La libertà politica dell’arte
Tra industrie creative e governo dei pubblici
Non è più possibile parlare di politicizzazione della cultura e di engagement, giacché ciò automaticamente «comporterebbe di nuovo riconoscere che la cultura è, per statuto, fuori dall’economia di mercato e dalle strategie di potere» e che «dunque, di per sé, è impolitica». Oggi «la produzione artistica e culturale gioca un ruolo centrale nei processi di valorizzazione capitalistica» e «l’economia dell’informazione produce una coincidenza immediata tra struttura e sovrastruttura, tra lavoro e società, tra industria e creatività».
A fronte di tale scenario non si può far altro che «riconoscere l’industria artistico-culturale come nuovo terreno di scontro politico e i suoi attori come coloro che lasciano da parte le maschere rassicuranti dell’identità dell’artista o del curatore per riconoscersi come differenti soggettività produttrici: artworkers, cultural producers, knowledge workers o in qualunque altro modo si vogliano chiamare gli attuali esponenti del lavoro autonomo, purché si riconosca la definitiva trasformazione della conoscenza in merce fittizia all’interno del capitalismo cognitivo».
Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici (DeriveApprodi, 2016) di Marco Scotini – frutto di una accurata selezione di testi, tutti tranne uno già apparsi nei contesti più disparati – è un volume denso e costellato da una molteplicità di tematiche e protagonisti, un libro in cui l’autore in qualche modo sintetizza quasi un ventennio di attività di curatore e di teorico dell’arte, eppure se esiste un architrave che regge tutto il suo edificio non mi pare identificabile che nella tesi sopra enunciata: da una parte l’assoluta integrazione del mondo artistico-culturale entro il regno totalizzante dell’economia neoliberista, specie attraverso la parossistica moltiplicazione delle biennali, e dall’altra la necessità di una effettiva presa d’atto da parte degli operatori culturali, cui non sarebbe più lecito pensare se stessi come impegnati a parlare in nome di qualcun altro quando in gioco è la mercificazione della loro stessa vita lavorativa e non.
A partire da tale tesi Scotini sviluppa dunque una penetrante critica del «brand Manifesta», vero e proprio paradigma del progetto post-fordista nell’ambito dell’Unione Europea, accusata di aver tradito la mission iniziale passando «Dall’imperativo politico di instaurare un dialogo pan-europeo […] all’imperativo economico di valorizzazione di segmenti locali», e ciò è tanto vero che ormai «il processo di candidatura che presiede questa estensione territoriale produttiva è, di fatto, simile a quello di manifestazioni modello Expo, e Manifesta, in cambio, propone se stessa come la leva in grado di unire tutti i piani di investimento che sono in cantiere e connettere tutti i maggiori azionisti locali per portarli ad un più alto livello di valorizzazione», mentre quando si vanno «a intaccare condotte sociali e cornici burocratiche» – come nel caso della Manifesta 6 di Cipro – il «destino della biennale è quello di venire cancellata».
Ma accanto a Manifesta sono molteplici gli episodi di governo dei pubblici denunciati da Scotini, da quello – «portato al suo esito paradossale» – della mostra di François Pinault, «il numero uno della finanza francese», dedicata agli artisti dei paesi emergenti e populisticamente intitolata Le monde vous appartient, a quello della 54ª Biennale di Venezia, ove la curatrice «non si è accontentata di chiamare Illuminazioni una mostra che ha come main sponsor la multinazionale Enel, ma addirittura ha attribuito il Leone d’Oro all’opera The Clock di Chruistian Marclay per non contravvenire alle esigenze di marketing del brand svizzero Swatch». Grande rammarico suscita in lui anche la scelta del Beirut Art Center di evocare, con la mostra Revolution vs Revolution, «qualcosa che riguarda le recenti insurrezioni del Nord Africa e del Medio Oriente», ma poi di bandire deliberatamente «ogni immagine dell’insurrezione araba (perché è ancora in corso, si giustificano gli organizzatori)» e presentare, «al suo posto, una serie di artisti occidentali mainstream» onde mostrare «come finiscono in genere le rivoluzioni (quella sovietica, quella cilena, quella praghese, quella iraniana, per citarne alcune)».
Un giudizio positivo tocca invece alla IX Biennale di Istanbul che, curata dal collettivo femminile croato WHW (What, How and for Whom), si configura come «un acceso e ostinato tentativo di denuncia della degradazione delle libertà pubbliche, della affermazione della nuova divisione e distribuzione economica, della depoliticizzazione della politica, del potere egemonico e spettacolare dell’economia». Caso virtuso, che peraltro vede lo stesso Scotini tra i protagonisti, è poi anche quella «modalità collettiva, alternativa e costituente quale è Isola Art Center» – impegnata all’inizio del Duemila a contrastare «il vecchio piano di speculazione fondiaria e immobiliare del colosso multinazionale texano Hines – benché alla fine lo sgombero del 2007 decreti la sconfitta della sua battaglia.
Pur essendo pronto costantemente ad additare – lo abbiamo visto – la avanzata brandizzazione degli eventi espositivi a livello internazionale, Scotini è, del resto, prima di tutto uno che crede nel potenziale valore «delle mostre artistiche a vocazione politica» ed egli stesso è in quest’ultimo quindicennio tra i suoi più assidui promotori, essendo tra l’altro l’ideatore di Disobedience Archive, cui è dedicata l’intervista con Gaia Casagrande che chiude il volume. Alle mostre politiche, a tracciare un loro bilancio e ad ipotizzare un loro possibile destino è dedicata la conversazione con il collega Charles Esche. Memorabile è invece quella con Harald Szeemann, avvenuta il 2 dicembre 2000 ad Ascona nei giorni del centenario del Monte Verità, ove il curatore svizzero, in procinto di curare la biennale veneziana, proponendo un progetto dal titolo Platea dell’umanità, si sofferma sulle tappe del suo percorso pregresso – da When Attitudes Become Form agli episodi più recenti – senza rinunciare a dire la sua sulla situazione attuale dell’arte contemporanea. Ad essa segue immediatamente dopo quello che invece è il testo più recente l’intervista con il critico e curatore cinese Li Xianting sulla storia dell’arte del suo paese e sulle vicissitudini della penetrazione dell’arte occidentale in esso. Ancora tra le interviste sono da segnalare le due al filosofo Paolo Virno, l’una del 2003 quando ancora non si è esaurita del tutto la spinta propulsiva del movimento no global, l’altra nel 2012 all’indomani dell’epifania degli Indignados e dei movimenti Occupy.
Da segnalare infine una grande attenzione per il cinema d’artista – cui è dedicato circa un terzo del volume – e sempre politicamente, seppur variamente, motivato. Compaiono così contributi critici su Guy Debord, ove «il cinema e l’urbano […] si rimandano l’un l’altro continuamente» e pertanto «solo a partire da entrambi, dal loro indissociabile concatenamento, è possibile intervenire nel senso antagonista di una possibile costruzione di soggettività autonoma, di rovesciamento di costruzione sperimentale nella vita»; su Alberto Grifi, che con Parco Lambro (1976) «trasforma il processo di registrazione in una controinchiesta strappata di mano ai cronisti e direttamente ridistribuita ai soggetti stessi della contestazione»; su Oliver Ressler, la cui politicità della produzione non «sta tanto nel suo carattere di contro-informazione […] o nell’assumere l’attivismo politico come obbiettivo tematico», ma è segnata da «un’istanza originaria e conflittuale», «quella della ridistribuzione sociale e della restituzione all’uso comune di quanto viene catturato dai dispositivi di potere neoliberisti»; su Clemens von Wedemeyer, che «delle immagini e del cinema» restituisce l’esperienza «di una continua metamorfosi in cui i segni e i flussi si fanno e si disfano alternativamente, cercano di sottrarsi a qualsiasi cattura che li fissi in ruoli e funzioni predefinite, lasciando sempre disponibile un’eventuale riserva, aperta ad altri sviluppi possibili»; su Deimantas Narkevičius, per il quale – al pari di tutta «una generazione di artisti e filmmaker che si sono trovati ad operare nel crollo delle cosiddette grandi narrazioni» – «accedere al passato […] non significa rimemorizzare lingue morte ma disarchiviare i segni ribelli delle catalogazioni ufficiali: non tanto portare alla luce l’oggetto del ricordo quanto ciò che esso (con il suo apparire) rende invisibile e rimuove»; su Armando Lulaj, autore di Albanian Trilogy, «vera e propria decostruzione del potere e delle sue forme a partire dai miti sociali che hanno operato all’interno di una delle più chiuse e internazionalmente isolate realtà politiche di tutti i paesi socialisti della precedente Est Europa».
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