La poetica dell’ombra che svela
Marcel Broodthaers secondo Serena Carbone
«Questo libro», scrive nell’introduzione Serena Carbone, «più che nominarsi una monografia potrebbe dirsi una sorta di manuale d’istruzioni per l’uso che contestualizza e offre delle possibili chiavi di lettura ed interpretazione dell’arte di Broodthaers e di alcune tecniche, soluzioni e stratagemmi che da allora non smettono di ripetersi nell’arte contemporanea». Se l’autrice impostasse il suo lavoro come una monografia vera e propria sarebbe già un buon traguardo, giacché nel contesto italiano un lavoro del genere, malgrado l’estrema rilevanza dell’artista – tanto sul piano qualitativo in sé, quanto sul piano dello sviluppo della storia delle arti visive dell’ultimo secolo -, manca. Tuttavia la Carbone non si accontenta; fa molto di più, configurando i suoi studi come una delle poche felici eccezioni nel panorama della critica d’arte italiana, e non solo, della sua generazione. Il suo approccio è distantissimo non solo dalle attitudini para-pubblicitarie tipiche di molti critici-curatori, ma anche da quello di gran parte dei giovani storici dell’arte contemporanea di ambito accademico, troppo spesso eccessivamente schiacciata sulla pura ricostruzione filologica.
Se l’oggetto del suo libro, Marcel Broodthaers. Poetiche dell’ombra (Mimesis, 2018), è l’attività dell’artista belga, anche il suo metodo sembra avere affinità con le poetiche di quest’ultimo – e non solo con quelle dell’ «ombra» allorché intese come «inoperose, sottrattive, negative, che partono dall’esistente e nell’esistente pigramente si collocano». La sua indagine è multiplanare, pluridisciplinare, moderatamente tesa alla conchiusione, di fatto potenzialmente ancora suscettibile di nuovi territori da esplorare ed angolazioni dalle quali osservare. Come Broodthaers è «brillante e malinconico, saccente e raffinato, bizzarro e colto, molto colto», così la sua esegeta si dimostra all’altezza della situazione, essendo in grado di padroneggiare non solo il sapere specificamente storico-artistico, ma anche quello filosofico, sociologico, letterario ed inquadrarlo entro una sintesi organica che le permetta di restituire la complessità del personaggio.
Complessità mi pare appunto una parola chiave. Un altro aspetto degno di nota del libro è infatti il non negare ma neanche assecondare più di tanto quella vulgata che vuole Broodthaers «tra i padrini della Critica Istituzionale, insieme a Daniel Buren in Europa e Hans Haacke e Michael Asher negli Stati Uniti» – la stessa scelta del sottotitolo rappresenta quanto di meno comunemente possa addirsi alla critica istituzionale, solitamente intesa come una pratica votata a fare luce nelle tenebre delle convenzioni artistiche ed espositive. Non c’è forse del resto movimento artistico più «inventato» – e designato a posteriori –, dato che i quattro di cui sopra non hanno mai coscienza di farne parte a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, né tanto meno espongono mai insieme in una sorta di mostra che unisca gli esponenti della critica istituzionale, operazione che peraltro non sarebbe sfuggita a qualche punta di paradosso, giacché se pure c’è a suo tempo una critica istituzionale non cosciente del suo costituire un gruppo, essa non deve neanche essere troppo riconoscibile dal sistema, onde perseguire i suoi obbiettivi. Non di meno la nozione di critica istituzionale sorge non prima degli anni Ottanta – non a caso, considerando che allora la spinta delle prime forme di critica istituzionale, fortemente legate agli anni della contestazione, si è esaurita – e sorge in ambito squisitamente accademico e statunitense.
È vero, il libro non è privo di passaggi come il seguente: «L’occhio posto di fronte a esse (le opere di Broodthaers) incontra e scontra una relazione frammentaria, fittizia nel suo complesso, non perché ci sia una verità che assuma forme e caratteristiche opposte, ma perché fittizi sono gli ingranaggi legati al culturale che la società dei consumi nascente ha messo in azione. Compito dell’artista è allora quello di svelarli, attraverso un processo di demistificazione per rivelare il loro ombroso incedere nella quotidianità. Difatti, la sua pratica non è protesa verso la conquista di una verità, quanto verso la possibilità di sferrare ancora un fendente contro un nemico invisibile ma pur sempre insidioso». Non è privo cioè di passaggi che sembrano ricalcare il profilo quasi antagonista dell’artista belga. Tuttavia, a ben vedere, anch’essi sono lungi dal plasmare una soggettività meccanicistico-manichea, attitudine che talvolta si tende a riferire – in verità più a torto che a ragione – ad Haacke. La Carbone non mostra di credere che Broodthaers miri alla ricostruzione di una verità – a differenza, ancora una volta, di quanto si dice costantemente del suo collega tedesco – e se si parla di un nemico esso sembra avere tratti più foucaultiani che marxiani/marxisti. È un nemico invisibile, dunque non facilmente identificabile, un nemico forse diffuso. Quelli di Haacke invece – neanche a dirlo – hanno sempre nomi e cognomi, tanto è vero che, come si sa, non necessariamente «stanno al gioco».
Se la scansione del volume è rigorosa, «tre parti o capitoli che, letti come conseguenziali l’uno all’altro, costituiscono una catena di senso, come del resto suggeriscono i titoli: Dalla parola all’oggetto, Dall’oggetto al décor, Dal décor alla salle, già l’alternanza tra paragrafi dedicati all’analisi delle opere e «paragrafi che contestualizzano le stesse in un panorama ricco di suggestioni comparatistiche, poetiche, estetiche, museologiche» elude magistralmente la monotonia tipica del genere della monografia su un artista. Tenendo conto poi dei margini di contestualizzazione che ancora potrebbero esserci, in ragione delle sollecitazioni plurime che l’opera di Broodthaers possiede, ma anche delle capacità di ricezione e di elaborazione dimostrate dall’autrice, conclusa la lettura si resta con un senso di piacevole indefinito, con un appetito solo in parte soddisfatto, giacché anche alimentato dalla lettura stessa. Con quel senso di interrogazione e mistero che è probabilmente il tratto più tipico di tutta la grande poesia dalla fine del Ottocento in poi e forse anche prima. Del resto quando si racconta che Broodthaers passa dalla poesia alle arti visive non è forse un modo un po’ sintetico per descrivere un passaggio più complesso dal sistema delle arti della parola a quello delle arti visive? Sarebbe sbagliato, in altri termini, sostenere che Broodthaers resti un poeta che allargando la sua attività in senso spazio-visivo finisce per essere inquadrato nel sistema delle arti visive con i cui meccanismi peraltro ama giocare, anticipandoli? Ecco perché una ricerca ulteriore da compiere potrebbe consistere in una più ampia messa a fuoco della relazione tra il Broodthaers «poeta» e il Broodthaers «artista», senza dimenticare il nodo delle motivazioni per le quali il secondo – circostanza che non sfugge alla Carbone – ottiene maggiore fortuna del primo. Una traccia che la nostra autrice potrebbe tranquillamente prendere in considerazione in un futuro prossimo.
La continuità tra attività poetica ed artistico-visiva trova peraltro conforto in quella che è la prima opera di Broodthaers ascrivibile al secondo periodo, Pense-bête (1964), letterale arresto della sua produzione propriamente poetica in quanto costituita dalle ultime cinquanta copie invendute della sua omonima raccolta di poesie, inconsultabili a causa del gesso colato. È certo una cesura col passato, ma una cesura che pure ingloba quel passato permettendo già di intravedere il nuovo corso, trasformandosi le copie del libro, veicolo di un’opera immateriale e riproducibile, in un’opera materiale e irriproducibile. Inoltre «dietro di lui scorre una lunga lista di personaggi che avevano già abdicato alla scrittura»: da Rimbaud «ai numerosi anti-eroi inoperosi di cui è piena la letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento: Titiro delle Paludi di Gide, L’uomo senza qualità di Musil, Monsieur Teste di Paul Valery o Lord Chandos di Hofmannsthal». In particolare però l’attenzione dell’autrice ricade sul Bartleby di Melville, inteso come capostipite degli «scrittori del no».
La dimensione ibrida di opere come Pense-bête, ma anche come i Poèmes Industriales, «una serie di circa trenta placche di plastica […] denotate da un testo stereotipato» e «In combinazione con il Musée», è descritta da Benjamin Buchloh – uno dei maggiori studiosi del lavoro di Broodthaers, ma personaggio chiave anche per lo sviluppo della nozione di critica istituzionale – attraverso l’aggettivo «insincero», inteso come «scappatoia per uscire dalla dialettica tra «oggetto esemplare», frutto della produzione di merci, e «oggetto straordinario» (artistico) che resiste all’assimilazione a questo regno».
L’insincerità broodthaersiana si intreccia con il pensiero di numerosi autori del passato recente: dalle considerazioni sulle Esposizioni Universali di Baudelaire o Marx al Tocqueville critico dello spirito con il quale gli americani coltivano l’arte riletto attraverso Gombrich. Baudelaire, scrive la Carbone, intuisce «l’unica possibilità per l’arte di sopravvivere alla civiltà capitalista: l’oggetto straordinario non doveva contrapporsi all’oggetto esemplare, ma assumere in sé le caratteristiche dell’oggetto merce, autonegando la sua componente tradizionalmente artistica di opera unica e originale». Intuizioni del genere sono alla base del «progetto della vita di Broodthaers, ovvero il Musée d’Art Moderne-Départemente des Aigles», quel «museo fittizio che per quattro anni, dal 1968 al 1972, funziona come vera e propria istituzione di cui egli stesso si autoproclama direttore». Lungo questo quadriennio ed in luoghi sempre differenti, l’artista belga propone nuove sezioni dello pseudo-museo, costantemente accompagnate da scritti teorici. Operazioni come il tentativo di neutralizzazione del simbolo dell’aquila, emblema dell’aura imperiosa del museo e dell’arte con l’iniziale maiuscola, lo inducono a parlare di una riconduzione al grado zero che lo ancora inevitabilmente alle riflessioni non troppo precedenti sul barhesiano grado zero della scrittura. Chiara oltre che esplicitamente rivendicata è la connessione con il Foucault che solo pochissimi anni prima rilegge La trahison des images del connazionale René Magritte, ove «per la prima volta la pittura accoglie l’elemento linguistico nella sua rappresentazione». Nessun altro riferimento è tuttavia più pertinente di quello a Marcel Duchamp, in quanto ideatore del ready-made come momento in cui l’elezione diventa più importante della fabbricazione, ma soprattutto, in rapporto a Broodthaers, per il valore che in essi «il testuale acquista nell’ambito del visuale sia come elemento aggiuntivo (nei titoli) sia come elemento che vorrebbe procedere ad una nuova significazione dell’oggetto».
Chiusa l’esperienza del museo fittizio, «Broodthaers entra nel suo période Décor», parola da intendersi in contrapposizione innanzi tutto con espressioni come installazione o site specific, sulla scorta – tra l’altro – delle teorizzazioni di Rosalind Krauss. Con décor s’intende «un farsi esperienza del reale» che possiede una lunga storia, «un secolo di scultura «spazzializzata» che, dialogando e negoziando incessantemente i suoi margini, si scontra, si confonde e si immerge nell’ambiente che l’accoglie» – da Medardo Rosso a Umberto Boccioni, da El Lissitzky a Carl Andre, da Dan Fravin a Yves Klein e Piero Manzoni. In Francia, peraltro, il termine «ha acquisito una valenza diversa rispetto al significato che gli viene attribuito dalla semplice traduzione italiana: decoro». Esso «intreccia la sua origine con il più diffuso e controverso decorazione»; si colloca «fin dal suo nascere su una via binaria, estendendosi dalla sfera dell’etica a quella dell’ornato, per poi comprendere nella seconda metà del Novecento questioni che riguardano lo spazio e la società nella loro reciproca relazione. In questa direzione vanno le tre versioni di Un Jardin d’Hivier, ove distanza esotica e prossimità quotidiana si compenetrano ambiguamente, o il ciclo di mostre che vanno dalla retrospettiva del Palais des Beaux-Art di Bruxelles, Catalogus/Catalogue, a L’Angélus de Daumier del CNAC, Hôtel de Rotschild di Parigi.
Le istanze del décor trovano il loro sbocco più compiuto – preferisco non parlare del loro compimento – nella salle, «vero e proprio dispositivo testuale, una macchina retorica produttiva di senso». A questo punto la Carbone conduce al massimo grado il suo metodo fondato sull’allargamento-contestualizzazione. Accompagnandoci lungo i sentieri popolati dal discorso suprematista di Malevič, dagli allestimenti intesi come trascendimento di una mera sommatoria di oggetti nell’ambito del surrealismo di Breton, dal decostruttivismo di Derrida ove il gioco segnico-vocale différance/différence rimanda a quella spesso a stento percettibile zona mediana tra la voce e la scrittura, dal Baudrillard che sulla scorta della semiologia barthesiana assume gli oggetti come altrettanti segni narranti le mitologie del consumo, dalla poetica dell’inoperosità – o dell’ombra – dipanata attraverso il discorso di Agamben che si serve di celebri personaggi della letteratura degli ultimi due secoli – Barteleby, ma anche la Josefine di Kafka -, l’autrice inquadra pazientemente l’effettività della salle di Broodthaers, «ambienti circoscritti in cui l’atmosfera, intesa come l’insieme di elementi reali e irreali, visibili e invisibili, corporei e incorporei, diventa un medium di trasmissione e al contempo un air de jeu con le sue regole e i suoi giocatori, in cui l’attenzione periferica e la distrazione divengono vere e proprie categorie epistemologiche». La salle lancia la sfida alla società dei consumi sul suo stesso piano, rifiutando di contro la dimensione utopica – il pensiero qui va a Beuys, ma anche a tutta una linea delle avanguardie storiche che arriva almeno fino ai lettristi e ai situazionisti – ed il white cube – e qui viene in mente la neutralità dello spazio espositivo che la critica istituzionale si è incaricata di mettere in crisi.
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