Lettera a Nanni sul costruire

Il materialismo poetico di Balestrini

paesaggi5
Nanni Balestrini, Paesaggi verbali, 2002

18 dicembre 1988

Caro Nanni,

Qualche giorno fa partecipavo ad un colloquio di intellettuali parigini in provincia – strana situazione! Comunque, c’era «il» grande letterato del momento, romanziere quattro stelle, chiacchierone e premiato di recente. Comincia a dire che la grande fortuna del nostro tempo consiste nel fatto che due grandi blocchi della narrativa sono stati infine rimossi: il nouveau roman e la letteratura engagée. Poi ha continuato lamentandosi che tutti i romanzi non siano come i suoi e quelli di Umberto Eco: a metà fra Victor Hugo e Jules Verne… Lascio la cronaca, non è poi così interessante. Ti riferisco solo le mie impressioni, e cioè lo stupore che al discredito ingiustamente goduto dalla letteratura impegnata si aggiungesse un così solido odio per il nouveau roman. Mi chiedevo per quale ragione questa parentela fosse proposta e rispondevo a me stesso che ciò probabilmente avveniva poiché il nouveau roman era stato una specie di realismo dell’astratto, iniziale rinnovamento dell’avventura del grande realismo classico in un mondo ormai incapace di costruire soggetti eroici, solo produttivo di immagini e di strutture insensate e sconnesse. E aggiungevo fra me e me: ma quest’avventura, mutatis mutandis, non è forse la medesima di quel realismo che sconfinò nel cubismo? Realismo di Cézanne-nouveau roman… L’equazione «nouveau roman – realismo del mondo astratto – arte impegnata» che continuavo a propormi, mi sembrava sempre meno improbabile, anzi, trovavo sale in questo ragionamento… Ovviamente ho continuato a pensarci. Ed ora, scrivendoti, e rivenendo a quella definizione del bello sulla quale, credo, tu concordi – il bello è il prodotto di un’azione collettiva di liberazione che si presenta come eccedenza dell’essere – bene, ritornando su questo, mi veniva in mente che quell’equazione poteva illustrare la definizione e soprattutto introdurci alla discussione dei nostro nuovi bisogni teorici.

Ma lasciamo da parte analogie ed espemplificazioni. Proviamoci piuttosto per un momento sul «dover essere» – non come impossibile normativa dell’arte ma come idealtà fungente, utopia che corre in essa, prassi che la costituisce. Ora, non riesco a comprendere come la poetica possa non essere costruttivistica. Il costruttivismo è il destino della grande poesia e del grande romanzo. Ma oggi lo è a fortiori. Perché il mondo nel quale la funzione poetica è impiantata, è un mondo astratto, fattizio, indeterminato, nei sensi e nei valori. Sensi, valori, soggetti, non possono quindi che essere costruiti. Non precedono a monte ma sgorgano a valle, non anticipano ma concludono. Sono prodotti della struttura. È un lavoro collettivo quello che produce la singolarità. È la multitudo degli elementi narrativi, dei fili strutturali, dei reseaux significativi che costruisce il soggetto. La trama, il nesso recitativo non sono trovati ma costruiti, un paradigma viene mostrato e sviluppato. L’ermeneutica dell’arte contemporanea non riguarda il passato, la preesistenza degli elementi narrativi, ma il loro futuro, la loro costituzione. Questo lavoro avviene allo scoperto. In questo senso ogni espressione artistica oggi non può che essere astratta e costruttiva. Questo è il solo terreno sul quale oggi un’ontologia dell’arte è possibile.

L’avanguardia non trascina il tempo ma lo costituisce radicalmente – essa è la definizione del bello che abbiamo dato e che diviene motore cosciente della propria produzione 

Se ora, a partire da queste considerazioni, ritorno a quanto raccontava il grande letterato, mi risultano sempre più chiari il suo opportunismo e la sua non troppo nascosta volgarità. In realtà, liquidando due vecchi feticci – il nouveau roman e l’arte impegnata – egli cercava di distruggere la funzione d’avanguardia che l’arte deve comunque esercitare. Quest’avanguardia non è oggi impegno morale, anima bella, militanza ideologica, ecc. – il nuovo realismo è piuttosto testimonianza di un’epoca disperata – realismo costruttivo punk – violenza espressiva e ribaltamento delle tecniche di mistificazione della comunicazione. Una sola fanzine punk contiene più realtà di tutti i romanzi di Eco e di Orsenna. La disutopia – speranza incarnata da colui che sa di non poterne più nutrire – è la linea di luce del nostro mondo. La violenza della nostra esperienza, astratta, rivolta contro di noi e contro tutti, è l’unica possibilità di produrre catarsi – ma una catarsi essa stessa frustrata. Questa è l’avanguardia che il mare di vuote rosee favole del «premiato romanzo contemporaneo» non riuscirà ad annullare. L’avanguardia non trascina il tempo ma lo costituisce radicalmente – essa è la definizione del bello che abbiamo dato e che diviene motore cosciente della propria produzione.

Nanni caro, eccoci dunque a riproporci il tema del grande realismo. Adeguato al nostro tempo, all’astrazione drammatica nella quale si presenta l’essere. Certo, il grande realismo è sempre stata un’azione collettiva che produceva un’eccedenza d’essere – ma la sua novità, la novità della sua essenza, la si misura oggi sul tema dell’astrazione. E allora parliamo di nuovo di quest’astrazione, e di come l’attività costruttiva che è propria di ogni esperienza artistica realistica si provi in essa. Vi sono due metodi – l’uno è quello dell’analisi e della ricomposizione: è la matrice del realismo, classico, il metodo di Manzoni, Balzac, Tolstoj. Oggi però, diversamente da ieri, dall’arte romantica, analisi e ricomposizione si provano sull’astratto. Secondo questo metodo, l’astratto viene suddiviso nelle sue forme elementari, e ricomposto circolarmente, come una macchina, un motore – altrimenti detto: la realtà è mostrata nella sua astrazione, poi criticamente svuotata di senso, e infine ricostruita secondo linee di riorientazione semantica. In questo procedimento l’autore impegna la sua responsabilità (altro che fine dell’arte impegnata!). Handke, ed in genere tutti i modi di narrativa, letteraria o cinematografica che su questo terreno si provano, mostrano una riflessività ricompositiva che crea – attraverso l’astratto – nuova soggettività. Il secondo metodo è quello decisamente punk. L’accostamento all’astratto non è qui analitico o ricompositivo, ma idealtipico e diffusivo, antagonistico e catartico. L’astratto è descritto secondo tipologie binarie che vengono trattate in forma antagonistica. Questa funzione tipica ed antagonistica viene poi estesa nella maniera più larga – germinazioni multiple la seguono, modelli si moltiplicano, fino ad accumulare esemplificazioni didattiche ed esplosive dell’assurdità del reale. Da Dante Alighieri in poi una grande tendenza del realismo si è mossa in questo senso. Modernamente gli archetipi sono Stendhal, i romantici, Proust e Kafka. Oggi il realismo si modifica ancora in riferimento alla modificata natura dell’astratto. Il punk si rivela essere un punto altissimo di allucinata affermazione realistica. La disutopia punk è la sensazione di una catarsi possibile e la certezza della sua ineseguibilità. Il grande realismo è oggi vissuto fra queste due grandi tendenze, scisso e ricomposto fra di esse. In entrambe, e nella loro combinazione, il realismo è prima di tutto ed essenzialmente costruttivo. Il realismo è la poetica che non imita ma ricostruisce il mondo. Quando la natura e la storia sono divenute astratte, e fino a che punto astratte!, c’è da chiedersi – d’altra parte – se sia mai possibile un’estetica alternativa a questo nostro realismo e alle sue diverse metodologie.

La produzione dell’utensile è la stessa cosa della costruzione del mondo. Mai il paradosso è stato più forte, mai esso è stato più felicemente risolto. Epistemologia ed ontologia dormono sotto la stessa coperta 

Quando penso al nostro tempo, alla formidabile rivoluzione che abbiamo vissuto e alla crisi e alla controrivoluzione che abbiamo subito, quando penso alla profonda analogia che la nostra epoca mostra con la crisi della Rinascenza e l’inizio del moderno – penso anche ai grandi autori che hanno illustrato quel momento: a François Rabelais, in particolare, e per altri versi (e in altre dimensioni culturali, rispecchianti comunque gli stessi elementi di crisi) a Teofilo Folengo e a Miguel Cervantes, penso cioè a come un mondo – un mondo nuovo – ieri quello dell’umanesimo e della borghesia, oggi quello dell’astrazione tecnologica e del socialismo – si mostri incomprensibile al suo inizio e come le forze che in esso vivono proponendo il nuovo, vogliono subito un’organizzazione fantastica e libera. Allora, il carattere liberato e incompiuto della nuova costituzione del mondo fu dato nella chiave del grottesco, del grande comico – l’arte fu impiantata su quello che avviene «dalla cintola in giù». Ed oggi? Il comico, la risata, il sarcasmo hanno ancora il loro spazio. Nell’enorme frattura, nel sistema di opposizioni estreme che qualifica l’umano, il riso trova la sua metafisica giustificazione. L’unica definizione pertinente del ridere consiste d’altra parte in ciò, in questo senso della separazione e del contrasto. Tuttavia, quell’enorme fioritura fantastica e comica alla quale storicamente esemplificando ci riferiamo, non vale come paradigma del nostro realistico accostarci all’astrazione del nostro tempo. Perché oggi la modificazione storica è divenuta una mutazione biologica – e il riso, se resta sempre un prezioso aiuto nella vita, non è tuttavia chiave di conoscenza. Il riso – non è più strumento, per scoprire con nuove figure fantastiche nuova realtà ontologica – troppo difficile, problematica, feroce è infatti la natura di quest’ultima. Ma al di là del riso restano comunque il paradosso, l’estremità della tensione ideale, la possibilità di nominare realtà nuovissime, l’urgenza di rendere la parola in modo irriducibilmente originale. Perché nominare questo nuovo mondo astratto è prendere la parola al suo interno. La differenza con la crisi del Rinascimento è tutta qui: allora esistevano ancora potenze esterne alla costruzione umana e storica del reale – la costruzione del reale si configurò allora come manifattura, produzione su materiali esterni – l’uomo stesso diventò forza lavoro, essenza alienata – oggi tutto ciò è finito, la costruzione del reale va di pari passo con la costruzione dell’utensile, la produzione dell’utensile è la stessa cosa della costruzione del mondo. Mai il paradosso è stato più forte, mai esso è stato più felicemente risolto. Epistemologia ed ontologia dormono sotto la stessa coperta.

È a noi dunque, intera, la possibilità di costruire il mondo. Di costruirlo così come abbiamo avuto la possibilità di decostruirlo. In questa radicale operazione, l’arte anticipa il movimento complessivo dell’umano. Essa è un potere costituente, una potenza ontologicamente costitutiva. Attraverso l’arte il potere collettivo della liberazione umana prefigura il suo destino. Ed è difficile immaginare il comunismo fuori dell’azione prefigurativa di quest’avanguardia di massa – che è la multitudo dei produttori di bellezza.

Con ciò siamo di nuovo al punto. Al punto cioè nel quale, dopo essere passata attraverso l’investimento etico ed aver concepito il realismo come costituzione ontologica, l’arte ritrova nell’attualità la sua dimensione di impegno politico rivoluzionario. Vale a dire che, necessariamente, produrre del bello è rivoluzionario.Vale a dire che, necessariamente, l’artista che produce del bello è impegnato. E se non si ritiene tale è un ipocrita – o non è un artista. D’altra parte la misura dell’impegno non è nei confronti di un partito ma dell’essere – bisogna essere nell’essere liberato, dobbiamo essere per la liberazione, altrimenti non c’è arte. Il riconoscimento collettivo di questo impegno non avviene attraverso segni formali o celebrazioni liturgiche – avviene nella dinamica della cooperazione sociale produttiva. La partecipazione a questa dinamica chiarisce da che parte stiamo. Se epistemologia e ontologia si collocano sul medesimo terreno, allora la scelta di campo diviene immediata – liberazione o dominio, arte o mercato, si oppongono sia come realtà antagonistiche che come disposizioni soggettive.

Torniamo a noi, caro Nanni. Oggi bisognerebbe riaprire la funzione critica, polemica – riempirla, diffonderla, imporla. Non so bene come si possa fare ma sono certo che si deve fare. Ne succedono di tutti i colori. L’autocensura, quando si parla di certe cose, è talmente forte che, oltre a termini come rivoluzione, avanguardia, comunismo, anche nomi storici come Robespierre o Lenin sono stati cancellati dalla memoria. Il colmo, credo, consista nell’esclusione che da un recente Dizionario della Rivoluzione francese è stata fatta di Saint-Just. La reintroduzione di quelle parole e di questi personaggi nella coscienza dei contemporanei, non so bene come possa avvenire – di sicuro so che o sarà bella o non sarà. Un modello narrativo va quindi costruito – che passi atrraverso tutte le arti e le ricomponga in unità di progetto pratico. Non so bene se la via da seguire sia quella del grande realismo costruttivo oppure quella punk, dissacrante, antagonistica e diffusiva. Forse quest’ultima meglio corrisponde all’assurdità ed alla crudeltà del tempo che viviamo. Ma c’è altro. Quando, inseguendo una storia possibile del materialismo nella tradizione poetica del mondo occidentale mi sono trovato davanti alla grandissima triade poetica ottocentesca: Hölderlin, Leopardi, Rimbaud, mi era sembrato di cogliere quel limite sul quale la falsità del mondo perviene a una tale profondità da scatenare la luce dell’alternativa, la potenza della ricostruzione. Ora, questo materialismo creativo, che anche la grande pittura come il grande teatro ci propongono nei momenti di crisi più pesante, è l’irresistibile linea difensiva che possiamo tenere. Pronti ad andare più in là, capaci di spedire fin da subito pattuglie in territorio ignoto, per osservare e sabotare, ma soprattutto per sperimentare e ricostruire.

Estratto da Arte e multitudo, a cura di Nicolas Martino, DeriveApprodi, Roma 2014. 

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