L’opera del comune
Che cos'è un'OperaViva?
OperaViva è, lo sappiamo, metafora navale. Galleggiare nel piano di immanenza, sostenendo da soli il peso della navigazione. Ma attenti. Perché, imbarcato sullo stesso signifiant, viaggia un signifié clandestino. Un ospite inatteso, perturbante, al limite anche sgradito, ma che pur tuttavia vale forse la pena ascoltare, non fosse altro che per ributtare a mare quel che ha da dire. O magari, com’è sempre più umano fare, per concedergli asilo. Da secoli, e nonostante il silete di Gentili, la teologia continua a parlarci. In entrambi i sensi: ci parla, ne siamo parlati.
Ed ecco che anche in OperaViva risuona l’eco di questo incurabile residuo. Nel linguaggio teologico, dai Padri alla Scolastica e oltre, viva è l’opera abitata dalla grazia, compiuta in spirito di carità. Opera viva non è dunque lo stesso che opera buona: «E in questo senso tutte le opere che son buone nel loro genere, compiute senza la carità, devono dirsi morte: poiché esse non derivano da un principio vitale; come diciamo che dà una voce morta la cetra» (Tommaso, ST, IIIa, q. 89, a. 6).
La carità – che l’Iconologia di Ripa rappresenta a mo’ di fiamma ardente, che «per la vivacità sua c’insegna, che la Carità non mai rimane di operare secondo il solito suo amando» – è la radice di vita che vivifica le opere, dileguando però paradossalmente l’individualità dell’operante nel fuoco dell’amor communis.
Per converso, l’opera morta sarà quella fatta in stato di peccato mortale, catturata cioè all’interno del circuito proprietario dell’amor sui. Di qui l’equivalenza, stabilita da Agostino, tra «amputatio proprietatis» e «augmentum charitatis» – equivalenza che evidentemente porta con sé sempre la possibilità del suo contrario.
Traduciamo ora, in una lingua a noi più congeniale. L’opera viva è l’opera del comune che opera contro le opere morte della proprietà, è l’insorgenza del Quinto Stato che costruisce la sua Città del Sole, è l’emergenza delle nuove istituzioni che spuntano come fiori tra le macerie delle vecchie. Ribadiamolo: opera viva non è (necessariamente) opera buona, perché la vita è indifferente al dettato delle virtù. Può anzi comportare una certa dose di cinismo, di spregiudicatezza, persino di violenza – purché sia divina violenza creatrice: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49). Opera viva è, in breve, esodo dall’opera morta, «metanoia apo nekron ergon» (Eb 6, 1).
Ed ecco il punto: che farsene delle opere morte che ovunque ci circondano nel deserto del reale? È ancora possibile vivificarle o bisogna invece abbandonarle, abbatterle una volta per tutte? È, anche questo, un problema teologico. Per Tommaso nulla, neanche la penitenza, può ridare vita a un’opera morta, perché l’origine da cui è scaturita era e resta contaminata dal male: «le opere non possono tornare di nuovo a procedere dal loro principio: perché passano e non possono essere ripetute», e ciò che è passato non può essere cambiato.
Ma per noi, che abbiamo rinunciato alla metafisica per incamminarci sui sentieri interrotti della contingenza, non sarà forse possibile anche questo ultimo miracolo? Chissà allora che il fuoco del comune non possa arrivare a redimere – risignificandolo, riutilizzandolo – persino il nostro passato proprietario.
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