La condanna di avere un corpo

Il tempo degli hotspot tra Foucault e Kafka

Migrants Stream Into Hungary As Fence Rises On Serbian Border
14 settembre 2015, tra Serbia e Ungheria, foto di Geovien So.

Il nostro corpo non è innocente. Una delle peculiarità del potere moderno è stata quella di farsi carico dei corpi dei cittadini, di plasmarli e modellarli a proprio piacimento, dunque sarà necessario accordare maggiore attenzione all’esame della categoria della corporeità. Sarà inoltre necessaria una riflessione intorno lo spazio in cui questi corpi si trovano non solo ad agire e relazionarsi, ma anche a essere reclusi e puniti qualora la loro esistenza o condotta minacci le fondamenta dell’autorità cui sono sottomessi.

Non è un caso, allora, che un pensatore come Michel Foucault, cui spetta il merito di avere per la prima volta utilizzato il termine di biopolitica, abbia dedicato gran parte della sua carriera all’analisi dei dispositivi spaziali in cui il potere moderno e contemporaneo si esercita: dalle prigioni, passando per le scuole, fino ad arrivare alla clinica. È noto, del resto come Giorgio Agamben abbia a sua volta strutturato parte delle proprie teorie intorno alla nozione di campo, strumento irrinunciabile alla comprensione della particolare visione della sovranità avanzata dal filosofo italiano. Parallelamente, è all’utilizzo di categorie spaziali che si rivolgono Negri e Hardt quando, all’inizio di Impero, si ritrovano a dare una definizione dell’ordine globale contemporaneo, sottolineando come questo si avvalga di «una nozione del diritto che si afferma nella costruzione di un nuovo ordine che abbraccia tutto lo spazio della civiltà, un illimitato spazio universale».

L’immagine, ormai stereotipata, del mondo globalizzato è quella di uno spazio in cui gli steccati fra le nazioni, le divisioni imposte dai confini geografici hanno ormai perso la loro tradizionale rigidità, fluidificandosi fino a diventare sempre più permeabili. Simile visione, suffragata dal successo delle compagnie aeree low-cost e dall’espansione globale dell’e-commerce, non corrisponde del tutto alla realtà. Se da un lato, infatti, è possibile acquistare con un semplice clic ogni tipo di prodotto da qualsiasi parte del globo, dall’altra – come tristemente confermato dalle cronache – quando ad attraversare le frontiere si ritrovano a esser la moltitudine di rifugiati dai conflitti africani e mediorientali, la situazione si complica e le barriere tornano a issarsi. Ecco, allora, che il corpo torna a giocare un ruolo cruciale e nell’attribuzione della colpa e nell’amministrazione del castigo. I migranti – reclusi a migliaia nei centri di prima accoglienza italiani, sottoposti a procedure di controllo burocratico coatto, asserragliati in massa nella Giungla di Calais si ritrovano a scontare una pena esistente solo sui loro corpi, in una parola scritta su di un passaporto.

Essi sono sottoposti a una sorveglianza continua di cui il metodo hotspot (approntato dal Consiglio UE nel 2015) è il principale strumento. Tale approccio, servendosi del pretesto della protezione, ha condotto all’identificazione coercitiva di migliaia di siriani, etiopi ed eritrei. Esso ha implicitamente consentito – così come messo in luce recentemente da un controverso report di Amnesty International – alle forze dell’ordine non solo di utilizzare la violenza (numerosi sono le testimonianze di pestaggi, somministrazione di scariche elettriche, umiliazioni fisiche e morali da parte dei migranti) nei confronti di coloro che si rifiutano di fornire le proprie impronte digitali al momento dello sbarco, ma ha anche istituito la possibilità di sottoporre gli stessi a una detenzione prolungata e priva di alcuna regolamentazione.

Il binomio protezione-morte ha fatto sì che Lampedusa e Calais si trasformassero in zone grigie in cui vige uno stato d’eccezione: spetta solo all’Autorità decidere chi resta o meno, differenza che in questo contesto è tragicamente simile a quella che sussiste tra la vita e la morte. Il rapporto ambivalente tra vita e morte, punizione e colpa, protezione e violenza sembra essere connaturato, come più volte evidenziato da Agamben, alla logica topologica stessa del campo: se la storia ci da numerose dimostrazioni concrete di ciò, anche l’arte e la letteratura ci forniscono suggestive metafore dei meccanismi vigenti in simile paradigma a un tempo spaziale e politico.

Particolarmente significativa, fra queste, è Nella Colonia Penale (In der Strafkolonie) di Franz Kafka. Scritto nel 1914 e pubblicato nel 1919, il racconto, pur nella sua brevità, rappresenta uno dei contributi maggiormente significativi all’interno del corpus letterario kafkiano. In poche, dense pagine l’autore sviluppa, infatti, una lucida riflessione intorno alle tematiche portanti di tutta la sua poetica: la colpa, il giudizio, l’autorità. Sorretto da un linguaggio scarno ed efficace, Kafka dà origine a una novella di forte impatto visivo, denudando ed esibendo le contraddizioni intrinseche alla categoria di potere che a un secolo dalla pubblicazione dell’opera continuano ad animare il dibattito filosofico e politico. Nello specifico, è possibile intravedere numerose convergenze fra il testo kafkiano e i concetti elaborati dal paradigma biopolitico, specie in riferimento a pensatori come Michel Foucault o Giorgio Agamben.

Il primo, soprattutto, rappresenta un imprescindibile punto di riferimento per chiunque intenda cimentarsi in un’interpretazione in chiave politica dell’opera dello scrittore ceco. Gli spazi descritti nei romanzi di Kafka rappresentano un commento a un tempo visivo e verbale agli ambienti dell’esercizio della giustizia e della pena – il panopticon su tutti – analizzati dal filosofo francese in saggi come Storia della follia nell’età classica (1961) o Sorvegliare e punire (1975) e da questi considerati espressione tipica della società disciplinare. Ma se ne Il processo è il tribunale a divenire equivalente spaziale di un’autorità che sempre sfugge e mai perdona, nel racconto del 1914 è il corpo l’oggetto di valore cui il potere mira, investendo su esso tutto il carico simbolico di cui è portatore. Nell’universo descritto da Kafka, esso definisce non solo i rapporti che l’individuo singolo intrattiene con il proprio corpo ma anche le relazioni tra questo e i suoi simili, il suo ruolo all’interno di quella società in miniatura che fa da sfondo alla narrazione.

Non ci è dato conoscere i nomi dei protagonisti dal momento che lo scrittore si limita ad appellarli ricorrendo al ruolo svolto nella gerarchia della colonia punitiva. Abbiamo, così, l’Ufficiale, il Condannato, il Soldato e l’Esploratore. Ognuno di loro è contraddistinto da una peculiare attitudine nei confronti dell’amministrazione della giustizia all’interno della colonia: se l’Ufficiale si configura quale il rappresentante di un’idea del comando ormai superata, l’Esploratore – inizialmente spettatore passivo della macchina della giustizia – finisce per dichiararsi quale ambasciatore di un rinnovato kràtos.

Le rispettive inclinazioni sono esplicitate dalle relazioni intrattenute con la Macchina, comparabile a sua volta a una dramatis personae e a un deus ex machina. L’Esploratore – esponente di una nuova élite votata all’esercizio del potere mediante la persuasione, alla manipolazione docile dei corpi – disapprova apertamente le procedure punitive adottate nell’isola. Al polo opposto si colloca l’Ufficiale, carnefice e vittima a un tempo, colui che ha interiorizzato la norma al punto di porre fine alla sua stessa vita nel momento in cui il Potere bolla i suoi metodi – e di conseguenza la sua esistenza – come inutili e anacronistici.

Mute presenze corporee sono il Soldato e il Condannato: si rapportano alla Macchina mediante gesti, espressioni del viso e versi quasi animaleschi. Il Condannato manifesta la sua condizione nelle catene e nei legacci che gli martoriano i polsi e le caviglie ma che, tuttavia, non gli impediscono di correre. La norma sta dentro e non fuori: il condannato, libero di muoversi a suo piacimento, non scappa di fronte alla sua punizione. Egli ha ormai interiorizzato l’autorità cui è sottoposto, o meglio cui è as-soggettato. In più, al Condannato non è dato conoscere la natura della propria colpa: egli potrà scoprirla una volta che l’erpice della Macchina l’avrà incisa sulla sua carne.

Così, il corpo è direttamente immerso in un campo politico; i rapporti di potere operano su di esso una presa immediata; essi lo investono, lo marcano, o addestrano, lo suppliziano, lo costringono a delle attività, lo obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. La logica della Macchina si basa sul ricorso al puro significante: non importa che i segni impressi siano leggibili, ciò che conta è che gli aghi del congegno punitivo percorrano la carne di chi si ritrova a violare la norma. In questo modo, ghirigori e spirali privi di significato, fanno sì che la punizione si trasformi da procedura burocratica in esperienza corporea, marchio indelebile sulla fisicità di colui che ha trasgredito.

Il condannato recherà sul corpo fisico il segno della propria uscita dal corpo sociale, la sua non-conformità e non-assimilabilità all’ordine vigente. Scritta sul corpo è la condizione di esclusione dei condannati della colonia penale. La schizografia operata dalla Macchina è l’emblema visibile del connubio tra sapere, tecnica e potere che sta a fondamento della biopoliticità del potere moderno.

Nella Colonia descritta da Kafka, logica economica e strategica coincidono, legando fra loro l’aspetto tanatologico e quello protettivo della biopolitica. È mediante l’amministrazione burocratica della morte – fisica e sociale – infatti, che gli Ufficiali della prigione stabiliscono i parametri di inclusione ed esclusione di ogni individuo all’interno del micromondo in cui è ambientato il racconto, il suo diritto alla permanenza all’interno dell’isola. Ed è per la stessa ragione che l’Ufficiale protagonista del racconto si sottopone volontariamente al supplizio una volta che le pratiche da lui messe in atto smettono di essere un ingranaggio utile al funzionamento del sistema.

La situazione del Condannato kafkiano è paragonabile a quella vissuta oggi dal migrante: egli porta sulla pelle il marchio della propria diversità ed è a partire da questo che subisce la propria ricollocazione disciplinare, spaziale e burocratica. Sottratta loro ogni voce, i corpi migranti non esistono se non come nuda vita, riammessi nello spazio del potere politico nello stesso momento in cui questo li esclude dall’ordinamento sociale vigente. Per citare Agamben, «lo spazio della nuda vita, situato in origine al margine dell’ ordinamento, viene progressivamente a coincidere con lo spazio politico, e esclusione e inclusione, esterno e interno, bios e zoe, diritto e fatto entrano in una zona di irriducibile indistinzione».

Corpi che ostentano l’indecidibilità dei confini su cui si fonda lo spazio politico e la mutevolezza dei limiti di quanto è considerato giuridicamente accettabile o meno. Così come il condannato kafkiano si ritrova libero una volta ribaltatesi le gerarchie del potere coloniale, allo stesso modo il migrante si ritrova di volta in volta vincolate alle incostanti – e spesso vuote – definizioni di termini quali cittadino, straniero o extracomunitario. Entrambi, inoltre, sono sottomessi alla logica del campo, figura topologica contraddistinta da una sospensione delle normali categorie di spazio e di tempo, di lecito e illecito, «struttura permanente di de-localizzazione politica e dis-locazione giuridica» .

Eterotopia della sorveglianza costante, che sia nella forma di Colonia Penale o di Centro di Prima Accoglienza, il campo si rivela quale destinazione ideale per coloro la cui stessa esistenza minaccia lo smascheramento delle fondamenta fittizie della sovranità moderna: che si tratti dello scardinamento delle relazioni gerarchiche come nel caso del Condannato o dell’esibizione del fragile nesso tra nazionalità e natalità su cui si fonda lo Stato moderno. Nei due casi l’esito è lo stesso, vale a dire la presa in carico del corpo del trasgressore e la sua reclusione in uno spazio altro, separato in cui è sottoposto alla violenza sovrana, strumento a un tempo di protezione e morte, di spoliazione dei diritti individuali e di regolazione delle esistenze. È questa violenza ad assegnare un ruolo alla nuda vita, a inquadrarne i contorni sfuggenti e ad assegnare un nome a coloro che più voce non hanno: il Condannato, il Rifugiato, l’Ufficiale, il Clandestino. Nel campo, si consuma la «separazione tra umanitario e politico (…), la fase estrema dello scollamento fra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino».

Simile distacco è all’origine di esclusioni paradossali: si accolgono esistenze indesiderate e indesiderabili, si controllano coloro che si intende eliminare. Le esistenze del Condannato e del Rifugiato, trasgressori per eccellenza, sono ri-organizzate mediante categorie apparentemente positive quali l’aiuto umanitario o la ri-educazione. Ma nel fondo, è il potere sovrano a rispecchiare se stesso. Alla fine del racconto di Kafka, durante il castigo autoimpostosi dall’Ufficiale, la Macchina d’un tratto si rompe. Ciò tuttavia non le impedisce di eseguire il suo ultimo compito. Fra un ingranaggio esploso e una rotella saltata, l’erpice è ancora lì, teso, pronto a riprodurre la norma a cui occorre attenersi.

Scrive l’autore: «L’apparecchio si stava sfasciando, il suo tranquillo movimento era solo un’apparenza. (…) L’erpice non scriveva, incideva, il letto non faceva rotolare il corpo, ma lo sollevava, vibrando, contro gli aghi. L’esploratore volle intervenire, per cercare di fermare l’apparecchio: quello non era un supplizio come lo intendeva l’ufficiale, era un assassinio. Allungò le mani… E l’erpice si alzò di fianco, con il corpo trafitto, come faceva soltanto nella dodicesima ora».

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