L’ipotesi di un interregno secolare

Alfredo-Jaar-MaXXI-Roma-Gramsci-1024x1024
Alfredo Jaar, «Gramsci» (2004). Courtesy MAXXI e Galleria Lia Rumma.

È appena uscito, per Quodlibet, il nuovo saggio di Massimo De Carolis «Convenzioni e governo del mondo», dedicato all’analisi di quel dispositivo ambivalente che sono le convenzioni. Sempre in bilico tra la festa e la guerra, possono veicolare tanto l’accordo quanto il conflitto, tanto la stabilità quanto la crisi. Nell’universo della convenzionalità domina perciò l’insicurezza, non c’è limite al possibile e la normalità convive con lo spettro del tracollo di ogni ordine civile. Su un terreno così insidioso, le forze che aspirano a un nuovo equilibrio globale devono misurarsi con una rete di centri di dominio cresciuti alla frontiera tra politica ed economia, pronti a rendere cronica l’insicurezza pur di mantenere intatta la propria egemonia. La posta in palio, nello scontro, è il governo del mondo. Il libro sarà presentato domani 21 novembre a Napoli a Palazzo Reale a p.zza del Plebiscito alle ore 17.30 (nell’ambito di Campania Legge – Fondazione Premio Napoli), insieme all’autore e a Laura Bazzicalupo, Università di Salerno, Massimo Adinolfi, Università di Napoli Federico II, e Alfredo Guardiano, Magistrato di Cassazione. Per l’occasione pubblichiamo un paragrafo dedicato a Gramsci, ringraziando l’editore e l’autore per la disponibilità.

***

Nel 1930, nella Casa penale di Turi in cui era detenuto già da due anni, Antonio Gramsci annotò alcune brevi osservazioni sulla crisi sociale e culturale del suo tempo, tanto incisive e lungimiranti da essere oggi, a quasi un secolo dalla loro stesura, tra le pagine più note e più frequentemente citate dei Quaderni del carcere.

Come gran parte dei passi rubricati nei Quaderni sotto il titolo Passato e presente, anche queste osservazioni prendono spunto da un tema discusso, all’epoca, su giornali e riviste. In casi simili, il metodo di Gramsci consisteva nell’estrarre, di volta in volta, il nucleo veramente significativo di tali discussioni, sfrondandolo della superficialità e del provincialismo che erano all’epoca la norma nel dibattito fra intellettuali italiani.

Nel caso presente, il tema e la crisi di autorità, denunciata allora su più fronti e interpretata di regola come declino morale e come «ondata di materialismo». La sostanza del fenomeno, per Gramsci, è che la classe dominante «ha perduto il consenso»: le grandi masse «non credono più a ciò in cui prima credevano» e, in particolare, non credono più che gli interessi dei gruppi dominanti coincidano, nel profondo, con l’interesse generale. Non ci si fida più degli esponenti del potere, non si e disposti a condividerne valori e obiettivi perché non li si percepisce più come vettori di un progetto sociale complessivo, ma solo come portatori di interessi di parte. In una parola, la classe al potere «non è più “dirigente” ma unicamente “dominante”» (Gramsci 1975, p.311). Eppure, nonostante questa perdita di autorità e di credito, i detentori del potere restano al loro posto e l’ordine sociale si riproduce intatto, semplicemente perché viene posto un «impedimento meccanico» a chi potrebbe realmente dirigere la società, mettendolo cosi nell’impossibilita materiale di «svolgere la sua missione». Viene insomma bloccato, inibito, non solo il rinnovamento sociale nel senso più ampio – come trasformazione delle gerarchie e delle forme di riproduzione della società – ma persino il normale avvicendamento delle generazioni, di modo che ai «più giovani» non si lasciano «orizzonti aperti» (ivi, p. 116). In breve, «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» (ivi, p. 311).

Nell’ultimo decennio, la frase appena riportata e divenuta enormemente popolare. Non solo e citata in saggi e studi critici sulla società contemporanea ma e anche entrata a far parte dell’arsenale retorico di molti opinionisti e può accadere persino di vederla stampata su qualche maglietta estiva. Al netto della sua efficacia letteraria, tanta popolarità segnala evidentemente una qualche analogia tra lo scenario epocale descritto da Gramsci e quello nel quale viviamo attualmente. Tendiamo a riconoscerci nella sua descrizione e a percepire anche la nostra situazione storica come una specie di interregno.

Certo, se l’affinità si riducesse alla sola sfiducia dilagante, alla crisi di autorità e allo scarso credito dei gruppi dominanti, l’intera analogia resterebbe generica e, in definitiva, priva d’interesse. Che il popolo si lagni del governo non è qualcosa di sorprendente e che, a distanza di un secolo, le forme del malcontento esibiscano una qualche affinità non sarebbe, di per sé, una coincidenza degna di particolare attenzione. Anche per Gramsci, del resto, fenomeni del genere non sono che la spia superficiale di una «crisi organica» molto più sotterranea e duratura. Le vere radici dell’interregno, dal suo punto di vista, andrebbero cercate in questa dimensione strutturale – più profonda e al tempo stesso molto più sfuggente – che nei Quaderni e oggetto di un’attenzione costante, minuziosa e a tratti quasi labirintica. Il punto e che, se muoviamo anche solo qualche passo esplorativo su un terreno tanto complesso e scivoloso, le analogie col presente non accennano affatto a dissolversi, ma si fanno anzi più intense e più inquietanti.

Per cominciare, «della crisi come tale non vi è data d’inizio». A poter essere datate sono solo «alcune manifestazioni più clamorose, che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente» (ivi, p. 1755). Una di queste manifestazioni e, secondo Gramsci, il crollo della borsa di New York nel 1929, ma la verità è che «tutto il dopoguerra e crisi». Più ancora, «la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione». Non però come un inizio puro e semplice, ma solo nel senso specifico di essere stata «la risposta politica e organizzativa dei responsabili» a una rete di contraddizioni già latenti, tra le quali spicca il contrasto fra la dimensione sempre più cosmopolita dell’economia e il carattere, viceversa, sempre più «statale-nazionalistico» del potere politico (ivi, p. 1756).

Bastano questi pochi accenni per capire che l’interregno, nella concezione di Gramsci, affonda le radici in una dinamica globale, che non ha un preciso inizio e, a prima vista, non prevede una precisa conclusione. Una dinamica di cui ancora ci sfuggono i lineamenti precisi, ma che sembra coinvolgere e travolgere, a pari titolo, tutti i principali nuclei istituzionali della modernità: l’economia capitalistica non meno degli Stati nazionali, i partiti politici non meno della cultura ufficiale. E il cui esito non prende ne la forma del conflitto né quella della stabilità: assomiglia piuttosto a una condizione di ristagno, di paralisi, in cui la capacità sociale di far nascere il futuro viene come svuotata e dissolta nella riproduzione immutata del presente. Un equilibrio patogeno insomma, incline a oscillazioni violente e distruttive, eppure nonostante tutto un equilibrio, capace di conservarsi e di durare.

Come si può vedere, anche quelli che Gramsci considera i tratti profondi della crisi hanno un puntuale corrispettivo nello scenario contemporaneo, spesso in forma anche più radicale e intensa che non un secolo fa: l’attrito tra la dimensione cosmopolita dell’economia e il radicamento nazionale degli Stati; l’aggrovigliarsi di crisi economiche, politiche e sociali; soprattutto, l’equilibrio stagnante che sembra dover soffocare sul nascere ogni slancio verso un nuovo inizio. A entrare in gioco, in un simile quadro, sono problemi strutturali e patologie sociali per le quali neanche la società contemporanea sembra ancora disporre di un farmaco efficace. Di conseguenza, per vaga che possa essere, la percezione di una qualche analogia tra i due momenti storici merita senz’altro un approfondimento sistematico, se può davvero schiudere l’accesso a questioni di tale portata. Dovrebbe essere chiaro pero fin dal primo momento che un progetto cosi concepito e destinato a incamminarsi su sentieri incerti, alla ricerca di una continuità sotterranea che potrebbe aver segnato nel profondo l’intera evoluzione sociale dell’ultimo secolo ma che resta ancora oggi, a quanto pare, un enigma irrisolto, di cui riusciamo a percepire a malapena i singoli frammenti, senza distinguere ancora l’intero disegno.

Di fronte alle difficoltà che si annunciano, può essere d’aiuto constatare che un’indagine come quella che stiamo progettando potrebbe, in fondo, seguire un metodo non troppo distante da quello che Gramsci applicava al dibattito intellettuale del suo tempo. Partendo dalle analogie più generiche tra la crisi del secolo scorso e quella attuale, ma trattandole come semplici spie superficiali di un processo più nascosto, si tratterà di portare alla luce uno per uno i lineamenti della struttura profonda, nella speranza di arrivare a coglierne, alla fine, l’intera fisionomia. L’ipotesi è che sia possibile, per questa via, ricostruire una trasformazione delle dinamiche istituzionali che, all’epoca di Gramsci, si era appena resa percepibile e che, da allora, non ha mai smesso di progredire, sia pure tra alti e bassi, fino a raggiungere nei nostri anni una visibilità quasi piena.

Se l’ipotesi è corretta, insomma, l’interregno non si è mai concluso e, ciò che più conta, la sua dinamica profonda non è affatto limitata alla dimensione nazionale italiana e nemmeno a quella continentale europea, ma tocca fin da principio l’ordine mondiale e può quindi essere adeguatamente ricostruita solo a tale livello.

Newsletter

Per essere sempre aggiornato iscriviti alla nostra newsletter

    al trattamento dei dati personali ai sensi del Dlg 196/03