Verso un’ecologia dei fantasmi

L'ontologia del moderno e il disincanto

tosatti
Gian Maria Tosatti, La mia parte nella Seconda guerra mondiale, 2014, GAM - Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino.

Il testo che segue è stato discusso e presentato dall’autrice nell’ambito della tavola rotonda Reincantare il mondo: verso un’ecologia dei fantasmi (ilmondoinfine: vivere tra le rovine, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma 13 dicembre 2018 / 23 gennaio 2019). 

1. Il ragionamento che proverò a sviluppare ha due punti di partenza.

Il primo è interno al nostro mondo moderno ed egemone (quello nato dalla coalescenza di colonialismo, capitalismo e scienza) e coincide con la constatazione del suo disastro. Disastro esterno, che si manifesta come catastrofe climatica, ecologica ed energetica, ma anche disastro interno: la sofferenza mentale non è mai stata così diffusa presso tutte le fasce d’età e il consumo di psicofarmaci è pratica di sopravvivenza per oltre la metà di noi – e certo per tutti quelli che, percependo correttamente il mondo, si deprimono.

Il secondo punto di partenza è esterno, mi viene dal transito per l’antropologia e quindi per i «mondi degli altri»: se vogliamo uscire dall’impostazione colonialista che caratterizza la modernità, dobbiamo cominciare a prendere gli altri sul serio. Il che significa accettare l’autodeterminazione ontologica dei collettivi e disporsi ad ascoltarli anche quando parlano di entità che, nel nostro mondo, non esistono.

Entrambi questi punti parlano, a modo loro, di rivoluzione: quella necessaria, e ormai urgentissima, per far fronte al disastro in modo intelligente; e quella indispensabile per toglierci, una volta per tutte, dalla forma mentis che quel disastro ha causato. Questa forma mentis è ciò che ora dobbiamo osservare.

In questa forma di totalitarismo a bassa intensità siamo continuamene presi in quanto individui moderni: soggetti costruiti per essere chiusi, autocentrati, egoisti, competitivi e produttivi; per pensarci come l’alfa e l’omega del senso, anziché come nodi di relazioni, di attaccamenti, di co-dipendenze con altri e altro 

2. Il progetto fondamentale della modernità è quello di riduzione a uno dei regimi ontologici, epistemologici, antropologici, economici, immaginari ecc.: niente deve resistere che sia strutturalmente differente dalla modernità, perché solo la modernità è portatrice di progresso e il progresso moderno è l’unica storia desiderabile. Tutto il resto è ipso facto squalificato con nomi infamanti: che si tratti di conoscenze (tutto ciò che non è scienza è superstizione), di mondi umani (tutto ciò che non è democrazia statale è barbarie, miseria ogni forma non capitalista di sussistenza), di relazioni (è follia, o romanticheria, ogni sentirsi in relazione profonda con altro e con altri), di pratiche (la sola azione efficace sul mondo è quella tecnica), di posture esistenziali (sono devianti, o folli, tutti coloro che esplorano stati altri dalla razionalità utilitaria – e fra questi i bambini, i mistici, i morenti, i dormienti). In questa forma di totalitarismo a bassa intensità siamo continuamene presi in quanto individui moderni: soggetti costruiti per essere chiusi, autocentrati, egoisti, competitivi e produttivi.

3. In quest’impresa di uniformazione l’ingiunzione al disincanto gioca un ruolo chiave. Disincantare significa negare intenzionalità agli enti non umani. Nella nascente modernità alcuni enti dovranno, semplicemente, smettere di esistere: spiriti dei boschi, antenati inquieti, numi dei luoghi, eserciti di anime morte. Altri potranno continuare a esistere, ma in forma muta e instupidita: alberi, montagne, fiumi, boschi, rive. Gli umani dovranno parlare solo tra loro, riconoscere come soggetti solo altri individui umani: tutto il resto diventa oggetto, privo di anima, privo d’intenzione.

A tal punto il disincanto è funzionale alla modernità che qualsiasi rimessa in discussione è accolta come un vero e proprio scandalo, irrimediabile scivolone nella misticheria e nell’oscurantismo: silenzio, sorrisi d’imbarazzo, poi la perdita della reputazione. Qualche coraggioso, nei secoli del silenzio del mondo, danza sul confine: fra gli altri i romantici, Freud, i surrealisti, Benjamin, de Martino.

Fantasmagorie, aura, immagini di sogno, disponibilità di sostanze dopanti ecc. La modernità è l’incanto che esautora tutti gli altri incanti 

4. Nel disincanto, però, ci sono elementi altamente sospetti. Per cominciare, l’oggettivazione dei non umani è indispensabile al progetto di dominio sulla natura. Se gli enti naturali fossero ancora dotati d’intenzione sarebbe ben più difficile sfruttarli, predarli o distruggerli con l’impassibile sistematicità che abbiamo finora applicato. In secondo luogo, il disincanto che strappa gli umani dalla trama relazionale del mondo li mette in grado di agire il meccanismo base del plusvalore (la messa al lavoro e l’accumulo, ovvero la finalizzazione della vita alla produzione e il furto sistematico delle risorse altrui). Per competere, accaparrare e sfruttare servono soggetti resi insensibili, slegati dagli altri, privi di attaccamenti sensati.

In terzo luogo è noto, da Marx in avanti, che la modernità capitalista mette un bando sull’incanto solo per meglio sfruttarne, in segreto, la potenza: fantasmagorie, aura, immagini di sogno, disponibilità di sostanze dopanti ecc. La modernità è l’incanto che esautora tutti gli altri incanti.

Infine, è curioso che il tabù dell’incanto entri in azione proprio quando il processo storico della modernità comincia a produrre spettri e incubi su scala industriale. Il mondo si popola di fantasmi e nessuno ne può più parlare. Basti pensare all’immiserimento della vita quotidiana nella transizione fra comunità contadine e proletariato; alle streghe bruciate sui roghi ai due lati dell’oceano; alla tratta atlantica; ai regimi di sterminio a bassa intensità nelle miniere, nelle selve amazzoniche, nell’Africa Centrale; all’istituzionalizzazione dei dispositivi di tortura; alla necropolitica; ai corpi migranti dati in pasto ai pesci del Mediterraneo.

5. Alla moderna utopia del progresso siamo stati iniziati con una dose immane di violenza: la violenza coloniale, quella delle enclosures, quella dell’appropriazione primitiva, quella della trasformazione dei corpi di donne e uomini in carne da cannone e carne da ricreazione, quella del disciplinamento e dell’esproprio, quella dell’unica conoscenza vera. In nome di questa utopia abbiamo dapprima sopportato, e poi imposto, qualsiasi costo. E abbiamo accettato di vivere nella rimozione, di non guardare mai alla violenza che ha fondato e continua a fondare questo sistema.

Già nella seconda metà dell’Ottocento la descrizione marxiana delle enclosures arriva come un pugno allo stomaco alle anime belle che avevano creduto alle favole edificanti degli economisti. Ma c’è di peggio. Considerando il solo fenomeno coloniale, il totale dei morti, calcolato per difetto, è di 200 milioni in quattro secoli: una cifra dello stesso ordine di grandezza di quella prodotta dai campi di sterminio nazisti, ma prolungata per quattrocento anni nella più crassa indifferenza dei cittadini d’occidente. I morti sulla via del progresso sono meno morti degli altri: è qui che, ancor oggi, il colonialismo ci possiede e ci agisce.

6. Nella nostra tradizione i fantasmi sono i morti senza pace: quelli che non hanno ricevuto gli onori che gli spettavano, che hanno lasciato fra i vivi questioni irrisolte, che hanno avuto in sorte una morte precoce, violenta, infamante o nell’abbandono. Appesantiti dalla loro sorte, i fantasmi non riescono a diventare antenati. Secondo Avery Gordon, il fantasma è la traccia che la violenza lascia nell’immaginario, ovvero nella zona in penombra che sta al di sotto di quel che ci è noto, di quel che è ben illuminato e parlabile: «Per come lo intendo, il fantasma non è l’invisibile o un qualche altro eccesso ineffabile. Tutta l’essenza – se si può usare questa parola – di un fantasma sta nel fatto che ha una presenza reale e richiede ciò che gli è dovuto: la tua attenzione. Lo haunting, con l’apparizione di spettri e fantasmi, è una dei modi (…) in cui veniamo a sapere che ciò che è stato nascosto è ancora ben vivo e presente, e interferisce appunto con le forme, sempre incomplete, di contenimento e repressione a cui incessantemente siamo sottoposti»1.

Ci sono piazze e strade del mondo cariche di un’inquietudine che non si cancella con l’arredo urbano; case che fanno pensare a cimiteri; architetture che respingono con una forza quasi misurabile. E poi ci sono storie che risuonano a lungo, traumi che discendono le generazioni, conoscenze che si sarebbe preferito non avere.

L’incontro con il fantasma è sempre terrorizzante: la violenza rimossa, e custodita in ciò che non sappiamo di sapere, torna alla coscienza – e fa male. Esso è tuttavia indispensabile per uscire dalla scissione collettiva e osservare la quantità di violenza, distruzione, sterminio, asservimento e miseria da sempre necessari al funzionamento del plusvalore. Parlare con il fantasma significa risentire concretamente quella violenza, provare a vedere se c’è qualcosa di non ancora fatto e che si può tentare; restare fedeli alla promessa di felicità che, allora, non è stato possibile mantenere.

I posti dove si è aperta, per noi-con-altri, una presenza più piena e felice si caricano di un’aura che è l’esatto opposto del fantasma: quei posti e quegli echi sono fin da subito gli antenati di ciò che siamo, l’infanzia felice che è ancora possibile farsi e da cui, a quel punto, proverremo 

7. Oggi la fortezza-occidente non tiene più: le mura si aprono, i fantasmi rinchiusi nelle sue segrete fuoriescono e chiedono il dovuto. Gli invisibili degli altri cominciano a far pensare, così come le loro forme di umanità, di mondo e di conoscenza: non più modi minori o superati, ma modi altri che dicono, in controluce, del modo nostro. Serviranno molta intelligenza e molta sensibilità in questa negoziazione – e probabilmente, ormai, anche molta fortuna. L’unica via percorribile è quella della diplomazia fra mondi umani (o anche: di un’ecologia dei mondi) e richiede la capacità di entrare in relazione, prima ancora che con gli spiriti e le entità non-umane degli altri, con i fantasmi del nostro stesso passato, con la quantità di violenza che abbiamo subito e fatto subire, con la scotomizzazione che continuamente imponiamo a noi stessi e che poi teniamo a bada a suon di molecole.

Che tutti i morti – compresi quelli che ci stanno antipatici – riposino in pace è condizione di possibilità per un divenire collettivo meno stupido (e meno fascista) di quello che abbiamo inseguito finora. Non il sol dell’avvenire, con le sue collusioni con il progetto moderno di uniformazione, ma un mondo infine vivibile.

(Resta qualcosa da aggiungere in chiusura. Non è solo la violenza del dominio a produrre tracce durevoli nelle cose. Qualsiasi forma di intensità collettiva lascia segni: intensità di lotta, di affetti, di conoscenza, di amore. I posti dove si è aperta, per noi-con-altri, una presenza più piena e felice si caricano di un’aura che è l’esatto opposto del fantasma: quei posti e quegli echi sono fin da subito gli antenati di ciò che siamo, l’infanzia felice che è ancora possibile farsi e da cui, a quel punto, proverremo.)

Note

Note
1Gordon A., 1997. Ghostly matters. Haunting and the sociological imagination, University of Minnesota Press, Minneapolis & London, p. xvi.

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