Le realtà in cui viviamo

PPug5xKU
Marta Roberti, Don’t Worry, It’s Not Your Fault (Shower), 2017 - Foto di Giorgio Benni.

Schiuma

Correva l’anno 1987 quando, nel contesto francamente marginale di un’intervista a «Woman’s Own», Margaret Thatcher coniò il fortunato brocardo: there is no such thing as society. Eletta a espressione icastica dell’atmosfera psicopolitica degli anni Ottanta, da allora questa frase tranchant imperversa in dibattiti, libri, talk show, articoli scientifici e giornalistici, facendosi forza della sua capacità di innestarsi – con taglio pop e toni truci – sul tradizionale bipolarismo del pensiero politico moderno: società o individuo? Questa la faglia che segna ogni iniziazione politica: da che parte stai?

La Lady di ferro non ha dubbi, ma qualche inconsapevole sbavatura; ciò che esiste a suo dire sono individual men and women – come da copione – a cui però aggiunge senza ulteriori spiegazioni un terzo tipo di enti: families. Va da sé che sarebbe ingiusto leggere l’intervista a una politica come fosse un saggio filosofico – l’evocazione della famiglia, qui, risponde chiaramente ad altre logiche – e però è interessante che anche la più tenace corifea dell’individualismo si trovi costretta a inserire nella dicotomia secca individuo/società un tertium datur, per di più in un incomprimibile plurale: le famiglie. È una ruga sottilissima ma ci si può appigliare: il postulato di inesistenza della società suona comprensibile fin tanto che la «società» viene intesa nel senso più astratto, totale, singolare; il pubblico di «Woman’s Own» però sa benissimo, per esperienza concreta e quotidiana, che al mondo esistono ad esempio le famiglie – diverse, diversamente composte e magari ciascuna diversamente infelice –, ossia qualcosa che disturba il quadro dicotomico, impossibile da incasellare in quel binomio. Thatcher glielo deve concedere, non può irritare (e)lettrici smentendo le loro più immediate percezioni e aggiunge di soppiatto l’ente-plurale «famiglie». Proviamo a cambiare contesto e immaginiamo la Thatcher pronunciare lo stesso motto alle assise di una società commerciale, un’associazione sportiva, un club di amatori, un comitato di quartiere, una società scientifica; seguendo la stessa logica ne risulterebbe una frase dalla retorica farraginosa, qualcosa come: la società al singolare non esiste, esistono solo individui e società al plurale. Di nuovo quindi un ente-plurale, le società, la cui esistenza sarebbe stata innegabile in quel contesto in quanto evidente nella vita concreta degli ascoltatori; di nuovo qualcosa che stona in maniera sempre più disturbante con la rappresentazione manichea società/individuo.

L’appiglio si è fatto più agevole: nella tenaglia tra l’Uno della società compatta e coesa e l’uno dell’individuo autarchico e intero, già da sempre adulto, chi scompare sono i molti, i pochi, i tanti, i due, le bolle di cointeressati a una questione o di appassionati di montagna – insomma, tutti i numeri che stanno tra uno e tutto e per i più diversi motivi. Cosa esista davvero tra società e individuo non è forse la domanda giusta da farsi: hanno tutti torto e ragione, perché spontaneamente non esisterebbero né l’una né l’altro, ma entrambi possono esistere come effetto di tecniche – e a seconda delle tecniche usate ci saranno «individualismi» e «olismi» differenti – ed entrambi esistono come astrazioni e idealtipi – non rispecchiano la realtà, ma aiutano a parlarne e a nominare trasformazioni epocali. Più interessante misurare volta per volta cosa esista davvero tra società e individuo, in mezzo a questi due poli; adottando questa prospettiva il sociale emerge come un campo di aggregazione e di trazioni, un conglomerato di relazioni parziali che non gravitano spontaneamente attorno a un unico centro e contemporaneamente però non lasciano mai il singolo del tutto solo. «Società» è il nome dato a un punto di equilibrio – momentaneo e contingente – tra tensioni più o meno contrastanti esercitate da bolle più o meno ampie, più o meno solide, più o meno divergenti, più o meno connesse e interdipendenti1. Il punto centrale è lo spazio (enorme) aperto da quei ripetuti «più o meno», che consente l’individuazione e la descrizione di configurazioni storiche anche profondamente differenti; ogni «società» in astratto sarà anche sempre stata una schiuma – ossia appunto un agglomerato di bolle e relazioni forti – ma ogni «società» concreta è una schiuma a modo suo – e quindi, di nuovo, è più o meno schiumosa, più o meno densa, con bolle più o meno ampie, più o meno solide, più o meno divergenti ecc.

In questo modo è assolutamente escluso ogni gattopardismo filosofico – tutto cambia ma in fondo ciò che esiste davvero e sempre è l’individuo o la società o le bolle (o la lotta di classe o i gruppi etnici e via elencando); in questa prospettiva ogni ontologia è contemporaneamente una diagnosi, e una diagnosi inevitabilmente concreta, situata: si deve concentrare sul tipo di bolle effettivamente esistenti, sulla loro numerosità e conformazione, la loro viscosità e le loro reciproche relazioni, contaminazioni, distanze, incomprensioni. Forma e contenuto si amalgamano svelandosi indistinguibili: è necessario cominciare a parlare di qualcosa.

The world we had in common

«Un’alternativa c’è ma si chiama rivoluzione» sentenzia Tommaso Aricò, l’(anti?)eroe di Resistere non serve a niente2 – una frase che in bocca a Tommaso è di fatto la variante strafottente del più noto there is no alternative. In altri tempi, però, poteva essere l’incipit di un programma politico. «Rivoluzione» è una delle masse concettuali attorno a cui l’intero vocabolario politico moderno si incurva – di fatto influenza e orienta la definizione di «politica» tout court che emerge da quel lessico; anche senza impegnarsi in una scelta di campo tra le teorie della modernità su piazza, è innegabile che (la fede in) quello slogan – spesso scandito nella sua versione ottimista, senza avversativa – abbia contribuito a fare l’epica degli ultimi secoli agglutinando collettivi in rivolta, plasmando condotte di vita eroiche, inventando forme politiche inedite, sperimentando progetti di vertiginosa ingegneria sociale. Come tutti gli slogan, veicola con sé una matrioska di assunti cognitivi impliciti e però decisivi: in primo luogo il fatto che l’unica autentica e realistica alternativa a tutte le particolari storture dell’esistente sia l’Alternativa più totale, radicale e motorizzata, che tutte le coinvolge e tutte le sana; è velleitario – quando non controproducente o addirittura pelosamente deviante – pensare di poter aggiustare pezzi di mondo senza rovesciare un mondo intero, come costruire palafitte di vita vera sotto i marosi della vita falsa.

Secondo punto: esiste un fulcro di leva, è conquistabile o edificabile una stanza dei bottoni da cui imporre efficacemente il cambiamento del tutto; che sia la stanza del trono o il palazzo del governo, di media è il cuore dello Stato a essere individuato come luogo di concentrazione di quella summa potestas necessaria per decapitare l’esistente e creare il nuovo; la radicalità di una rivoluzione non si misura solo sulla sua capacità di individuare la vera radice di ogni patologia, ma anche sull’intelligenza dimostrata nell’occupare la reale fonte di ogni soluzione. In terzo luogo, e coerentemente, l’immagine della società negli occhi di un rivoluzionario è quella di una sfera unita e compatta: le bolle concretamente visibili sono meramente superficiali, le loro tensioni derivate e apparenti, figlie di incomprensioni o fomentate ad arte; il tutto della società è unito in basso dalla comune radice dei problemi e in alto dalla comune fonte delle soluzioni: eventuali resistenze vanno piegate – une volonté une! – o gestite, incanalate e ricondotte a unità – e pluribus unum.

«Un’alternativa c’è ma si chiama rivoluzione» suona oggi come argomento ad absurdum – paradossalmente avanzabile sia da un broker in odore di collusioni mafiose sia da un critico radicale in un momento di pessimismo. Ironicamente, il punto forte del fascino rivoluzionario si è ribaltato nel suo punto morto, minandone la credibilità – a parere velleitario, ora, è proprio ciò che si ammantava di spietato realismo: dover cambiare tutto per poter davvero sistemare qualcosa, ogni singola questione, vertenza, sofferenza.

La totalità scivola tra le mani, frustra e paralizza ogni afflato trasformativo incastrando aspiranti rivoluzionari in un circolo vizioso: nulla cambia se non cambia tutto, ma il tutto non si riesce nemmeno ad afferrare, non si tiene in un’unica presa, sfugge e svicola. I due momenti di saldatura – in basso: la comune matrice di ogni stortura, e in alto: il comune strumento di ogni liberazione – appaiono introvabili: troppo diverse e troppo variamente intersecate le ingiustizie e discriminazioni, spuntate o contraddittorie le armi per risolverle; ogni ipotesi di reductio ad unum suscita immediatamente accuse di riduzionismo – c’è sempre una questione dimenticata, una battaglia più campale, una casamatta più essenziale, un centro di comando più centrale o più potente che sfugge a quella descrizione, a qualunque descrizione, sempre automaticamente parziale e semplicistica. Il punto non è (tanto) una sopraggiunta incapacità a elaborare progetti generali e idee di «società»: semmai idee e progetti si sono moltiplicati esponenzialmente, in quanto ogni bolla interpreta l’intera schiuma con i propri stilemi e a partire dai propri traumi, preoccupazioni e fissazioni: scoprirli non condivisi e a volte nemmeno compresi è irritante – non capiscono, sono manipolati, ma in che mondo vivono? Il policentrismo della schiuma si riverbera sulla quotidianità politica: i partiti aggregano consenso giustapponendo rivendicazioni diverse se non contraddittorie, cercando di diventare «tutto» affiancando il maggior numero possibile di «parti»; l’esito è l’andamento tachicardico di partiti too big not to fail, vittime di un effetto ottico che fa apparire una schiuma di minoranze sociali momentaneamente ammassate come la sfera solida di una maggioranza elettorale.

Ogni vittoria è il prologo di una delusione, puntualmente imputata a immancabili tradimenti e onnipotenti forze oscure, ma in realtà derivata proprio dalla diversità e dalle dipendenze delle singole bolle che dopo il giorno di festa della consacrazione elettorale tornano a intralciarsi e a non capirsi l’un l’altra, riassestandosi continuamente lungo linee di faglia sempre differenti a seconda dell’ultima scottante questione; i vincoli che frustrano ogni azione governativa sono, anche e soprattutto, le resistenze e le tensioni esercitate proprio dalla schiuma, che costringono chi si pensava sovrano ad agire bilanciando interessi fragilissimi, prevenendo reazioni e immaginando effetti collaterali, in un ginepraio di piccole e complesse contrapposizioni. La schiuma risponde con sorprendente adattabilità a ogni iniziativa politica: tutto cambia sempre ma mai abbastanza per chi aveva sognato trasformazioni radicali con un paio di leggi ben assestate; l’alternativa più realistica sembra la rassegnazione o il rifugio nella paranoia. Lo spazio politico, pensato per essere luogo di emersione o costruzione di un mondo comune, si rivela il palcoscenico di una pluralità di mondi, punto di massima visibilità di un sociale multipiano, multilivello, multiprospettico.

Hai visto anche tu quello che ho visto io?

A metà degli anni Novanta David Foster Wallace dipingeva la realtà americana innervata dalla presenza della televisione – si guarda la televisione, si scrive di televisione, si critica la televisione in modi che la televisione è sempre capace di assorbire. La televisione era il vero collante della «società» americana: bolle che guardano uno schermo chiedendosi a vicenda «hai visto anche tu quello che ho visto io?»3; finché la risposta è affermativa in qualche modo tutto si tiene. Difficile oggi sostenere che vediamo le stesse cose, e gli esempi di dissociazione più macroscopica riempiono le pagine dei giornali – guerra di aggressione o reazione difensiva, democrazia imperfetta o dittatura mascherata, progressiva inclusività o macchinazioni di lobby gay; l’unica domanda che rimbalza tra le varie bolle non prevede risposta: ma in che mondo vivete?

Il punto, tanto ovvio da sfiorare la trivialità, è che nessuno vive nel mondo tout court; piuttosto, ognuno abita un mondo, è avvolto in un reticolo di relazioni, conoscenze, frequentazioni volute e obbligate: spazi con problemi condivisi, abitudini comuni, riferimenti noti, un vernacolo specifico e specifici dissapori. Le casse di risonanza, le bolle di consenzienti, sono solo un caso estremo e probabilmente sopravvalutato: una bolla non è una piccola sfera compatta, ma lo spazio creato dalla forza di gravità di preoccupazioni, interessi, passioni e abitudini – si litiga e ci si odia, ma sulle stesse cose e nella stessa lingua: su temi che fuori da lì sono irrilevanti e con lemmi che in altri mondi sono incomprensibili. L’ultimo articolo di Agamben, la schiodatura di una via alpinistica, i nuovi appalti per ludoteche e mense scolastiche o una presa di posizione sullo schwa sono eventi di cui è difficile che io non venga a conoscenza: accadono nel mio mondo in quanto creano un mondo tra chi per lavoro, passione o necessità ne è cointeressato – dovessero sfuggirmi leggerei negli occhi di chi di fatto frequento: ma sei fuori dal mondo?

Anche in questo caso ogni determinazione è negazione: conoscere quei temi e quegli idioletti implica ignorare cosa agita e lacera altri mondi – le comunità di fedeli cattolici o la comunità sorda, le nuove scene musicali, gli animalisti, la quotidianità dei care-giver o di un’adolescente di seconda generazione – se non altro perché banalmente non ho il tempo né l’occasione; nei momenti di contatto fioccano incomprensioni e reinterpretazioni: colmo le inevitabili lacune con i frame e i concetti che ho a disposizione, tarati sulla mia esperienza del mondo, rischiando sempre di cadere nella caricatura – e mentre del mio mondo conosco sfumature e tridimensionalità, le altre bolle appaiono tutte monocromatiche. Ogni intervento e presa di parola «pubblica» proviene da una bolla e avviene in una bolla: il suo primo risultato è la riconoscibilità e il posizionamento del parlante all’interno di quel mondo; anche quando è dedicato agli «altri» la loro presenza non è concreta, ma filtrata dall’immagine più o meno macchiettistica che ne abbiamo; anche quando è indirizzato agli «altri» è impossibile determinare il grado di fraintendimento a cui sarà sottoposto. Certamente hanno un peso rilevante le differenze di reddito e patrimonio, ma si intersecano con una miriade di altri fattori – appunto passioni, tipologie di lavoro, interessi, abitudini e quotidianità4: il mondo accademico, ad esempio, coagula dall’ordinario a chi è costretto al volontariato intellettuale.

Gli esempi mobilitati sono esagerati e dozzinali (oltre che autobiografici), e me ne scuso; non si tratta però solo di «rendere l’idea», ma di testimoniare come non esista una bolla-delle-bolle, un punto prospettico surplombant sulla sfera che si crede erroneamente una schiuma: chi si occupa di temi più generali, più sferici, in realtà non si muove sotto cieli molto più ampi dei miei, ma semplicemente abita la bolla di cointeressati a quei temi. L’effetto di questa estrema schiumizzazione è una sorta di polirealismo, erede illegittimo del più nobile politeismo dei valori: dissidi e conflitti sorgono a ridosso dello statuto ontologico da assegnare a determinati fenomeni, e non sulla loro valutazione; esiste o no la cancel culture, la teoria gender, il razzismo strutturale, la dittatura sanitaria? Lo scontro politico ha in palio e si gioca sul campo della definizione della realtà, e solo in seconda battuta investe valutazioni, strategie e modalità di trasformazione di ciò che esiste. Anche questo può essere concausa del percepito radicalizzarsi delle contrapposizioni: ogni bolla vede minacciata la possibilità della propria stessa esistenza, negata la realtà della propria esperienza del mondo, sminuite le proprie preoccupazioni; più spesso, semplicemente, non ci si capisce.

Politica nella schiuma

Che fare? – chiedeva un rivoluzionario di successo. Che fare ora, se davvero quanto detto è plausibile e la rivoluzione as we knew it è impossibile, la politica impacciata, il sociale sgretolato in realtà autocentrate? Non c’è bisogno di particolari benedizioni teoriche per fare ciò che già facciamo spontaneamente: prenderci cura del nostro mondo e animare, rafforzare e allargare le migliori bolle della schiuma. Questo però non è sufficiente – non solo per le preferenze di chi scrive, ma perché bisognerebbe credere in mani invisibili o dispositivi simili per postulare un’immediata coesistenza tra mondi. Peraltro, in inciso, piccolo non è bello – o almeno non lo è automaticamente; essere estranei al mainstream non significa esserne migliori: esistono bolle oscene e ogni bolla ha la sua percezione di cosa sia il mainstream a cui si oppone; ogni mondo ha inevitabilmente le sue regole d’ingaggio, le sue censure e gerarchie, i suoi silenzi imposti, e un sopruso rimane un sopruso anche se esercitato in uno spazio sociologicamente minuscolo: per chi ne è vittima quella bolla è comunque il mondo.

Il punto è che l’autarchia è un’illusione, le realtà in cui viviamo sono autocentrate ma non autonome: ogni mondo dipende da una quantità incalcolabile di prestazioni svolte da altre bolle, ogni esperimento di nicchia è possibile perché altri – che non conosce, non capisce, non apprezza – agiscono diversamente. Politica nella schiuma significa primariamente gestione delle nostre interdipendenze a partire da una salda, magari pure dolorosa, consapevolezza delle nostre interdipendenze: da un lato comporre, compensare, mediare e rimediare diventano operazioni decisive e non sinonimi di tradimento; dall’altro è importante preservare (e se ci si riesce: inventare) spazi di palesamento del polirealismo, in tutta la sua irritante varietà. Se forse è sovrumano conoscere gli altri mondi, è necessario quantomeno sapere che esistono – con le loro paure, le loro fisime, la loro normalità – e senza nemmeno andare «al di là dei monti»5; nulla di necessariamente astruso, in realtà: la scuola pubblica da questo punto di vista è fondamentale per chi la frequenta quanto per i loro genitori. La forza trasformativa della politica può essere salvaguardata liberando la politica stessa dall’abbraccio con la totalità, immaginando forme più circoscritte e meno generali: nessuna velleitaria nostalgia della sfera in scala ridotta, ma la valorizzazione politica delle diversità della schiuma abdicando a impossibili «volontà generali».

Si può provare a storpiare il motto di Tommaso Aricò: l’alternativa c’è ed è questa la rivoluzione – è la stessa comparsa di un’alternativa a «rivoluzionare» l’intera schiuma, a modificarla senza ribaltarla. Non si tratta di sopravvalutare la forza dell’esempio, nessuno sogna palingenesi per contagio; più modestamente, nella schiuma è rivoluzionario ciò che intralcia e inceppa il riprodursi irriflesso di abitudini e normalità: l’esistenza di un’alternativa, di un mo(n)do diverso, implica automaticamente la perdita dell’innocenza per tutti – nulla di ciò che è ovvio rimane intatto, ciò che era spontaneo è obbligato a manifestarsi e a reperire tecniche per replicarsi. Ognuno potrà poi comportarsi come preferisce, ma nessun atteggiamento potrà più essere involontario: dovrà essere scelto e quindi giustificato, legittimato, chiarito, spiegato, esplicitamente prodotto; qualcosa che era «dato» diventa «fatto», e in questo stacco è già immediatamente modificato: si apre uno spazio di inevitabile artificialità e quindi manipolabilità i cui esiti sono sempre imprevedibili e mai assicurati – insomma: si rivoluziona senza imporsi su altre bolle, si rivoluziona anche obbligando l’osceno a dichiararsi tale, impedendogli di pensarsi ovvio. Poca roba – direbbe il vero rivoluzionario di inizio paragrafo –, tutto cambia (poco e sempre) e nulla si rovescia: vista dall’alto la schiuma vibra e sussulta ma non si capovolge; non è materiale per epiche grandiose. Tutto vero, ma lassù, a osservare la schiuma nella sua interezza, in realtà non c’è nessuno; cosa sia degno di essere definito «rivoluzionario» va visto misurando gli effetti nelle singole bolle: alcune si riassesteranno e cercheranno di limitare i danni, altre si amplieranno, altre ancora scoppieranno: per loro sarà la fine del mondo.

Da «La postcritica è solo un pretesto», a cura di Mariano Croce e Andrea Salvatore, Quodlibet/Collana Elements (2023).

Note

Note
1Cfr. Peter Sloterdijk, Sfere III. Schiume, Raffaello Cortina, 2015.
2Walter Siti, Resistere non serve a niente, Rizzoli, 2012.
3Cfr. David Foster Wallace, E unibus pluram, in Id., Tennis, TV, trigonometria, tornado, Minimum Fax, 1997.
4Nulla di particolarmente eccentrico: si tratta in sostanza dello sguardo adottato e praticato da Max Weber in tutti i suoi scritti, ma con particolare evidenza in Comunità religiose, Donzelli, 2006, e nei quattro volumi della Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, 2002.
5L’espressione è di Montaigne, ripresa e valorizzata da Hans Blumenberg, Immagini del mondo e modelli del mondo, «Discipline filosofiche», XI, 2001, p. 19.

Newsletter

Per essere sempre aggiornato iscriviti alla nostra newsletter

    al trattamento dei dati personali ai sensi del Dlg 196/03