Una mostra alla Galleria Nazionale di Roma (13 dicembre 2018 / 23 gennaio 2019) racconta la fine e l’inizio delle forme di mondanità. Tra apocalissi culturali e metafisiche della mescolanza si fa >…
Le opportunità della barbarie
Un nuovo patto per l'umano
Il testo che segue è stato discusso e presentato dall’autrice nell’ambito della tavola rotonda Ospitalità e barbarismi: tecniche e risorse della vita tra le rovine (ilmondoinfine: vivere tra le rovine, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma 13 dicembre 2018 / 23 gennaio 2019).
Sono molti, profondi e bellissimi gli argomenti contro la criminalizzazione dell’altro che queste politiche di chiusure dei confini postulano. Se ne trovano in tutti i campi del sapere, ogni volta che la conoscenza scopre che il libro del mondo non può che essere scritto se non con le parole dell’eguaglianza. Possiamo citarne alcuni, lo faremo, questa stessa mostra, ilmondoinfine: vivere tra le rovine, ad esempio contiene in sé l’invito a una rivoluzione dello sguardo che con Fanon, con Said rappresenta il bottino prezioso del filone di quelli che si sono chiamati i postcolonial studies.
Però, prima di parlare di questi argomenti, prima di togliere da loro la polvere asfissiante prodotta per paradosso più dal presente che dal passato, bisogna dire semplicemente che i 120 morti in mare 19 gennaio 2019, le centinaia se non migliaia di naufragi, gli ostacoli che le iniziative di soccorso civile hanno sempre incontrato da parte dei governi, le chiusure dei porti, gli sgomberi dei luoghi di accoglienza (il Baobab è la cicatrice che sanguina di continua qui a Roma), gli accordi con la Libia per barattare l’invisibilità delle migrazioni con la liceità delle torture, gli accordi con la Turchia per assicurarci che chi fosse rimasto vivo alla distruzione di Aleppo non lo rimanesse dopo un viaggio verso la vita, ecco prima di tutto bisogna dire che questo non è accettabile. Semplicemente perché la vita ha dignità.
Di fronte a questi eventi ogni cuore, ogni intelligenza, ogni relazione, ogni azione, ogni pensiero, ogni giorno, ogni spazio, ogni attraversamento, ogni stare deve essere orientato verso la calamita della salvaguardia della dignità della vita.
C’è una opportunità nella barbarie di questo momento. Tale opportunità consiste nell’avere a disposizione inoppugnabili argomenti per fare del discorso complessivo sulle migrazioni un discorso manicheo: o si è per la dignità della vita o si è per l’estinzione dei diritti fondamentali dell’uomo
C’è una opportunità nella barbarie di questo momento. Tale opportunità consiste nell’avere a disposizione inoppugnabili argomenti per fare del discorso complessivo sulle migrazioni un discorso manicheo: o si è per la dignità della vita o si è per l’estinzione dei diritti fondamentali dell’uomo. Le logiche di contenimento, i miserabili argomenti economici, le feroci strategie socialdemocratiche (si ricordi che la politica dei centri di identificazione ed espulsione è cominciata con la legge «Turco-Napolitano», feroci forse di più perché contenevano la liquidazione di una solida tradizione internazionalista), ebbene tutte queste strategie sono fallite. E il loro fallimento l’hanno pagato i corpi innumerabili che giacciono sul fondo dei mari. Siamo morti anche noi.
Il libro di Mezzadra-Neilson, il cui titolo preferisco citare nella sua versione originale Border as method, spiega, con una poderosa messa in campo di percorsi, come, partendo da una citazione dei Grundrisse, mentre da un lato la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente con il concetto stesso di capitale, in modo che ogni limite che si presenti sia rappresentato e vissuto come un ostacolo da superare, dall’altro i confini, al contempo, esistono e si moltiplicano e si rafforzano, travolgendo il concetto di stato nazione, in relazione ai flussi di migrazione, fungendo da «nuova forma di configurazione del mondo»: «la cittadinanza diventa una macchina delle differenze». Si tratta di quel corto circuito tra confine, legittimità e sovranità, sviluppato dagli autori nei successivi lavori, che impedisce di considerare il confine come un mero dato geografico. È, piuttosto, ora il confine lo spazio del politico, lo spazio dove misurare soggettivazioni trasversali, capaci nella loro forza rivendicativa di farne saltare il senso. Perché, secondo la suggestione di Lefebvre, il territorio è rilevante per i rapporti sociali che restituisce, che racconta. E che, dunque, siamo chiamati a raccontare.
Toccare queste verità è ora non una operazione culturale, ma sentimentale. Politica. Tra le tracce ispiratrici della mostra che ospita il dibattito sulle migrazioni, il libro del filosofo Emanuele Coccia, La vita delle piante, lontano dall’essere una speculazione sulla vita contemplativa, è un manifesto dell’immanenza. Allunga lo sguardo dall’uomo all’ambiente, mostrandoci come l’interdipendenza non sia il frutto di una opzione intellettuale, di una scelta di mentalità. Sia la banale osservazione della nostra immersione nel mondo. Immersione che è data a prescindere dalla nostra volontà. Lo scambio del mondo è l’essenza stessa della vita. Si può chiamare respiro, fotosintesi. Si può sentire nella spinta verso l’alto dei poeti e dei fusti, in quella verso il basso, delle radici e dei rivoluzionari. Non è una opzione. È una condizione.
Non c’è altro modo di vivere se non vivere
L’infelicità diffusa viene dall’esserci spinti troppo oltre nella direzione contraria a questa condizione. Di aver smesso di individuare nelle vite di ciascuno il fulcro di responsabilità di una contribuzione che è il solo possibile uso della vita. Non c’è altro modo di vivere se non vivere. Le politiche di chiusure dei porti conducono alla morte. Dei corpi, delle menti, dei cuori. Del futuro. La battaglia che siamo chiamati a combattere è una battaglia contro la morte. Per vivere da viventi. Le navi nel mediterraneo, la nostra Mediterranea, le navi dei pescatori, quelle delle ong, le navi che salvano salvano per prima noi, che siamo al di qua del confine. Prigionieri come gli uomini che tentano di arrivare sulle nostre coste. Nel carotaggio di senso che la mostra ci chiede di fare allora il rovesciamento della narrazione comune, mainstream, sembra una operazione facile, agevolata dalla messa in campo di una indagine collettiva: sono quei corpi che si muovono verso di noi che tentano di salvarci. Noi dobbiamo solo accettare il loro invito. Salvarci salvandoli. È questo il patto dell’uomo.
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