Lessico postdemocratico
Una cartografia concettuale del presente
La congiuntura storica che l’Europa sta attraversando ormai da circa un decennio a questa parte si presenta nelle vesti di una crisi economica, politica e sociale, la cui profondità è tale da non lasciare spazio, almeno per il momento, ad alternative efficaci in grado di spezzarne il circolo vizioso. Al contrario, la crisi sembra ormai essere diventata la condizione strutturale e permanente delle forme neoliberali di governo della società. Siamo cioè di fronte – come da più parti segnalato – alla «crisi come modalità di governo», un fenomeno che rende obsolete gran parte delle categorie politiche della modernità, oggi sottoposte a tensioni e attriti di difficile decifrazione. Concetti come democrazia liberale, sovranità, rappresentanza politica, diritti sociali, la stessa distinzione tra pubblico e privato appaiono oggi come contenitori vuoti: li si può stirare, contorcere, allungare o restringere quanto si vuole, si ha sempre l’impressione di maneggiare attrezzi spuntati, usurati, privi di aderenza alle superfici sulle quali dovrebbero appoggiare. Viviamo in una sorta di «interregno» – per dirla con Étienne Balibar – un limbo nel quale le fondamenta dell’Europa contemporanea sembrano essere scosse dall’irrompere di fenomeni inediti, che minano in profondità la possibilità che essa possa reggere alla sfida perniciosa dei tempi. Di fronte all’opacità del nostro tempo, che rivela tratti talvolta inquietanti, il lessico politico della modernità fatica ad orientarsi sulla scena, come un attore il cui copione appaia sfasato rispetto all’ambientazione in cui pure deve poter recitare. La crisi è insomma anche linguistica, una crisi di corrispondenza tra «nomi» e «cose». Come se, tra gli eventi che accadono e le parole che li nominano, bisognasse oggi percorrere un guado scivoloso e denso di insidie. Questa condizione ci pone di fronte al problema di sviluppare una nuova cassetta degli attrezzi, di levigare la superficie dei concetti per distinguere tra quelli che sono ancora utilizzabili e quelli che, invece, occorre gettare alle ortiche senza nostalgie.
È questa la sfida di un volume collettaneo di recente pubblicazione, dal titolo Lessico postdemocratico, curato da Salvatore Cingari e Alessandro Simoncini (Perugia Stranieri University Press, 2016). Il volume si presenta come un dizionario politico del tempo corrente, il cui intento è quello di offrire al lettore indicazioni utili per abitare la soglia tra quel «non più» e quel che «non ancora»: una sorta di «cartografia concettuale del tempo presente». Da questo punto di vista, si potrebbe dire che Lessico postdemocratico tenta di fare i conti con l’era semantica del post (postdemocrazia, postfordismo, postmoderno, ecc.), in cui ciò che accade sotto i nostri occhi sembra poter essere descritto solo per differenza e discontinuità con ciò che lo ha preceduto. In questo senso, il riferimento alla postdemocrazia presente nel titolo non deve trarre in inganno il lettore: lo sforzo degli autori è comunque quello di varcare la soglia del post, nella ricerca di quegli assetti lessicali che possono definire la cornice storica delle trasformazioni sociali che sono tuttora in corso. Insomma, se l’interregno in cui siamo immersi sembra essere destinato a perdurare fino a data da stabilirsi, occorre premunirsi di fronte al rischio di utilizzare – come direbbe Leopardi – «un linguaggio antico nelle cose affatto nuove». Lessico postdemocratico risponde a questa urgenza.
I curatori del volume hanno così chiamato a raccolta studiosi di diversa provenienza disciplinare per affrontare il lavoro di articolazione concettuale che definisce il possibile archivio lessicale dei tempi presenti: ne deriva un approccio multidisciplinare, in cui la linea di confine, che separa i diversi ambiti del sapere, viene essa stessa posta in discussione per affrontare la complessità del reale. In questo modo, i lemmi che compongono il volume – Crisi, Precarietà, Governance, Meritocrazia, Beni comuni, Diritti sociali, Sicurezza, Populismo, Populismo/Spettacolo, Spettacolo – pur essendo opera dei singoli autori, sono attraversati dal tentativo di dar vita ad una prospettiva corale che non annulli le differenze di metodologie e di analisi, ma che le valorizzi nello sforzo di cogliere gli aspetti paradigmatici della società neoliberale.
Non essendo possibile in questa sede offrire una disamina dettagliata di tutti i lemmi che compongono il volume, mi limiterò ad inquadrare alcune problematiche generali alla luce del filo conduttore (uno dei tanti possibili) che, a mio avviso, ne definisce la coerenza. D’altra parte, il lettore potrà certamente rintracciarne degli altri, tanto è variegato l’intreccio semantico di un volume che può essere consultato, appunto, a mò di dizionario.
In primo luogo, l’indagine sulla crisi europea – iniziata nel 2008 e tuttora in corso – è il tratto che sembra accomunare le diverse prospettive analitiche messe in campo dagli autori. Il tendenziale divorzio tra democrazia liberale e capitalismo viene così alla luce attraverso l’analisi della costituzione economica dell’attuale Unione Europea, in cui emergono le tre «regole d’oro» ispirate dall’ordoliberalismo tedesco: stabilità monetaria, pareggio di bilancio e regime di libera concorrenza sono gli assiomi del progetto europeo di costruzione di una configurazione istituzionale integralmente economica. Su questo punto insiste particolarmente il saggio introduttivo di Alessandro Simoncini (Sull’interregno postdemocratico), disponendo i pezzi del mosaico che i diversi lemmi andranno poi a ricomporre. Si tratta di dispositivi di governo che marcano l’impronta neoliberale della costituzione europea nel quadro degli assetti del capitalismo bio-cognitivo, nel quale «la finanza, la conoscenza e le relazioni sono il motore dell’accumulazione e il luogo dello sfruttamento» (Precarietà). In tale cornice, risulta evidente come i dispositivi di governo e di controllo delle soggettività siano mutati in profondità: dal government, infatti, si passa alla governance, che ribalta la tradizionale separazione tra politica ed economia ed in cui la natura gerarchica e burocratica della sovranità statuale cede progressivamente il passo ad un’articolazione orizzontale delle relazioni di governo, che convogliano una pluralità di attori, di cui lo Stato non è che uno tra i tanti (Governance). Così, l’impronta gestionale tipica del governo dell’impresa tende a diventare la matrice stessa del governo della società, portando alla luce il primato dell’economico sul politico. Nel momento in cui la governance erode le rigide codificazioni della sovranità statuale novecentesca, l’impalcatura giuridica della modernità si trova ad essere messa in discussione: «il diritto smette di poter determinare la direzione della trasformazione economica, rifugge qualunque rapporto con la politica e si preoccupa di essere accettabile, amichevole rispetto alle forze economiche capitalistiche» (Diritti sociali). Le soglie della postdemocrazia sono quindi varcate per lasciare spazio ad una «democrazia decidente», in cui l’esecutivizzazione delle funzioni di governo tende ad avvalersi sempre più di dispositivi securitari (Sicurezza), che devono bilanciare lo smantellamento dei diritti sociali che avviene sotto i colpi delle politiche di austerità e del debito. Il sovrano che «decide sullo stato di eccezione» – di schmittiana memoria – ha ceduto il posto alla dittatura commissaria dei mercati finanziari e della BCE.
L’erosione dei diritti e delle garanzie sociali del welfare, portata avanti senza distinzioni da tutti i governi sotto il rigido controllo delle istituzioni europee, sembra lasciar trasparire due diverse e complementari modalità di governo degli individui nella società neoliberale: la «trappola della precarietà» e la retorica della «meritocrazia» – che connota particolarmente la situazione italiana – si presentano infatti come strumenti di disciplina e di controllo delle soggettività, la prima ridefinendo i rapporti di forza tra capitale e lavoro (Precarietà), la seconda veicolando quella soggettività individualistica «secondo cui il fondamento delle relazioni sociali è di tipo competitivo e in ultima analisi gerarchizzante e repressivo» (Meritocrazia). Ciò significa l’imprimersi nella costituzione materiale delle società europee – attraverso il lavoro, ma non solo – della competitività, intesa sia come modo di operare delle istituzioni pubbliche, sia come norma del comportamento individuale.
È dentro la demolizione degli assetti sociali e istituzionali della democrazia di stampo liberale e delle sue funzioni (e finzioni) rappresentative che «populismo» e «spettacolo» possono articolare la loro presa simbolica sul reale. Entrambi i lemmi sono oggi al centro di un intenso dibattito. In particolare, il populismo si presenta come risposta alla crisi della democrazia liberale rappresentativa, che «induce nel popolo l’esperienza radicale di una mancanza» (Populismo), che di volta in volta viene ad essere colmata dalla costituzione simbolica di un’unità organica perduta tra il popolo e il suo leader che può assumere forme e accenti diversi a seconda dei contesti. Tuttavia, il populismo che si affaccia oggi sullo scenario europeo sembra marcare profonde discontinuità con le sue lontane origini ottocentesche e novecentesche: l’evaporazione della figura omogenea del popolo – sulla quale insistono a ragion veduta gli autori – sembra infatti essere un tratto irreversibile delle società europee, che rende evanescente e instabile ogni riferimento ad una qualche unità sostanziale del soggetto della politica. Così, l’unità omogenea del dèmos, che ogni vocazione populistica della politica porterebbe con sé, non può che essere ricostruita, nelle condizioni odierne, sulla base di una retorica e di un ordine discorsivo che ne restituisce comunque una sagoma incerta e precaria. Nel calderone concettuale del populismo finiscono così esperienze politiche tra loro eterogenee, come Podemos e il Front National di Marine Le Pen: ciò contribuisce ad alimentare l’idea che il lemma «populismo» confonda in realtà proprio ciò che intende spiegare. È per questo motivo che la categoria di populismo sembra intrattenere una segreta alleanza con la rappresentazione spettacolare, della quale condivide la natura di «universale fantasmatico» (Populismo come spettacolo).
Nel volume, infine, c’è spazio anche per l’elaborazione di possibili «discorsi controegemonici». Ne segnalo due su tutti: il primo individua nell’istituzione di un «reddito di base incondizionato» una risposta alle trasformazioni del mercato del lavoro (Precarietà); il secondo riguarda invece la formulazione di un «diritto dei beni comuni» (Beni comuni), che guardi «oltre il pubblico e il privato» a favore non solo di un nuovo assetto per quel «terribile diritto» che è la proprietà, ma anche di un nuovo modo di pensare le relazioni sociali tra gli individui.
In conclusione, rivolgendosi ad un pubblico di lettori non necessariamente specializzato, Lessico postdemocratico consegue il duplice risultato di contribuire a rendere meno indecifrabile il nostro tempo e ad avvicinare – come chiariscono nella premessa i curatori del volume – l’Università al territorio. Non si tratta della tanto sbandierata sinergia con il mercato del lavoro e con la messa a profitto dei saperi e delle intelligenze – il mantra ripetuto ossessivamente da tutti i responsabili delle politiche universitarie e in generale dell’istruzione degli ultimi decenni – ma di un territorio «inteso come realtà sociale libera dall’urgenza immediatamente produttiva, ritenendo che questa debba essere la missione di un’Università pubblica». Un’altra preziosa indicazione per i tempi a venire.
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