L’arte come azione politica
Una retrospettiva di Nanni Balestrini a New York
In occasione della prima mostra retrospettiva negli Stati Uniti dedicata a Nanni Balestrini dal titolo Art as Political Action, One Thousand and One Voices, proponiamo di seguito l’intervista al curatore Marco Scotini. La mostra ha inaugurato lo scorso 22 febbraio presso il Center for Italian Modern Art (CIMA) di New York e sarà visitabile fino al 22 giugno.
Alessia Riva: È passato quasi un anno da un’altra importante mostra su Balestrini, Altre e infinite voci, che hai curato a Venezia presso la Galleria Michela Rizzo e da cui emergeva chiaramente la forte carica politico/eversiva dei suoi collage. L’esposizione si focalizzava sul decennio d’esordio di Balestrini e sulla sua relazione con il musicista Luigi Nono. A partire dal comune lavoro fatto sulle voci e con le voci, come suggeriva il titolo. Ho notato tra le due esposizioni dei motivi ricorrenti come, ad esempio, alcune gigantografie a parete e in particolare la fotografia dei Muri della Sorbona di Balestrini, del fatidico ‘68. Qual è il legame tra queste due mostre? In quale modo esse sono affini e, nel caso, in quale misura invece si discostano?
Marco Scotini: Si potrebbe dire che la mostra al CIMA di New York è una prosecuzione e uno sviluppo di quella veneziana. Al centro di quest’ultima esposizione c’erano gli anni Sessanta, mentre la nuova cerca di affrontare i primi due decenni dell’attività di Balestrini come artista visivo. In questo senso quello che era un po’ il culmine della mostra veneziana è qui un punto di partenza o, meglio, una sorta di crinale tra il primo e il secondo decennio. Mi riferisco al ’68 e all’opera concepita per «Il teatro delle mostre» presso la galleria La Tartaruga, che tu citi come elemento comune alle due retrospettive. Di fatto entrambe si aprono con quella stessa immagine ma, nel caso del CIMA l’ingresso è a metà del percorso, per cui divide lo spazio dedicato agli anni Sessanta da quello incentrato sui Settanta. L’immaginazione prende il potere, È proibito proibire, La più bella scultura è il pavé, Lasciamo la paura del rosso agli animali con le corna!, sono tutti slogan del maggio francese che Balestrini, con gessetti colorati, trascrive in quell’occasione sui muri della galleria romana. Anche se in questo caso viene meno quel carattere collagistico (con il suo tagliare e incollare) che aveva contrassegnato i suoi Cronogrammi degli anni Sessanta, ciò che emerge in questa azione (visto che di azione si tratta) è il carattere interventista in tempo reale, quello che sarà tipico delle iniziative editoriali di Balestrini dalla fine dei Sessanta e per tutti gli anni Settanta, come le riviste politiche «Potere Operaio», «Compagni» «Virgola», «Rosso», per esempio. Tutte pubblicazioni di cui si dà testimonianza in mostra.
A.R.: La mostra veneziana aveva già messo in relazione due figure importanti del Novecento italiano come Balestrini e il compositore Luigi Nono. In Nanni Balestrini: Art as Political Action – One Thousand and One Voices si aggiunge un artista altrettanto significativo come il polistrumentista e sperimentatore vocale Demetrio Stratos. Qual è il fil rouge che li lega?
M.S.: Se la relazione con Luigi Nono (riproposta anche al CIMA) ci è servita per mettere a fuoco alcuni aspetti dell’attività di Balestrini negli anni Sessanta (la fabbrica, l’elettronica, ecc.) è Demetrio Stratos a fare da fil rouge per quanto riguarda gli anni Settanta. Il fatto di avere scelto queste due figure del campo della musica sperimentale è dovuto al tentativo di riportare l’attenzione sul doppio livello acustico e visivo della parola balestriniana o, meglio, sulla sua «indiscernibilità fonottica», come l’ha definita Paolo Fabbri. Quando, al contrario, la maggiore concentrazione è sempre stata dedicata al carattere tipografico della scrittura nelle sue opere plastiche. A parte la grande differenza che separa tra loro due figure come Nono e Stratos, il passaggio dall’uno all’altro è anche sintomatico del transito di Balestrini verso il movimento extraparlamentare dell’operaismo e dell’autonomia di cui la band degli Area e Stratos avrebbero rappresentato la voce, a detta dell’artista stesso. Se, comunque, pensiamo alla «tecnica di scissione in fonemi» delle parole nella musica di Nono e alle diplofonie (come emissione simultanea di un doppio suono dalla laringe) in Stratos, comprendiamo la stretta coerenza tra un’istanza e l’altra. Già il titolo della mostra a New York, One Thousand and One Voices, è significativo al riguardo. Non a caso esso deriva dalla contrazione tra il verso «Altre e infinite voci» – tratto dal testo Contrappunto dialettico alla mente che Balestrini scrive per Nono nel 1968 ‒ e il titolo di una pièce per danza e voce, Le milleuna, che l’artista progetta per Stratos nel 1978. Il fatto che il topos della voce sia al centro di entrambe le mostre non significa ridurre la valutazione della componente grafica dei collage di Balestrini. Al contrario serve per sottolineare quella contiguità (sempre spezzata) di font grafici di varie dimensioni e spessori, così come se si trattasse di una spazializzazione delle voci e di una loro continua variazione di intensità: forte, piano, mezzo forte, pianissimo, ecc. La voce in oggetto è sempre polifonica, plurale, corale, ad emissione multiforme: raccoglie tutte le voci che Balestrini ha ritagliato e incollato in oltre sessanta anni di ininterrotta attività. Questo carattere corrisponde a ciò che è stato definito da Deleuze e Guattari come «concatenazione collettiva d’enunciazione» e che è stata al centro delle ricerche post ’68: non la voce di un soggetto individuale ma un soggetto a mille e una voci, un soggetto rizomatico, moltitudinario.
A.R.: Forse alla lista delle nuove integrazioni in mostra dovremmo aggiungere ancora un altro artista che è Carlo Carrà che troviamo presente in Nanni Balestrini: One Thousand and One Voices…
M.S.: Il fatto che si sia cercato di presentare una genealogia del metodo balestriniano attraverso il ricorso ai futuristi e ai testi paroliberi di Carlo Carrà (come lo straordinario collage Rapporto di un nottambulo milanese del 1914 ma anche Guerrapittura e altro) non deve trarre in inganno. Non significa riconsegnare le opere di Balestrini nell’alveo di uno storicismo che lui stesso non avrebbe di certo amato, ma sottolinearne piuttosto le biforcazioni, le differenze implicite, l’alterità. Anche se è vero che spesso Balestrini ha rimandato al movimento futurista per l’uso delle parole in libertà. Un altro esempio in mostra è anche un grande collage in otto parti che si ispira a una versione di «Futurismo rivisitato» di Mario Schifano, grande amico di Balestrini degli anni Sessanta, alle cui opere Nanni ha dedicato una serie di poesie.
A.R.: La retrospettiva presenta una selezione di oltre settanta opere dell’artista e una vasta gamma di materiale documentario. Tra queste, nonostante conosca il lavoro di Balestrini, alcune mi sono sembrate una novità. Sono presenti in mostra delle opere che sono state esposte con meno frequenza, oppure che sono state esibite per la prima volta? Penso al ciclo di nove collage dedicati a Potere Operaio.
M.S.: Ci sono un nucleo di collage politici che Balestrini, prima di lasciare l’Italia per la Francia, consegna ad un amico che glieli restituirà al suo rientro. Di fatto queste serie finora non sono state mai esposte o rese note, anche per il loro diretto riferimento al conflitto sociale e alle lotte operaie di quegli anni. La possibile esposizione avrebbe ulteriormente aggravato la denuncia Calogero sotto la quale è incorso lo stesso Balestrini. I nove pezzi presentati al pubblico nella mostra al CIMA di New York, a cui ti riferisci, sono visibili per la prima volta ed è stata una felice riscoperta recente. Sicuramente la grande tavola bianca (e molto nota) intitolata Potere Operaio del 1972 è una delle poche cose che conoscevamo rispetto al materiale verbale tratto da testi militanti o che risultavano da ritagli dell’organo dell’operaismo. Questa tavola, a sua volta, derivava da un collage su carta, di dimensioni ridotte, del 1969, anno di fondazione del settimanale politico. Ma rispetto ai suoi modi consueti di assemblare le fonti di più disparata provenienza, questo lavoro di Balestrini su Potere Operaio dovrebbe richiedere un differente criterio di analisi. Non c’è la giustapposizione di fonti discordanti che sta sotto La violenza illustrata ‒ per esempio ‒ o tutti gli altri suoi volumi o collage. Qui restiamo colpiti dalla costante partitura delle colonne di giornale, dagli addensamenti testuali e sovrapposti, dalla bicromia nero/rosso. Queste serie dedicate a Potere Operaio sono straordinarie per densità semantica, carica rivoluzionaria e formalismo estremo. Qui è come se avesse voluto proporci un Vogliamo tutto illustrato: corale, collettivo, sempre sul punto di dichiarare guerra. Sembra di essere tornati alla vertigine estetico-politica dell’Ottobre dei Soviet. Comunque dovremo cominciare a studiarle queste tavole appena ritrovate e ci sarà tempo.
A.R.: Per Luigi Nono fare musica significava «intervenire nella vita contemporanea, nella lotta contemporanea di classe, in modo da produrre qualcosa per un modo di provocazione e discussione». Visitando la mostra è inevitabile scorgere delle assonanze con la contemporaneità. Mi riferisco, ad esempio, ai Muri della Sorbona di Parigi (nei quali Balestrini ricopre le pareti della Galleria La Tartaruga con gli slogan della contestazione francese) e le recenti proteste francesi riguardanti la riforma delle pensioni e la rivolta delle banlieues. Oppure il Tape Mark I di Balestrini, uno dei primi esempi di arte generata dal computer, e la sua vicinanza ai dibattiti odierni sull’intelligenza artificiale. O ancora, la scritta «il rifiuto è politico» che si legge su una delle nove tavole del Potere Operaio presenti in mostra. Quali sono, quindi, gli appelli che quelle mille e una voci vogliono trasmettere al pubblico contemporaneo? In che modo l’opera di Balestrini continua a essere rilevante e significativa nell’odierno panorama artistico e sociale?
M.S.: Certo Balestrini ha già segnato generazioni di giovani e intellettuali ma non finisce mai di essere un modello anche per le generazioni a venire. Fin dal 1960, e dall’incontro con l’IBM, Balestrini si è presentato come il pioniere della rivoluzione digitale, di una scrittura elettronica, ex-machina: oggi uno strumento quotidiano e ovvio per tutti. Se pensiamo però all’uso eversivo e profanatore che Balestrini ha fatto della combinatorietà, da Tape Mark I a Tristanoil, apprendiamo immeditamente cosa denota la proposizione «sovvertire gli strumenti del padrone». Ma dietro questa sua attitudine se ne nasconde un’altra: quella dello «sventratore della storia», per citare un suo poemetto del 1963. Dove rompere la linearità del tempo significa rendere un altro mondo possibile, aprire all’azione rivoluzionaria.
A.R.: In chiusura, si tratta più di una riflessione che di una domanda diretta. Trovo che nello scenario odierno, sempre più caratterizzato da un appiattimento di significati, riportare al centro la parola sia un atto dirompente. Per Balestrini l’ibridazione, ottenuta attraverso il taglio e la successiva ricombinazione di parole e immagini, era un modo per rompere l’unità della rappresentazione, consentendo ai confini di diventare permeabili e all’immaginario di essere ripopolato da una coscienza nuova. Una mostra come questa, che celebra la pratica poetica e militante di Nanni Balestrini, rappresenta un rifiuto del pensiero lineare ed è, a sua volta, un’azione politica…
M.S.: Forse c’è una parola balestriniana che, più di ogni altra, dovrebbe essere riportata al centro del nostro dibattito e radicalmente interrogata. Una parola che non denota tanto una quantità ma, piuttosto, una possibilità. Questa parola è: tutto.
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