza dimidiata e perlopiù opaca a sé stessa – idea che nel corso di tutto il Novecento è stata il fulcro di un processo iniziatico mediante cui la critica s’è incoronata forma massima di denuncia di tutte quelle condizioni che degli attori sociali fanno esseri immancabilmente dominati. Rispetto a tale opacità destinale, la critica si è fatta carico del compito onerosissimo di restituire visibilità ai meccanismi che operano «dietro le quinte», per aprire uno spazio di presa di coscienza e allodossia sociale. Di tutto questo, tuttavia, s’è parlato altrove e in grande abbondanza2, e questa è l’ultima delle sedi in cui sarebbe utile proseguire nel solco della contrapposizione polemica.

Nondimeno, il punto rimane dolente: l’idea di sfagliare l’argine che tiene la piena dell’incultura e dell’ideologia non si procaccia una ricezione accogliente, ed è anche per assicurarsi un alloggio meno angusto che questo libro di postcritica non parlerà. La postcritica sarà piuttosto il non-tema del libro, in cui essa sarà un pretesto. Ed è bene precisare che, al netto di un’invidiabile capacità dissimulativa, il pretesto si compone di un altro suffisso abusato e un altro significante che, come l’altro, vanta ancor oggi la qualità del numinoso: qualcosa che viene prima, un ornamento dispensabile che fa strada al testo, sede di una sostanza più propria. Ed è proprio questo senso di vanità inane, votata a una scomparsa immemorabile, che la postcritica vorrà trarre dal pretesto, se è vero, come scrive Guido Piovene, che «al pretesto si deve il riuscire a non vivere in una dimensione sola, un universo folto di relazioni, pieno di porte spalancate», che il pretesto deve ibridarsi «per la strada di motivi che lo arricchiscono, lo rendono molteplice, perciò più vero»3.

I contributi di questo libro, quindi, si daranno a un lavoro di sfocatura: guarderanno in modo programmaticamente impreciso agli oggetti che via via incontreranno: libri, note, poesie, opere d’arte e d’artigianato, schiume, atti di sovrano coraggio e di composta viltà. Pezzi di quell’apparato che chiamiamo «vita ordinaria» e che abbondano di dettagli. E il dettaglio che qui si coglierà è quello di Daniel Arasse, che dev’«essere inventato […] dal desiderio di chi guarda», un’opera di taglio e ritaglio che «sfugge a qualsiasi controllo, a qualsiasi norma», che «fa avvenimento»4 in libri, note, poesie, opere d’arte, schiume, atti di coraggio e di viltà. Le sezioni saranno tre, per rispondere a tre incomponibili esigenze: sfogare rabbia compressa e forse un po’ d’invidia per chi riesce a portare la croce cirenaica della critica con adusa nonchalance (Proteste); lo sguardo di taglio a oggetti che della postcritica consentono di fare un metodo e non una teoria (Pretesti); applicazioni del metodo suddetto con gli esiti dubbi che immancabilmente ci si attende da una tale metodica scompostezza (Pertesti). Nella totale inavvertenza che segna un gioco provocatorio più che un serio lavoro di argomento e contrargomento, questo nostro sforzo precipita in un gesto di autorialità che esige un perdono, certo, ma che trova poi redenzione nel convincimento fermissimo, comune a ogni scritto qui raccolto, per cui l’Autore è il più grande dei pretesti, e forse il più ignobile.

* Da «La postcritica è solo un pretesto», a cura di Mariano Croce e Andrea Salvatore, Quodlibet/Collana Elements (2023).

Note

Note
1Spiace e non poco che qui si parli di «autrice» al singolare e «autori» al plurale, ma cinque promesse di consegna da parte di stimatissime colleghe, per ragioni tra loro molto diverse, sono andate inevase.
2Tra i volumi più recenti, si vedano Rita Felski, The Limits of Critique, University of Chicago Press, 2015; Elizabeth S. Anker, Rita Felski (eds.), Critique and Postcritique, Duke University Press, 2017; Toril Moi, Revolution of the Ordinary. Literary Studies After Wittgenstein, Austin, and Cavell, University of Chicago Press, 2017; Stephen Ahern (ed.), Affect Theory and Literary Critical Practice, Palgrave Macmillan, 2019; Mariano Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet, 2019; Rita Felski, Hooked. Art and Attachment, University of Chicago Press, 2020. Nella messe di articoli, si vedano Elizabeth S. Anker, Postcritique and Social Justice, «American Book Review», 38, 5, 2017, pp. 9-10; Mariano Croce, Etnografia della contingenza: postcritica come ricerca delle connessioni, «Politica & Società», 1, 2017, pp. 81-106; Id., Postcritica: oltre l’attore niente, «Iride», 2, 2017, pp. 323-339; Lorenzo Bernini, Eterotopie quotidiane. Foucault tra critica e postcritica, «Politica & Società», 2, 2018, pp. 191-214; Mariano Croce, Elogio dell’imprecisione, «Politica & Società», 2, 2018, pp. 273-290; Olivia Guaraldo, Postcritica: una genealogia, «Politica & Società», 2, 2018, pp. 163-190; Virginio Marzocchi, Come proseguire e sviluppare una critica riflessiva, apprendendo dalla postcritica. A proposito di Latour e Felski, «Politica & Società», 2, 2018, pp. 215-244; Andrea Salvatore, I soliti sospetti. Cosa viene dopo la critica, «Politica & Società», 2, 2018, pp. 245-258; Valeria Venditti, Cri/ti/ca/in/con/su/post/tra/fra. La postcritica come parte variabile del discorso teorico atto a creare legami tra concetti e pratiche, «Politica & Società», 2, 2018, pp. 259-272. Natascia Tosel, Tra le spire del serpente: il tradimento della postcritica, «Politica & Società», 3, 2018, pp. 419-430; Adriano J. Habed, Teorie e politiche della postcritica. Note su un dibattito transdisciplinare, «Filosofia politica», 2, 2020, pp. 337-348.
3Guido Piovene, Le furie, Bompiani, 2019, p. 17.
4Daniel Arasse, Il dettaglio. La pittura vista da vicino, trad. it. di Aurelio Pino, Il Saggiatore, 2007, p. 209.

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