La forza della nonviolenza
Un vincolo etico-politico
Pubblichiamo un estratto dall’ultimo libro di Judith Butler, La forza della nonviolenza, da oggi in libreria, nella traduzione di Federico Zappino per Nottetempo. Ringraziamo l’autrice, il curatore e l’editore per l’anteprima.
Viviamo in un tempo di grandi atrocità e di morti insensate, che fanno sorgere rilevanti questioni etiche e politiche. Su tutte: quali sono le modalità di rappresentazione che abbiamo a disposizione per comprendere questa violenza? Secondo alcuni, le autorità globali e locali dovrebbero identificare i gruppi vulnerabili e offrir loro protezione. Per quanto io non abbia nulla in contrario alla proliferazione di “documenti di vulnerabilità” che consentirebbero a un maggior numero di migranti di oltrepassare i confini nazionali, mi chiedo tuttavia se questa particolare forma di discorso e di potere sia in grado di condurci al cuore del problema. È piuttosto risaputo, infatti, che il discorso sui “gruppi vulnerabili” riproduce forme di potere paternalistico e conferisce autorità agli organi disciplinari con propri interessi e propri poteri coercitivi. Allo stesso tempo, so bene che molti fra coloro che si battono contro la vulnerabilità fanno proprie queste preoccupazioni nel loro lavoro empirico e teorico.
Ciò che sembra chiaro è che nonostante sia molto importante ripensare la vulnerabilità e dare maggior spazio alla cura [care], né la vulnerabilità né la cura possono costituire il fondamento di una politica. Mi piacerebbe senz’altro essere una persona migliore di quella che sono, o lottare per diventarlo, anche attraverso il riconoscimento della mia profonda e ricorrente fallibilità. Tuttavia, nessuno di noi dovrebbe sforzarsi di essere un santo, specialmente se questa santità presuppone l’attribuzione della virtú esclusivamente a noi stessi e la proiezione della dimensione imperfetta o distruttiva della psiche umana su altri, che vivono nella dimensione del “non io” e dai quali ci disidentifichiamo. Tutto questo è per dire che se con espressioni come “etica della cura” o “politica della cura” s’intende che una disposizione umana, aperta e non conflittuale, possa o debba costituire una cornice concettuale politica per il femminismo, allora andiamo a collocarci in una realtà bipartita, in cui la nostra aggressività o viene espunta dal quadro o viene proiettata solo sugli altri. Allo stesso modo, sarebbe troppo facile e lineare stabilire che la vulnerabilità possa costituire il fondamento di una nuova politica; se considerata come una condizione, infatti, la vulnerabilità non può né essere isolata da altri termini, né costituire il tipo di fenomeno da porre a fondamento di qualcosa. C’è per caso qualcuno la cui vulnerabilità non dipende da una persistente condizione che la produce in quanto tale? Se pensiamo a coloro che, pur trovandosi in una condizione di vulnerabilità, le resistono, come possiamo comprendere questa ambivalenza?
Per come lo intendo, l’obiettivo non è quello di far fronte comune in quanto creature vulnerabili, né di creare una classe di persone che si identificano primariamente con la vulnerabilità. Quando descriviamo le persone e le comunità soggette a forme sistematiche di violenza, rendiamo loro giustizia, o rispettiamo la dignità della loro lotta, se le categorizziamo come “vulnerabili”? Nell’attivismo per i diritti umani, per esempio, la categoria di “popolazioni vulnerabili” designa tutti coloro che necessitano di protezione e di cure. Chiaramente, è cruciale portare all’attenzione pubblica la situazione di coloro che sono privati dei diritti umani basilari, come quello al cibo e alla casa, nonché di coloro le cui libertà di movimento o i cui diritti di cittadinanza sono negati, quando non addirittura criminalizzati. Infatti, sempre piú profughi versano in condizioni di abbandono da parte degli stati nazionali e dalle organizzazioni transnazionali [e sovranazionali, n.d.t.] come l’Unione europea. Secondo alcune recenti stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, gli apolidi, in tutto il mondo, sarebbero attualmente circa dieci milioni1. Ma soggetti “vulnerabili” sono anche le vittime di feminicídio in America Latina (circa tremila ogni anno, specialmente in Honduras, Guatemala, Brasile, Argentina, Venezuela ed El Salvador), concetto con cui ci si riferisce a chiunque sia vittima di brutalizzazione o uccisione per il mero fatto di essere un soggetto femminilizzato, tra cui chiaramente un gran numero di donne trans. Allo stesso tempo, il movimento Ni Una Menos ha mobilitato oltre un milione di donne in tutta l’America Latina (ma anche in Spagna e in Italia), che sono scese in piazza al fine di contrastare la violenza maschile. Organizzando comunità di donne, persone trans e persone non conformi al genere, il movimento Ni Una Menos è entrato nelle scuole, nelle chiese e nei sindacati per connettere fra loro donne di diverse classi sociali e appartenenze geografiche al fine di opporsi all’uccisione delle donne e delle persone trans, cosí come alla persistenza di discriminazione, violenza fisica e disuguaglianza sistemica.
Spesso, le morti per femminicidio vengono narrate come storie sensazionalistiche, che ci lasciano momentaneamente sotto shock. E che poi si ripetono regolarmente. Ci fanno orrore, non c’è dubbio, ma raramente ne deriviamo un’analisi e una mobilitazione in grado di focalizzarsi sulla rabbia collettiva che le produce. Il carattere sistemico della violenza di genere viene del tutto espunto nel momento in cui viene detto che gli uomini che commettono tali crimini soffrono di disturbi della personalità o di condizioni patologiche specificamente individuali. E la stessa rimozione accade quando si descrivono quelle morti come “tragiche” – come se forze universali in conflitto fra loro conducessero a uno sfortunato epilogo. La sociologa costaricana Montserrat Sagot, in proposito, sostiene che la violenza contro le donne non mette in luce solo il carattere sistemico della disuguaglianza fra uomini e donne in tutti gli ambiti della società, ma si manifesta in forme di terrore che sono parte dell’eredità del potere dittatoriale e della violenza militare2. L’impunità riservata a queste uccisioni brutali finisce dunque col tramandare l’eredità di una violenza in cui dominio, terrore, vulnerabilità sociale e una generale devastazione erano del tutto regolari. Secondo Sagot, il ricorso a caratteristiche individuali, patologie, o alla cosiddetta “aggressività maschile”, non serve a spiegare uccisioni come queste. Al contrario, questi atti dovrebbero essere letti in termini di riproduzione di una struttura sociale. Di piú: dovrebbero essere descritti come forme di terrorismo sessista.
Per Sagot, l’uccisione è la manifestazione piú estrema del dominio, e le altre sue forme, come la discriminazione, la molestia o la violenza fisica, dovrebbero essere intese in linea di continuità con il femminicidio. Non si tratta di un mero rapporto di causa-effetto, anche se ogni forma di dominio segnala la possibilità di un epilogo letale. La violenza sessuale reca con sé la minaccia della morte, e troppo spesso mantiene la promessa.
Almeno in parte, il femminicidio opera attraverso la creazione di un clima di paura in cui ogni donna, e ogni donna trans, può essere uccisa. E questa paura, specialmente in Brasile, cresce fra le donne e le persone queer non bianche. Queste persone si autopercepiscono come sopravvissute, ossia viventi nonostante la minaccia che proviene dall’ambiente in cui vivono e in cui resistono e respirano, sempre in un clima di potenziale pericolo. Le donne che vivono in un contesto di questo tipo, sono in qualche misura terrorizzate dal diffondersi e dall’impunità del femminicidio. Questo terrore le induce a subordinarsi agli uomini al fine di scongiurare quella sorte, e ciò significa dunque che la loro esperienza di disuguaglianza e subordinazione non è scindibile dal loro status di persone “uccidibili”. “O ti sottometti o muori”: potrebbe sembrare un imperativo iperbolico, ma è semplicemente il messaggio che molte donne sanno perfettamente essere indirizzato a loro. Troppo spesso questo potere terroristico è spalleggiato, supportato e rafforzato dalla polizia e dal sistema giudiziario, nel rifiuto generale di perseguire il reato e nel disconoscimento del carattere criminale del gesto. E a volte, la violenza viene inflitta di nuovo contro le donne che osano sporgere denuncia, al fine di punire quella manifestazione di coraggio e persistenza.
In questo scenario, a essere chiaramente violenta è l’uccisione, la quale però non si ripeterebbe con cosí grande velocità e intensità se non si ignorasse il crimine, se non si incolpasse la vittima e soprattutto se non si trattasse l’assassino come un malato, al fine di sollevarlo dalle proprie responsabilità. Troppo spesso l’impunità è sorretta dalla struttura giuridica (ecco perché le autorità locali resistono all’intervento della Corte Interamericana dei Diritti umani), e ciò significa che il rifiuto di accogliere la denuncia, le minacce riservate a coloro che la sporgono o il disconoscimento del crimine, perpetuano questo tipo di violenza e autorizzano a uccidere nuovamente. In casi come questi, è importante localizzare la violenza non solo nel singolo atto, ma anche nel presagio che il dominio sociale sulle donne – e su tutte le persone femminilizzate − reca con sé. La violenza avviene quindi nella serie di rifiuti e di disconoscimenti giuridici: se non c’è denuncia non c’è crimine, non c’è punizione e non c’è riparazione.
Se si intende il femminicidio come istanza produttrice del terrore sessuale, allora le lotte femministe e trans non sono solo legate fra loro (come comunque dovrebbero essere) ma legate anche alle lotte delle persone queer, di tutti coloro che lottano contro l’omofobia e alle lotte delle persone non bianche, sproporzionatamente soggette a forme di violenza o di abbandono. Se il terrore sessuale non viene messo in connessione solo con il dominio, ma anche con lo sterminio, allora la violenza sessuale può costituire uno spazio di storie complesse di oppressione cosí come di lotte per la resistenza. Per quanto individuali e terribili possano sicuramente essere quelle singole perdite, sono comunque il frutto di una struttura sociale che considera le donne come non degne di lutto. L’atto di violenza rappresenta la struttura sociale, e la struttura sociale, a sua volta, eccede i singoli atti di violenza per mezzo dei quali si manifesta e si riproduce. Si tratta di perdite che non sarebbero dovute accadere e che non dovranno accadere mai piú: è questo ciò che significa ni una menos – non una di meno.
Quanto detto fin qui non rende forse giustizia alla specificità storica di questi atti di violenza; tuttavia, può introdurci a una serie di questioni che potrebbero rivelarsi molto utili se vogliamo analizzare un’uccisione dopo l’altra come qualcosa di non riducibile a una serie di atti terribili e isolati. La domanda etica ed epistemologica di contribuire alla creazione di uno scenario piú globale al fine di comprendere meglio la realtà non può prescindere dalle uccisioni che hanno luogo nelle carceri e nelle strade statunitensi, di cui è responsabile la polizia, che spesso ricorre alla giustizia sommaria. Il ricorso, da parte del populismo dell’estrema destra, a nuove forme di autoritarismo, a nuove logiche securitarie e a maggiori poteri per le forze dell’ordine, la polizia e l’esercito (nonché la peculiare fusione tra questi ultimi tre, che sembra ormai monitorare sempre di piú lo spazio pubblico) presuppone che istituzioni letali come queste siano necessarie per la “protezione” delle “persone” dalla violenza; eppure, giustificazioni come questa non fanno che ampliare i poteri di polizia e assoggettare quanti già si trovano ai margini a sempre crescenti strategie carcerarie di contenimento e restrizione.
Esiste un modo per nominare e contrastare tali forme necropolitiche senza con ciò produrre una classe di vittime che nega alle donne, alle persone queer e trans e alle persone non bianche (in senso ampio) la possibilità di creare le proprie reti, le proprie teorie e analisi, le proprie forme di solidarietà e il proprio potere di organizzare un’opposizione efficace? La polizia, infatti, “protegge” le persone dalla violenza ampliando i propri poteri carcerari in nome di quella protezione. Ma non rischiamo di fare involontariamente lo stesso quando parliamo di “popolazioni vulnerabili” e il fine diventa, quindi, quello di sollevarle da questa vulnerabilità? Un simile compito sarebbe chiaramente assunto da un’organizzazione o da un ente di assistenza. Sollevare le persone dalla precarietà è positivo, sia chiaro; un simile approccio, tuttavia, è effettivamente in grado di cogliere e contrastare le forme strutturali della violenza e i sistemi economici che espongono le popolazioni a un’invivibile precarietà? Dobbiamo necessariamente abbracciare il paternalismo per unirci alle reti di solidarietà in opposizione alle forme di dominio sociale e di violenza insieme a chi è certo vulnerabile ma anche in lotta? Nel momento in cui il gruppo dei “vulnerabili” viene costituito come tale, le persone che ne fanno parte possono continuare a esercitare un qualche tipo di potere? Oppure, in una situazione di vulnerabilità dichiarata, il loro potere svanisce, riemergendo sotto forma di potere paternalistico di cura che costruiamo come obbligato a intervenire?
Che cosa accadrebbe se intendessimo la situazione delle persone vulnerabili come una costellazione non solo di vulnerabilità, ma anche di rabbia, persistenza e resistenza che ha luogo in seno alla loro stessa condizione storica?
Note
↩1 | United Nations High Commissioner for Refugees, Statelessness around the World, sul sito ufficiale unhcr: unhcr.org |
---|---|
↩2 | Montserrat Sagot, “A rota crítica da violência intrafamiliar em países latino-americanos”, in Stela Nazareth Meneghel (ed.), Rotas criticas: mulheres enfrentando a violencia, Editoria Usinos, 2007, pp. 23-50. |
condividi